Lettere a Giobbe

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Dottore in Teologia Spirituale, fr. MichaelDavide, cinquantottenne monaco benedettino che vive nella Koinonia de la Visitation a Rhêmes-Notre-Dame (AO), intesse in modo originale una corrispondenza piena di affetto e di empatia con Giobbe.

Gli scrive quarantadue lettere e sette note a margine, accompagnandolo nel suo cammino doloroso di aspro confronto con gli “amici” venuti a consolarlo ma anche di dialogo pieno di dignità e di onestà con il Dio al quale è rimasto fedele.

Ventotto lettere sono “dalla parte dell’uomo”, nove “dalla parte di Dio” (in cui gli amici sono spariti) e le ultime cinque “dalla parte dell’uomo e di Dio”.

Giobbe e gli amici

L’autore segue passo passo lo snodarsi della dolorosa avventura umana e spirituale di Giobbe, dedicando una lettera ad ogni capitolo del libro. Egli riassume il tema spirituale-teologico sotto un titolo molto preciso, icastico.

Lo specifico di questo libro di MichaelDavide è quello di unire profonde riflessioni spirituali a sottili e utili annotazioni di carattere psicologico. Egli accompagna il cammino di Giobbe facendolo proprio, confrontandolo col proprio vissuto.

Giobbe è lo specchio di ogni uomo e in lui ognuno può ritrovare i meandri della propria vita e le vie d’uscita per viverle con dignità e con frutto.

L’autore fa notare come gli amici di Giobbe, con l’intenzione di difendere Dio a tutti i costi, sostengano a spada tratta e, nel caso di Eliu anche senza alcuna empatia, la teoria che il dolore derivi da una colpa commessa, di cui si sia più o meno consci. Gli amici difendono Dio spingendo Giobbe a confessare ciò di cui egli non si sente colpevole. Lo scontro si fa anche violento nelle parole, ingiusto nei contenuti, sbagliato nell’approccio.

Prevale la teoria astratta difesa anche contro l’evidenza del dolore presente in modo misterioso e drammatico negli anfratti che la vita pone dinanzi all’uomo.

Giobbe difende con forza la propria dignità, senza piegarsi a una sottomissione pura e semplice a un supposto disegno punitivo di Dio. Non accetta l’umiliazione dell’uomo di fronte al Creatore, ma resta fermo nel suo volersi confrontare con lui.

Specchio di umanità varia

La riflessione di MichaelDavide si snoda sui temi più vari, emergenti nei diversi capitoli del libro di Giobbe: la felicità e la dignità, la tranquillità e l’ipocrisia, l’illusione e la fedeltà, la ragione e la disperazione, la religiosità e la vita, la sapienza e il rispetto, il terrore e la vergogna, i sogni e la tolleranza, la tentazione e la libertà, la pace e la trascendenza, la coscienza e il mistero.

I primi tre compagni sono alla ricerca delle cause del male che ha colpito Giobbe, mentre Eliu ricerca il fine al quale deve portare il dolore: la rassegnazione e la sottomissione a Dio, l’obbedienza a lui senza discussione.

Le riflessioni dello studioso sottolineano e difendono la dignità dell’uomo anche nella sua eventuale colpa, esortano a non rimanere prigionieri del rammarico che fa marcire la vita, condannano la posizione di Eliu che si fa maestro/alunno integerrimo e saccente che ripete la lezione a memoria, non vedendo che, in tal modo, si erge orgoglioso allo stesso livello di Dio. Eliu manca di intimità con Giobbe, quell’intimità che invece connota il dialogo fra questi e Dio il Creatore.

Provvidenza. Domande e risposte

La provvidenza non si mostra solo nell’assenza dei problemi della vita. Che dire delle tragedie presenti nel dolore innocente e non collegato a colpe morali evidenti a cui si potrebbe eventualmente collegarlo secondo una certa teologia/ideologia?

Per Eliu tutto funziona alla perfezione, ma la vita ha i suoi lati oscuri. Dio è presente alla vita dell’uomo, ma non è il burattinaio di ogni gioia e di ogni disgrazia. La provvidenza di Dio c’è, ma non può essere irreggimentata e regolata secondo i criteri umani.

Non è che Dio rifiuti di rispondere all’uomo oppure che il dolore sia questione di una necessaria correzione, come sostiene Eliu. Secondo MichaelDavide, Dio dà a noi uomini il tempo di rettificare le nostre attese e di nominare meglio i nostri bisogni, purificando il nostro modo di immaginare la vita dell’Altissimo senza più doverla immaginare così diversa e necessariamente più beata della nostra.

Giobbe grida a Dio: «Dov’eri? Perché non sei apparso fin dall’inizio per liberarmi dalle sofferenze?» Una risposta venne al monaco Antonio: «Io ero qui, o Antonio, ma aspettavo di vedere la tua lotta. Perché l’hai affrontata e non sei stato vinto, io sarò sempre il tuo aiuto e ti renderò famoso in ogni luogo» (cit. a p. 201).

Nell’uragano Dio risponde e Giobbe, senza umiliarlo ma ricordando che il grande mistero della creazione non è la rassicurazione e la protezione, ma la reciproca cura. «Questa cura è possibile nella fedeltà mai scontata, ma sempre complessa fino ad essere talora ambigua. La fedeltà non è mai unidirezionale, ma sempre mutevole e cangiante» (p. 202). Giobbe cerca Dio, ma Dio ha cercato l’uomo fin dalla creazione: «Dove sei?» (Gen 3,9).

Alle venticinque interrogazioni che Dio rivolge a Giobbe non è possibile alcuna risposta. Ciò che rasserena il cuore di Giobbe è però – secondo MichaelDavide – il fatto che l’Onnipotente parli come «vento pieno di rugiada» (Dn 3,50).

Dio ha argomentazioni simili a quelle di Eliu, ma pronunciate con amore e intimità. Dio non schiaccia ma solleva, all’amico ritrovato e mai sconfessato (a differenza degli amici…) l’Altissimo si confessa e, così facendo, si consegna.

L’intimità fa la differenza tra le dimostrazioni degli amici e la relazione redenta con cui l’Onnipotente avvolge Giobbe.

Dolore, cosmo e stupore. La terapia della bellezza

Il dolore non viene spiegato né decifrato da Dio, né per la sua causa né per il suo fine, ma semplicemente accolto e incastonato nell’insieme della creazione come una gemma su una corona.

Dio prende per mano Giobbe e lo accompagna come un bambino a contemplare l’immensità e la bellezza della creazione, perché possa imparare a meravigliarsi senza voler sempre capire. Dio fa comprendere serenamente a Giobbe il suo posto e il suo ruolo nell’eterno fluire delle cose.

La bellezza del cosmo non è fissa, ma si muove e si trasforma continuamente. Il cosmo respira con ordine e nel rigore senza essere meccanico, ma vivente. Esso tiene conto dei nostri criteri di bontà e di verità, ma li supera in un movimento più grande. Siamo parte e non regolatori del cosmo, che è un tripudio di movimento e di libertà. Ogni libertà e ogni costrizione si incontra e spesso si scontra con altri movimenti e con libertà diverse e questo è bello.

Come si fa con un bambino, Dio vuole che Giobbe non capisca il funzionamento del cosmo, ma partecipi alla gioia di esistere. Occorre che lo sguardo del cuore si decentri, per essere libero per l’incomprensibile quale segno della grazia originale e non dell’originale peccato.

«Ammettere di essere incapaci di spiegare lo stupendo enigma della bellezza ci mette in grado di non avere più la necessità di spiegare l’enigma del dolore. Ci liberiamo così persino dal doverlo necessariamente narrare, il dolore, ci basterà viverlo. L’Altissimo ti mostra le sue opere e in questo modo ti distrae dai tuoi pensieri per immergerti nel mistero. Puoi finalmente percepire un mondo fuori di te» (pp. 208-209).

È una «terapia della bellezza. Non è dimenticanza, ma recupero delle proporzioni per guarire dalla malattia religiosa di assolutizzare e di verticalizzare esageratamente. Così facendo, si corre il rischio di perdersi tanta bellezza col prendersi troppo sul serio» – scrive l’autore (p. 209). Il Creatore ci aiuta, attraverso l’ammirazione, a recuperare l’equilibrio e a ritrovare le giuste proporzioni.

La rinuncia più grave e la più necessaria «riguarda il nostro voler essere a tutti i costi sapienti. In verità, l’unica cosa veramente concessa è diventare sensibili a ogni palpito di vita senza mai volerlo definire» (ivi). Le diverse realtà si manifesteranno allora, innocentemente, nel loro spessore di profondità anche irritante. Nel cosmo c’è posto per il baldanzoso cavallo e la delicatissima farfalla.

L’ippopotamo e il Leviatàn

Con la descrizione dell’ippopotamo siamo posti di fronte alla complessità in cui gli opposti si incontrano senza mai coincidere. Il cavallo del fiume mangia erba, ma deve anche stare nell’acqua per proteggere la sua pelle delicata. Agli occhi dell’Onnipotente noi siamo forse come dei piccoli ippopotami dotati di grande forza, eppure bisognosi di così tanta gentilezza.

Nel Leviatàn c’è una sottile corrispondenza tra la mastodontica e impressionante grandezza e la durezza del suo cuore. I sapienti antichi affermavano che il Leviatàn fu privato da Dio della sua compagna e castrato, per arginare la sua violenza. Privato di fecondità e di futuro, nella paura della solitudine, in esso si moltiplicò la violenza. Esso reagisce al dolore con una ribellione esasperata attraverso cui ottimizza al massimo ogni briciolo di vita e di forza in un vitalismo tanto spaventevole e triste.

Il Leviatàn rispecchia uno stato altamente paradossale: infinita pena con enorme piacere. È il passaggio dal piacere di stare con qualcuno alla paura di rimanere soli. A livello spirituale si genera un’affezione crescente al potere, della cui smania si diventa insaziabili.

L’Altissimo si congeda da Giobbe mostrando il mostro che possiamo diventare quando il cuore diventa «duro come pietra» (41,16), per proteggersi dalla sofferenza. «Il Leviatàn non simboleggia l’Onnipotente che ci sovrasta fino ad atterrirci con la sua forza. Siamo noi quando diventiamo ostaggi del nostro dolore» (p. 221).

I rabbini sostengono che in paradiso i giusti gusteranno un banchetto a base di carne di Leviatàn. La forza bruta sarà vinta per sempre. I beati si nutriranno delle sue carni per trarne energie di gioia eterna. Annota l’autore: «Anche il nostro destino, che dovrebbe diventare tutt’uno col nostro più puro e vero desiderio, dovrebbe essere quello di nutrire la felicità degli altri» […]. Il dolore può indicare la via per ammansire le “bestie feroci” che abitano dentro di noi e ci straziano. Diventa un dovere di umanità non dare spazio a ciò che in noi “superbo s’innalza”, isolandoci e addolorandoci» (p. 222).

La resa

La lettera quarantaduesima è dedicata alla resa di Giobbe, amico intimo di Dio, non umiliato ma onorato come «il mio servo Giobbe» (42,7).

La confessione finale di Giobbe (42,2-6) non è di colpa, né di peccati: è una professione di misericordia e di stupore. Non c’è niente da aggiungere tra Giobbe e l’Onnipotente. È una confessione fatta ad un amico, a cui si può confessare di essere polvere e cenere senza sentirsi né avvilito né schiacciato.

L’Onnipotente ha creato la piccola esistenza dell’uomo non in concorrenza, ma in danzante armonia con «cose troppo meravigliose» (42,3). Questa è la ragione per cui sarebbe inutile voler capire o voler comprendere: sono semplicemente stupende e basta.

Giobbe ora vede e conosce ciò che gli appartiene così profondamente da essere irrinunciabile. «Il molto dolore assaporato non era dovuto alla colpa, ma alla “giustezza” del tuo modo di vivere – scrive MichaelDavide a Giobbe –. Non hai mai dimissionato dalle tue responsabilità, continuando a richiamare l’Altissimo a prendersi le sue. Il dolore ti ha affinato non come male necessario, ma come luogo di rivelazione del tuo essere più profondo e vero» (p. 225).

Giobbe si professa ignorante, ma realizza di fatto il progetto originario del Creatore: avere qualcuno «che gli corrispondesse» (Gen 3,20), ben più di quanto una donna può esserlo per un uomo e viceversa» (ivi).

“Cose rette” e il riposo del perdono

Al termine del libro, per dodici volte l’Altissimo menziona il nome di Giobbe. Mostra tutta la soddisfazione, la sua ammirazione, il compiacimento. Dio si fida di lui e a lui solo affida il compito di diventare intercessore e garante.

Le «cose rette» pronunciate da Giobbe sono tali perché provengono dalla vita, dal “vero” «fatto di carne e di sangue, di sudore e di tremore, di incertezza e di passione… dalla vita vissuta e patita» (p. 229). Giobbe ha testimoniato «cose rette» che hanno incenerito le verità preconfezionate degli amici.

Ora Giobbe offre con animo sereno a loro favore un sacrificio, capace di perdono naturale.

Ora Giobbe riposa nel perdono donato. Si fa vicino a Dio e perdona. «Perdonare veramente è inconsapevole come respirare – scrive MichaelDavide –. Quando si è fatto il grande passo di perdonare all’Altissimo il guaio della vita di cui ci ha fatto dono, mettersi in mezzo per il bene degli altri è magnificamente semplice. Quando ci si perdona il fatale errore di voler incontrare Dio solo nella felicità pensando che l’infelicità sia il suo castigo, perdonare agli altri è un obbligo d’onoreé (p. 230).

Dio si rivela pari a Giobbe prima di ricompensarlo. La felicità di Giobbe è di nuovo possibile, ma è completamente nuova. Gli amici riprendono il loro giusto posto, alla periferia della vita di Giobbe. E lì devono rimanere. Il perdono è un dono fatto a sé stessi. «Per perdonare bisogna perdonarsi di essere intaccati, comunque, dal male, pur essendo desiderosi di bene […] hai riconosciuto davanti all’Onnipotente di essere anche tu in agonia tra il bene e il male […]. Hai accettato di aprire gli occhi sulla tua piccolezza incastonata nella grandezza dell’universo. Di certo non ti sei scoperto insignificante rendendoti conto di essere sempre relativo e in relazione» (p. 231).

Dio benedice il futuro di Giobbe perché, nel tormento della sofferenza, ha saputo e voluto progredire. Non ha accettato di lasciarsene seppellire. «Con coraggio hai continuato a fare la spola tra l’altare di Dio e il cuore, più o meno umano, di ogni creatura (Mt 5,23-24). I tuoi parenti e i tuoi amici ti regalano “un anello d’oro” (Gb 42,11). Con questo dono ciascuno riconosce quanto e come sei stato capace di inanellare la tua storia, sposandola interamente e integralmente» (p. 232). La disgrazia può diventare una grazia ricevuta e condivisa.

Giobbe ha inoltre fatto un esodo interiore e, andando contro la tradizione, non cerca marito per le bellissime tre nuove figlie ma le mette a parte dell’eredità allo stesso livello dei fratelli. Nel crogiolo del dolore ha imparato a non fare alcuna differenza tra le creature. Ciascuno deve vivere al massimo grado del possibile, nella bellezza e nella libertà, senza doversi sottomettere, nemmeno con l’amore, a nessuno (cf. p. 234).

Alla fine della storia manca la moglie (almeno esplicitamente) e anche Satana. Importante è che ci sia Giobbe, «vivente in tutti coloro che sanno resistere alla tentazione della superficialità, per essere sempre meno creduloni e sempre più credenti (Gv 20,27) […] Quanta paura, quanto timore, quale circospezione a ogni curva dell’esistere! In realtà, dietro la prossima curva non si può e non si deve indovinare nulla. Basta accettare di svoltare con prudenza e con un filo di curiosità» (p. 234).

“L’Amico carissimo”

MichaelDavide conclude ognuna delle sue “lettere” con un riferimento all’“Amico carissimo”, Gesù. Le sue parole e i suoi gesti illuminano il cammino compiuto da Giobbe e ne mostrano la bellezza nel suo estremo compimento, gettando luce anche su tutti gli atteggiamenti psicologici e spirituali dell’uomo ritrovati nei vari capitoli del capolavoro sapienziale esaminato dallo studioso con grande amore ed empatia.

Libro denso di suggestioni e di suggerimenti positivi, per vivere in serenità i momenti difficili della vita, sentendosi compagni di viaggio di Giobbe e compagni della sua fede incrollabile nel Dio buono e amico dell’uomo.

  • FRATEL MICHAELDAVIDE, Lettere a Giobbe. Sul mistero della gioia e del dolore (La Bibbia e le parole), TS Edizioni, Milano 2022, pp. 244, € 18,00, ISBN 9791254710029.
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