Novena di Natale. 18 dicembre: “O Adonai”

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1. Come ogni buona relazione tra le persone, anche quella con il Signore deve trovare un equilibrio tra i due poli opposti della vicinanza e della distanza, e saper gestire in consonanza la familiarità e il rispetto.

L’equilibrio è richiesto per evitare due rischi, ambedue micidiali: che la vicinanza si traduca in desiderio di fusione con l’altro eliminando l’insuperabile differenza, o che la distanza possa tradursi in indifferenza, o peggio ancora in odio.

Questo rischio esiste anche nel rapporto con Dio. Un eccesso di vicinanza lo rende banale fino a farne un prolungamento di noi stessi, al punto che, con estrema leggerezza, parliamo in nome suo, o ce ne serviamo come di una risorsa chiamata a soddisfare qualsiasi nostro bisogno o desiderio. Un eccesso di distanza rende Dio una realtà evanescente che, alla fine, non ci interessa, o una sorta di giudice minaccioso che ci fa paura.

Giuliana di Norwich, una mistica del Trecento inglese, scrive che «L’amore ci rende familiari e vicini a Dio, il timore ci rende gentili e cortesi con Dio, e le due cose concordano, e si equivalgono” (Una rivelazione dell’amore, cap. 74, p. 308), e ancora che «L’amore e il timore sono fratelli» (p. 307). La familiarità traduce il senso di vicinanza, la cortesia quello del rispetto.

2. L’antifona di oggi ci aiuta a trattare Dio con rispetto e familiarità. Ecco come suona:

«O Adonai e Guida della casa di Israele,

che sei apparso a Mosè nella fiamma del roveto ardente,

e sul Sinai gli ha dato la Legge:

vieni a riscattarci con braccio potente».

I due appellativi, Adonai (= Signore) e Guida, traducono il volto di un Dio che incute rispetto e, insieme, quello di un potente che ci viene in soccorso offrendoci come “guida” la sua Legge, che è poi una strada che ci permette di attraversare senza troppi danni quel “deserto” quale a tratti ci appare la nostra esistenza.

Sono le due immagini che seguono a illustrare i due titoli. Il Signore-Adonai appare a Mosè con un segno che marca la distanza: il roveto che arde scoraggia chiunque dall’avvicinarsi: quello su cui si posa Dio è un «luogo santo», e Mosè santo non è; per di più, una fiamma che arde senza bruciare incute paura (Es 3,1-6).

Ma questo non è tutto, perché Dio cerca lui stesso una vicinanza compassionevole, e dice: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8).

Il Dio lontano, che chiede spazio e rispetto, è un Dio che si avvicina per offrirsi come liberatore e soccorritore. Potrebbe sembrare che una guida, dux nel latino della Bibbia, che ci dona una Legge, sia un potente che ci giudica e ci punisce. Non è così.

Già il primo giorno l’abbiamo invocato perché ci tiri fuori (e-duc nos) dal carcere in cui restiamo seduti e legati, ma dovremmo ricordare che, in testa alla Legge dei dieci comandamenti (Es 19-20), Dio si presenta come colui che ha “liberato” il popolo dalla schiavitù dell’Egitto. La Legge del Sinai inizia, infatti, così: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3). Un Dio che si presenta come “liberatore” non può dare una Legge che ci rende schiavi!

3. È probabile che ci sia capitato – e forse ce ne è rimasta ancora in testa l’idea – che i comandamenti, scanditi da una serie di “non”, che ne caratterizza otto su dieci (i primi due e quelli che vanno dal quinto all’ultimo), ci siano non di rado apparsi soltanto come una serie di proibizioni.

Non è così. Per gli ebrei sono stati le norme che hanno “guidato” (di nuovo la figura del dux, il condottiero) il loro cammino in quello spazio senza strade che è il deserto, dono che si accompagnava a quello della manna che li ha nutriti perché non venissero meno per via.

L’arca dell’alleanza, che era la memoria concreta di quel cammino di liberazione, custodiva appunto le tavole della Legge e un ricordo della manna.

Parlo di un cammino di liberazione, di cui i comandamenti costituiscono i paletti e la segnaletica. Personalmente preferisco parlare più di liberazione che di libertà. La libertà rischia di essere intesa come una “cosa” che si possiede, magari fin dalla nascita; il termine liberazione evoca, invece, un processo dinamico, un percorso mai finito attraverso il quale veniamo educati a capire il vero senso del termine libertà, alla quale ci chiama Gesù il Cristo, libertà che per lui è stata non una cosa da possedere, ma un traguardo, una capacità da costruire, quella di fare della propria vita un dono.

«Voi infatti, fratelli – scrive san Paolo –, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a “servizio” gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,13-14).

4. Noi oggi chiamiamo Adonai e Guida l’uomo Gesù in cui si è incarnato e rivelato Dio stesso nella persona del suo Figlio.

Questo passaggio, che torneremo a celebrare nel prossimo Natale, è di estrema importanza. Gesù, come vedremo, diventa un Dio vicino. Il “segno” con cui si fa riconoscere non è un roveto che arde e fa paura, ma la mangiatoia di una stalla cui si accostano senza timore dei pastori.

Il monte sul quale dà la sua Legge non è il Sinai dove compare fra tuoni e fulmini, ma il dolce pendio del colle delle Beatitudini.

E il culmine del suo comandamento nuovo lo proclama nel contesto di una cena, peraltro in un contesto che include il tradimento e che prelude a una fuga vergognosa. È a persone così, nelle quali è facile identificarci, che egli annuncia: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).

La Legge antica non è cancellata, ma è portata a perfezione, come ben si vede nella rilettura che Gesù stesso ne fa nel Discorso della montagna: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17), principio tradotto poi in sei «ma io vi dico», che non significano sostituzioni, ma raffinamento di precetti il cui senso è portato fino alle estreme conseguenze, fino a dire «amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44-45).

Il Dio Adonai diventa, dunque, la nostra Guida, non come condottiero di un esercito, ma come una mamma che ci prende per mano e ci insegna a camminare. Mi piace citare in proposito ancora una volta Giuliana di Norwich, che nei capitoli 57-64 di Una rivelazione dell’amore ha scritto pagine bellissime su Gesù «nostra madre». Come là dove dice: «La madre gentile e amorosa, che sa e conosce i bisogni del suo bambino, lo custodisce con grande tenerezza, come richiede la natura e la condizione della maternità. E, man mano che egli cresce in età e statura, essa cambia il suo modo di agire ma non il suo amore. E, quando diventa ancora più grande, essa permette che sia castigato per distruggere i suoi difetti e farlo capace di ricevere virtù e grazia» (cap. 60, p. 277).

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