
Previsione fantascientifica. Ma non poi tanto. Che, da un certo giorno in poi, nessun cristiano manifesti ad altri la sua fede, né padre o madre insegni a un bambino a fare il segno della croce. Accadesse, nell’arco di due o tre generazioni, la Chiesa scomparirebbe dalla faccia della terra.
C’è quindi un atto ben determinato, la comunicazione della fede dal credente al non credente, che costituisce la condizione stantis vel cadentis Ecclesiae. è, esattamente, il vangelo. Intendo dire l’atto del vangelo, perché prima che definirlo un messaggio e di prenderlo in mano come un libro, vangelo è un atto del dire. È comunicare una notizia, una buona notizia.
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Le notizie sono notizie in quanto chi viene a conoscenza di qualcosa che altri non sanno, lo riferisce a tutti. Le notizie si comunicano a chi non sa nulla di un certo importante evento. O, eventualmente, a chi, pur avendolo conosciuto, ne ha sottovalutato l’importanza. Non è quindi, propriamente, atto di vangelo il parlare di Gesù a un credente cristiano, ma parlarne a chi non lo conosce o, pur conoscendolo, non crede in lui.
Sorge immediatamente una domanda, che risulta imbarazzante: nel nostro parlare da cristiani quante volte parliamo di Gesù e della fede in lui a chi non ne sa nulla? O a chi ha dimenticato? Il vangelo è una notizia sulla bocca dei cristiani o una nozione?
Che evangelizzare costituisca l’imprescindibile missione della Chiesa, lo scopo stesso della sua esistenza, tutti lo sanno e nessuno ne dubita. Ma è accaduto, paradossalmente, che abitualmente si evangelizzano i credenti e non i non credenti. Gran parte di ciò che fa la Chiesa è un’attività pastorale, che presuppone l’esistenza del gregge.
Ben poco si fa evangelizzazione, senza la quale, se si continua così, non avremo più il gregge. Della fede di coloro che già ne godono, ci si preoccupa molto; poco, della fede di coloro che non ne godono.
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Si prenda in mano il notiziario di una parrocchia qualsiasi e si veda quante volte vi compare, come destinatario della “notizia delle notizie”, l’uomo e la donna che non hanno ricevuta la grande notizia o, ricevutala da bambini, l’hanno dimenticata. In genere, ricevuta una notizia, buona o cattiva che sia, si è presi dalla smania di dirla a questo e a quello. Non sembra che accada così fra cristiani con la buona notizia di Gesù, il vangelo.
La prima ragione di questa anomalia è certamente il costume di battezzare i bambini, per cui l’impegno che si ha davanti è quello di prendersi cura dei battezzati, perché mantengano la fede, la maturino e la vivano con coerenza.
Sembra che il non cristiano da evangelizzare non esista. Degli adulti si presuppone ancora, diffusamente, che siano tutti battezzati e che siano credenti. Ma questo non è più vero. In Italia negli ultimi trent’anni il battesimo dei bambini è sceso dal 90 al 70% dei neonati. La percentuale è destinata a scendere ulteriormente se si pensa che, nel 2023 in Italia, solo il 41% dei matrimoni è stato celebrato secondo il rito religioso. Secondo una stima prudenziale, inoltre, rispetto ai 180.000 matrimoni che vi si sono celebrati, ben 200.000 sarebbero state le convivenze more uxorio instauratesi nello stesso anno. È prevedibile, quindi, che nei prossimi anni il numero dei battesimi dei bambini si riduca drasticamente.
Per avere un’idea adeguata della mutazione del quadro religioso della popolazione, che sta avvenendo in Europa, vi si aggiunga il fenomeno dell’immigrazione di persone di altra e di nessuna religione.
Non dovrebbe stupire più di tanto la notizia, pubblicata dagli istituti di statistica, ironia della sorte, negli stessi giorni in cui l’arcivescovo di Canterbury ungeva col sacro crisma Carlo III, “per grazia di Dio, Re del Regno Unito e Difensore della Fede”, che i cristiani nel suo reame erano solo il 49 % della popolazione totale. Porre al primo posto, nelle Chiese d’Europa, il compito dell’evangelizzazione è condizione di sopravvivenza del cristianesimo nel vecchio continente.
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L’evangelizzazione è, per natura sua, opera del popolo di Dio. Non è inquadrabile in determinate attività gerarchicamente organizzate, tant’è vero che, giustamente, il Codice di diritto canonico, colloca fra i diritti fondamentali dei fedeli il canone che determina «il dovere e il diritto» di tutti i fedeli «di operare perché l’annuncio divino della salvezza giunga sempre di più a tutti gli uomini di tutti i tempi in tutti i luoghi della terra» (can. 211).
Viene da pensare, poi, che gli estensori di questo testo, consapevoli del clericalismo dominante, per il quale questo diritto-dovere rischiava di venire scaricato istintivamente sulle spalle di preti, frati e suore, hanno sentito il bisogno, qualche canone più in là, di ritornarci su e richiamare i fedeli laici a prendere atto che in certe situazioni, quando essi solo sono in grado di evangelizzare, la missione sta tutta sulle loro spalle (can. 225).
Evangelizzare dovrebbe far parte della vita quotidiana del cristiano, che passa la sua giornata di lavoro e, non di rado, anche la sua vita di famiglia, a fianco di persone che non si manifestano interessate a credere e vivere da cristiani. Lo si fa – si dice – con i fatti, non con le parole. È vero, ma fino a un certo punto.
I cristiani devono riprodurre la vita di Gesù nei loro comportamenti, ma, allo stesso tempo, non possono permettere che sia ignorato il nome di Gesù e si estingua la sua memoria. La fede cristiana porta nel cuore, al suo centro, una persona concreta, vissuta in un certo tempo e in un certo luogo di questa terra, Gesù di Nazaret. Essa non può essere sostituita da un codice morale. Non c’è evangelizzazione senza la testimonianza di vite vissute secondo il vangelo, ma neppure c’è evangelizzazione senza il pronunciamento del Nome.
Elementare e imponente è la missione della Chiesa, prolungare nella storia la memoria di Gesù. Non permettere in alcun modo che l’umanità abbia mai a dimenticarlo. Non c’è cristianesimo là dove non lo si ricorda, dove non si racconta cosa egli diceva, come egli è vissuto e perché e come l’hanno ucciso. È, questa, una memoria storica che resta un valore per l’umanità indipendentemente dalla condivisione della fede in lui.
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Resta comunque vero che, se nessuno avesse creduto e diffuso nel mondo la fede nella sua risurrezione, anche la sua memoria storica avrebbe potuto andare perduta. Quindi non è vero che bastano i fatti a testimoniare la fede. Non c’è cristianesimo là dove non risuona il nome di Gesù. Ci può essere un modo di vivere da cristiani, ma non l’essere cristiani. Ciò che caratterizza il cristiano è la speranza e la speranza germoglia dalla fede nella risurrezione del Signore.
Romano Guardini, negli anni Cinquanta del secolo scorso, denunciava l’immane tentativo, compiuto dalla modernità, di voler conservare il cristianesimo senza il Cristo e vedeva la fine dell’epoca moderna come l’impressionante svelarsi del grande inganno.
Ci resta da porre, però, la domanda decisiva: perché evangelizzare? La risposta è semplice: per amicizia. Chi gode di una qualche ricchezza interiore, non può fare a meno di desiderare di poterla condividere con gli amici. Ma, poiché il vangelo non tollera confini, si vorrebbe condividerlo con tutti. L’evangelizzazione non è proselitismo. Non si evangelizza per allargare i ranghi della Chiesa. Si evangelizza per seminare speranza e rendere più vivibile il mondo.






Come ben detto in uno dei commenti, la proclamazione del vangelo va avanti e manifesta tutta la sua efficacia in quelle persone che lo vivono realmente: persone spesso ignorate o addirittura messe ai margini dalle strutture ecclesiali, sono la fiammella che da luce a tutta la stanza. D’altra parte, per vivere il vangelo consapevolmente, è necessario conoscerlo. E’ necessario l’annuncio. Questa trasmissione può avvenire attraverso la parola scritta o la proclamazione a viva voce. Ma oggi, nella Chiesa cattolica, in quali ambienti o in quali circostanze si favorisce davvero questo incontro, ovvero la conoscenza diretta dei vangeli? Chi si preoccupa davvero di rendere tutto questo possibile? Viviamo sotto una pioggia incessante di documenti ‘magisteriali’, francamente inutili quando non dannosi, mentre l’unica cosa che conta davvero è il vangelo. Come dice P. Dianich, il paradosso è che si evangelizzano (direi: si dovrebbero evangelizzare) i credenti. Quando avviene tuttavia questa evangelizzazione? Al di là delle esperienze possibili in alcuni movimenti ecclesiali, non c’è nessun percorso o itinerario formativo ovvero nessuna reale iniziazione alla vita cristiana. Questo è drammatico, tragico, estremamente pericoloso. Dopo secoli di discorsi accomodanti, che hanno relativizzato o accantonato il vangelo, le persone non sono affatto invitate a conoscere la Parola. Non ne sono attratte; pensano di sapere già tutto. Lo pensano a torto, ma non per colpa loro. Un lavorìo secolare ha selezionato e accomodato i passi evangelici da leggere durante la celebrazione domenicale, depotenziandoli. Talvolta il significato dei brani, palesemente decontestualizzati, è stato/può essere facilmente riorientato in senso opposto a quello evangelico, ma funzionale alle strutture ecclesiastiche odierne o a schemi di potere. Le persone non sanno dunque quale tesoro si celi nella conoscenza di Gesù il Nazareno, della sua Parola, della sua vita. Spesso addirittura la conoscenza del Gesù storico viene ostracizzata o stigmatizzata, come se fosse qualcosa di negativo, mentre è proprio l’esatto contrario: è proprio la straordinarietà di Gesù il Nazareno ad avere convinto e a convincere ancora i discepoli che la sua parola e la sua vita fosse, è e rimane la via, la verità e la vita. Oggi il vangelo è interrato e camuffatto tra tanti discorsi inutili, tra tante cerimonie inutili. E si dimentica che Gesù non ha chiesto atti di culto o altro, ma atti profani: visitare un ammalato, aiutare il prossimo in difficoltà, dare un po’ d’acqua a chi ha sete, da mangiare a chi non ne ha. E’ in questo senso, e non negli atti di culto esteriore o nelle vesti liturgiche o altro, che si diventa perfetti come il Padre nei Cieli.
Esiste oggi una evangelizzazione di senso contrario : i non cristiani o i post-cristiani o i sincretisti tendono a fare proseliti fra i cristiani, tendono a convincere quelli che ritengono superstiziosi rimasti legati a pratiche e fede sorpassate , che non esiste al giorno d’ oggi alcuna ragionevolezza ad essere cristiani. Se un tempo la “buona novella” del Vangelo era che Dio si e’ fatto uomo per salvarci ,oggi la buona novella piu
‘ diffusa e’ che non c’ e’ alcun bisogno di salvezza e
alcun bisogno di Dio. L’ uomo si salva da solo, Dio e’
morto come proclamato da Nietzsche gia’ un secolo e mezzo fa . Questa evangelizzazione al contrario ha molto successo fra i giovani di oggi . L’ uomo visto come centro di tutto e i diritti umani come salvezza , i cieli considerati vuoti di Divinita’ create solo dalla
fantasia umana .
E basta… le strutture (corrette o inadeguate) non sono garanzia di alcunché… ben venga un’epoca in cui dalle pietre sorgano credenti. Al di là di codici, di dottrine, di strategie pastorali, di sacrosante definizioni e prassi. Finisca la Chiesa, risorga la Chiesa!
Forse il problema è la concezione che si ha del Cristianesimo.
Molti cattolici sono convinti che la loro religione sia soltanto una delle tante, che non esista una religione vera, che Gesù fosse una degnissima persona e un grande profeta, che anche Budda fosse una degnissima persona e un grande profeta (come Maometto, Zarathustra ecc.)
Date queste premesse di quale evangelizzazione stiamo parlando?
Per quanto mi riguarda ho sperimentato che sono gli altri a cercare i cristiani quando, come di fronte alla morte, la modernità non riesce a dare risposte. È in questi momenti che occorre avere le idee chiare. Perché è una grande occasione di evangelizzazione e di aiuto verso il fratello. È un atto di amore dare speranza. Esserci al momento giusto.
Domande più che lecite e molto attuali queste del teologo S. Dianich; già oggi in Italia si percepiscono i frutti della mancata trasmissione della fede dai genitori ai figli. Tuttavia io gradisco sempre molto che a fine anno pastorale i genitori dei ragazzi a cui, in aiuto ad una catechista di provata esperienza, cerco di trasmettere il Vangelo, mi dicano: “Il prossimo anno ancora insieme!”. Mi sembra che in quelle parole ci sia una volontà evangelizzante che domanda aiuto, comprensione e condivisione; mi pare che ci sia un sincero desiderio di far conoscere alle nuove generazioni la persona e l’opera di Gesù di Nazareth e tutto quel che ne consegue.
Ma credo che il motivo, la ragione dell’evangelizzazione sia piuttosto la gioia, una gioia contagiosa. La gioia di sapere – ecco la fede – che l’ultima parola non è la morte, il non senso, ma la vita…la vita del Risorto che è piena comunione con il Padre che non abbandona nessuno dei suoi figli, a cominciare dal Figlio.
Alla domanda del titolo si potrebbe rispondere così: il Vangelo è una buona notizia trasformata in nozione. Questa metamorfosi ha istituito il cristianesimo, le sue strutture, le elaborazioni teologiche e le posture “pastorali”. Trasformazione ricorrente e quasi inevitabile quando un contenuto, e il correlato movimento spirituale-esistenziale, diventano istituzione e si fanno religione. Poi c’è la perdita dell’effetto novità, perdita che si è approfondita nel corso del tempo e oggi appare in tutta la sua forza come perdita di attualità e conseguente consegna della notizia agli archivi e alla storia. Poi ancora c’è l’effetto overdose, ossia l’aver parlato e sentito dire troppo di Cristo e del suo messaggio al punto da ridurli per effetto paradosso a parole vacue, preferibilmente da evitare perché ripetute, noiose e non più interpellanti. E infine c’è il fatto che il Vangelo vissuto, sine glossa, non fa notizia. E non fa notizia prima di tutto all’interno del cristianesimo e della chiesa, dove chi vive il Vangelo anziché stare al centro è tenuto al margine e quasi ignorato. Eppure tutti coloro che sono toccati dalla grazia di chi vive il Vangelo restano sorpresi dall’agape e dalla spiritualità di chi lo vive e in lui scoprono o riscoprono la buona notizia e l’autore primo di questa notizia. Alla evangelizzazione accade qualcosa di simile a quello che succede all’educazione: i figli imparano non tanto dalle parole dei genitori, ma dalla loro vita vissuta. A far conoscere la buona notizia e tenere in piedi e garantire il futuro del cristianesimo di Cristo anche in Paesi affetti da overdose cristiana come l’Italia, oggi sono queste persone, ignorate, talvolta persino contrastate, sebbene siano la fiammella nella stanza che fa la differenza tra il buio e la luce.
Io sono per il “vivi e lascia vivere”, ossia “tieniti le tue convinzioni, ma non pretendere di imporle agli altri”. Trovo ingiusta l’imposizione di una qualsiasi fede a un neonato, come avviene con il battesimo: l’eventuale adesione a un credo religioso deve essere una scelta libera e consapevole dell’individuo adulto. E certamente non mi ispira simpatia una chiesa che parla dei suoi fedeli come di un “gregge”: sono persone, non pecore. Allo stesso modo con cui non mi piace chi pretenderebbe di “islamizzare” il mondo, non mi piace chi vorrebbe “evangelizzarlo”. Vivi e lascia vivere.
Il clericalismo vanifica ogni impegno evangelizzatore. Lo fa attraverso una serie di abusi, compreso l’abuso dottrinale. Il sistema di potere basato sul sacro che chiamiamo clericalismo è pertanto il principale agente che ostacola la diffusione del Vangelo. Declericalizzare la chiesa è propedeutico all’evangelizzazione. E declericalizzare significa innanzitutto procedere ad una radicale riforma della dottrina e delle norme contenute nel codice di diritto canonico.
Togliamo l’abuso dottrinale (non ho capito cosa sia), riformiamo radicalmente la dottrina (non dice come), riscriviamo il diritto (chissà cosa ne rimane), dopo si potrà parlare di evangelizzazione….
Mi chiedo se lei accetti la definizione che ne dà l’autore: operare perché l’annuncio divino della salvezza giunga sempre di più a tutti gli uomini di tutti i tempi in tutti i luoghi della terra… oppure intende qualcos’altro?