Cristianesimo e biopolitica

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biopolitica

La reazione alla crisi pandemica ha suscitato, fin dall’inizio, questioni che possono essere considerate molto interessanti dal punto di vista filosofico. In particolare alcuni aspetti del pensiero “bio-politico” si sono sentiti direttamente coinvolti dalla “lotta alla pandemia”, in relazione alle libertà individuali, al possibile dispotismo pubblico, alla considerazione della “vita” che il distanziamento, la vaccinazione e anche la adozione del “green pass” hanno potuto determinare.

Le contraddizioni del nostro tempo “pandemico”, come giustamente sostiene Andrea Grillo, non sono facilmente accomodanti e accomodabili. Ma, dal mio punto di vista, il cristianesimo deve oggi fare i conti con il tema della biopolitica, sia in senso positivo (come protezione e sviluppo armonioso delle varie forme di vita) sia in senso negativo (come pericolo già in atto di una riduzione dell’uomo e della creazione a mera nuda vita sotto la pressione in-formante del potere).

Ma questo non mi pare sia stato fatto: Grillo, in questo intervento, titola un paragrafo Il limite di una lettura “biopolitica” della tradizione ma non mi pare che questo limite venga mostrato. Oppure il limite starebbe solamente in una lettura immobilizzata e museificata della tradizione?

Su questo siamo in perfetto accordo, ma non mi pare centri molto con la riflessione biopolitica. Il giusto richiamo all’errore davvero postmoderno del motu proprio sulla liturgia di Benedetto XVI non esaurisce certo il tema. Anzi, a me sembra proprio in linea, paradossalmente, con una visione “liberale” (e appunto, anche postmoderna) in cui le “forme” possono essere liberamente scelte poiché il nocciolo duro del cuore cristiano rimane immutato, come si trattasse di una serie di concetti e di posizioni dottrinali imbalsamate e non, appunto, di una carne viva da incontrare come novitas ed evangelo in un senso che, se non vogliamo chiamare “biopolitico”, potremmo dirlo bio-ecclesiale.

In questo modo l’apparente libertà dei corpo e dei gesti, del rito e del messale antico, vengono sequestrate dal concetto e dalla dottrina: il corpo e la forma rituale sono, di fatto, resi indifferenti, proprio nel momento in cui si pensa che possano essere liberi (e liberali?) nello scegliere una forma liturgica o l’altra.

E non si tratta forse della stessa “libertà liberale” che soggiace alla narrazione ufficiale sul covid e sull’obbligo (mascherato) della scelta vaccinale? Un pensiero unico, che è in palese contraddizione con la vera ricerca scientifica nel suo divenire, nascosto sotto la patina falsamente comunitaria e fideistica dell’amore per il prossimo e per se stessi, mascherata da “responsabilità” priva di qualsiasi possibilità responsoriale e quindi dialogica e critica?

Non abbiamo forse lasciato che ciò che giustamente viene criticato in ambito liturgico ed ecclesiale rimanga acriticamente accettato nella sfera del politico e del sociale?

Il cristianesimo, potremmo dire, è da sempre bio-politico, in quanto il suo cardine è la carne e l’unità psico-somatica e spirituale dell’uomo intesa in senso non dualistico, storico ed escatologico insieme.

La stessa Apocalisse, si potrebbe dire, tanto per fare un esempio oggi tanto citato a sproposito, è un testo in fondo biopolitico perché si rapporta criticamente al potere, ben identificato con quello dell’Impero Romano. Ma, mi chiedo, quanti dei teologi e dei pensatori cristiani hanno affrontato davvero le problematiche insiste nel paradigma biopolitico?

E non mi riferisco naturalmente solo al lavoro di Foucault – la sua parte più interessante oggi sarebbe quella sviluppata nell’ultimo periodo dei suoi corsi, quella cioè relativa alla relazione tra verità e istituzione; c’è tutta la questione dell’accelerazione, delle modalità parificanti e de-umanizzanti dell’algoritmo e della virtualità diffusa, capaci di entrare nel nostro sistema nervoso e inconscio con una potenza tanto silenziosa quanto devastante, anche dal punto di vista cognitivo delle nostre scelte e dei nostri modi di “pensare” e di agire – e penso, in tal senso, al grande lavoro che è stato fatto, ad esempio, da Bernard Stiegler; o, ancora, la riflessione centrale sul rapporto tra comunità e immunità, tra umano e post-umano … e molto, molto altro.

Parlare di libertà senza tenere conto di queste varianti è vivere in una “spiritualizzazione” tecnologica, in una virtualizzazione che, di fatto, riduce il corpo, e la sua unità con il pensiero e il rappresentare, ad oggetto in balìa di forze tanto discrete e profonde da diventare quasi impercettibili.

Vogliamo davvero iniziare a pensare, analizzare e farci sollecitare criticamente da tutto questo, oppure rimaniano alla semplicistica e riduzionistica questione della libertà e dell’egoismo intesa in senso dualistico?

Sono domande che mi sembrano legittime. Fare finta che la nostra società sia quella di solo 20 anni fa è un errore di prospettiva che toglie qualsiasi forza profetica come tentativo di intus-legere la complessità del presente; significa negare l’incarnazione e, con essa, la storia, la singolarità incarnata dell’uomo, la possibilità di una fede come complessità vivente.

Significa, di fatto, fingere una “Chiesa in uscita”: poiché si esce solamente facendo i conti con ciò che accade e non facendosi scudo con le teorie ormai carenti legate ad un tipo di democrazia dal volto ormai quasi del tutto cambiato.

Andrea Ponso


Da tempo sono convinto della tesi fondamentale che Andrea Ponso colloca al centro del suo intervento: il cristianesimo deve fare i conti apertamente con la “bio-politica”. Non può farne a meno. Perché una definizione di vita sta al centro della fede e non sopporta riduzioni, formalizzazioni, essenzializzazioni, coperture, sproporzionate attenzioni o indirette amputazioni.

Perciò, e anche questo mi pare pienamente giustificato, il cristianesimo ha un duplice interesse per la “bio-politica”: uno positivo e uno negativo.  Ma proprio qui, a me pare, nell’intreccio tra questi due versanti della questione biopolitica, la reazioni di alcuni filosofi italiani (di recente soprattutto Agamben e Cacciari) sembrano valorizzare solo una “biopolitica negativa” e non anche una “biopolitica positiva”.

La lotta alla pandemia, se non viene intesa solo come una sorta di disegno per imporre una forma dispotica di potere, esige anche una comprensione positiva. Certo, le forme della comunicazione dei dati e delle priorità ha conosciuto forme selettive e anche forzature evidenti. Ma le buone ragioni di uno “stato di emergenza” difficilmente potrebbero essere messe in discussione.

Potremmo domandarci perciò: in che modo la vita si fa istituzione e si protegge dalle minacce che la assediano? Questa domanda non è semplicemente ideologica. E vi è un contributo positivo della “difesa della vita dal contagio” che non necessariamente deve essere sospettata di “riduzione della vita”.

Ciò non toglie, evidentemente, che le sfide alle quali siamo esposti siano molto più complesse e più profonde di una semplice “lotta alla pandemia”. Un uomo “immune” dal virus non è per questo già salvo. E tutte le minacce che Andrea Ponso sottolinea bene alla fine del suo testo sono, effettivamente, questioni decisive, che non possono essere dimenticate sotto la pressione della priorità sanitaria.

Questo a me pare il punto saliente: una urgenza sanitaria, senza sequestrare tutte le nostre energie, merita una considerazione seria e non riduttiva.

Per questo a me pare che sia giustificata la analogia tra “stato di eccezione sanitaria” e “stato di eccezione liturgica”: in entrambi i casi si deve tornare ad una normalità. Ma questo sarà possibile solo se al caso non si sarà applicata una biopolitica soltanto negativa in modo troppo sbrigativo, perdendo molti dettagli decisivi che, come sempre, fanno la differenza tra letture convincenti e letture forzate.

Andrea Grillo

Dal blog di Andrea Grillo Come se non.

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