Nota spirituale sugli abusi

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Ho sempre avuto una certa difficoltà ad accettare l’ecclesiologia esistenziale, quella che non si trova nei libri ma si vive nella fede, del mio Doktorvater (una persona a cui voglio un gran bene, per il modo in cui mi è stato maestro e per come mi è amico). Detta in breve: la Chiesa è dove vi è la testimonianza, trasparenza di un vissuto odierno a quello di Gesù. Dove non vi è vita testimoniale non troviamo altro che un’organizzazione senza legame alcuno col Vangelo.

Non posso certo mettere in discussione questa scelta di fede, che molto mi ha dato e continua a darmi – soprattutto ora, in cui abbiamo un ministero petrino che cerca di vivere e darsi forma a partire da qualcosa di molto simile. Non posso farlo, perché è scelta impegnativa, che ti mette ogni giorno davanti al tuo limite, alle tue opacità, ai molti momenti in cui non sei all’altezza dell’Evangelo. E quando vivi di questa scelta, che il mio anziano maestro ha fatto molto tempo fa, sai bene che questo scarto si vede ogni giorno – lo vedi tu in primo luogo. E, forse, anche io l’ho fatta mia più di quanto riesca a immaginarmi.

Facciamo che le cose possano anche stare così, e forse qui mi allontano un po’ dalla fede personale del mio maestro: che ne è di tutto ciò che nella Chiesa, così come essa è, non è testimonianza trasparente di Gesù? Non vi è forse una responsabilità testimoniale nei confronti di questi larghi bacini oscuri che, comunque, negli occhi della gente sono la Chiesa del Signore?

Che cosa deve la fede come testimonianza all’immensa e anonima folla che vede la Chiesa precipitare nel baratro dell’annichilimento della testimonianza stessa? Perché, credo, che ci sia un dovere della testimonianza verso questi chiunque senza volto, che ci guardano però; verso i discepoli e le discepole che, nonostante tutto, perseverano nella testimonianza; e anche verso la Chiesa stessa che, alla luce di quella distinzione fatta dal mio maestro, può essere considerata poco più che un’organizzazione, un sistema di potere.

Ed è proprio questa responsabilità testimoniale che trattiene la non trasparenza a Gesù della Chiesa nella testimonianza stessa. La fede testimoniale è responsabile anche di essa, non può trincerarsi dietro una distinzione fatta per rimanere nella fede, per non perderla davanti alle molte miserie dell’istituzione.

Oggi, la sincera fede testimoniale deve a se stessa, davanti agli altri, di dare ragione non di sé, ma del suo rimanere nella Chiesa che contraddice la sua destinazione testimoniale.

Deve farlo con rigore davanti a se stessa, con gentilezza davanti alla comunità dei molti fratelli e sorelle nella fede, con spassionata e libera sincerità davanti alla folla dei chiunque.

Il prete e il vescovo, il cristiano e la cristiana «comune», il religioso e la suora nelle loro comunità di vita, ossia tutte le raffigurazioni testimoniali della fede, hanno oggi il dovere di rendere pubblicamente ragione del loro rimanere legati alla Chiesa proprio quando questa, come istituzione, non è testimonianza ma contraddizione del Vangelo. Senza reticenze, senza spiritualizzazioni, senza teologismi, dire perché siamo ancora qui – e dirlo a voce alta, non nel segreto della propria coscienza trovando un qualche accomodamento per tirare avanti.

Se la testimonianza non fosse capace di questa parola a voce alta non sarebbe, nella congiuntura attuale della Chiesa, più tale: sarebbe semplicemente la sconfessione di sé, perché se la fede testimoniale non costa nulla davanti alla stessa istituzione della fede allora non è altro che quella grazia a buon mercato di cui parla Bonhoeffer. La testimonianza, infatti, sa bene che l’agguato più pernicioso all’Evangelo di Gesù si annida talvolta nelle trame dell’istituzione testimoniale stessa.

 

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