Il legame: l’ultimo lavoro umano

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Le app per smartphone sono destinate a sostituire medici e insegnanti in un futuro prossimo? Nonostante la recente proliferazione di rapporti su come i progressi dell’IA trasformeranno radicalmente molte professioni, Allison Pugh, professoressa di sociologia alla Johns Hopkins University, mette in luce invece una dimensione caratteristica del lavoro umano: ciò che lei definisce lavoro connettivo («connective labour»).

Il suo recente volume (The Last Human Job: The Work of Connecting in a Disconnected World) è una lettura piacevole, ricca di esempi empirici e ben strutturata. Rivela il lavoro generalmente invisibile del «connettersi» con il proprio interlocutore – al punto da farlo sentire «visto», compreso e valorizzato – e dell’essere a propria volta riconosciuti. Questa capacità umana unica di creare un’intesa emotiva reciproca è cruciale in settori come la sanità, l’istruzione o i servizi, che spesso si immagina possano essere sostituiti da applicazioni o forme di IA. Pugh sostiene invece che tali campi non possono esistere senza questa dimensione relazionale, impossibile da trasferire a una macchina.

Il volume si basa su diversi anni di ricerca, tra cui circa 100 interviste (soprattutto con terapeuti, medici e insegnanti, ma anche con i loro interlocutori e con progettisti di sistemi di IA), nonché su 300 ore di osservazione in cliniche, scuole, sedute di terapia e in un laboratorio di robotica. L’autrice si propone di definire e analizzare in cosa consista questo lavoro connettivo, le forme organizzative che lo rendono possibile, e fino a che punto esso sia minacciato dalle nuove tecnologie che promettono, al contrario, di semplificare la vita dei professionisti.

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Oltre l’approccio utilitaristico

Pugh inizia col delineare la natura e il valore del lavoro connettivo, che implica il farsi testimone e prendersi cura dell’altro, ciò che definisce una sorta di stretta di mano emotiva, a metà tra il riconoscimento familiare e quello politico. Se solitamente l’instaurarsi di questa intimità sociale è visto solo in chiave utilitaristica (ad esempio, essere stimati dagli studenti affinché prestino maggiore attenzione), Pugh sostiene che non si tratti soltanto di un «lubrificante» che rende più fluido il funzionamento del sistema sociale.

Si rifà agli studi di Arlie Russell Hochschild sul lavoro emotivo – incentrati soprattutto sulle professioni di servizio – e riflette sul valore del sentirsi utili, in particolare nei settori della cura e dell’istruzione.

Il lavoro connettivo conferisce dunque una forma di dignità a chi lo svolge; rappresenta uno scopo e consente una migliore comprensione di sé e degli altri. Ha quindi valore in sé (aiutando medici, infermieri o insegnanti ad apprezzare il proprio lavoro), e non soltanto per i risultati che produce (curare o insegnare in modo efficace).

I rischi dell’estensione dell’IA

Il libro affronta in particolare come il lavoro connettivo sia messo alla prova dallo sviluppo delle tecnologie digitali. L’idea di un’estensione della «frontiera dell’automazione» permette di andare oltre i consueti temi legati all’IA: bias algoritmici, rischi di sorveglianza, perdita di posti di lavoro.

Questa frontiera si è spostata più volte: inizialmente tra compiti manuali e intellettuali, poi tra compiti routinari e non routinari, e infine intorno alla sfera emotiva, con l’idea che certe competenze socio-emotive (leadership, cooperazione, empatia, ecc.) non fossero riproducibili da una macchina. Ma, osserva Pugh, esistono già IA socio-emotive (come le app per la salute mentale).

Il rischio è la depersonalizzazione, soprattutto per i più poveri, primi destinatari di tali strumenti, mentre i più ricchi continuerebbero ad avere accesso a professionisti in carne e ossa. Da qui la domanda: a cosa deve servire l’IA? Da quali compiti dovrebbe liberare gli esseri umani, e a beneficio di quali attività?

Pugh mette in guardia contro il carattere ingannevole dell’IA: essa rende invisibile tutto il lavoro umano necessario al suo funzionamento. Distingue tre retoriche principali che ne giustificano l’uso: l’IA come «meglio di niente» (ad esempio per sopperire a carenze di personale); l’IA come «meglio degli umani» (capace di eliminare giudizi soggettivi o compiti ripetitivi); e infine la logica del «meglio insieme» (IA e umani come entità complementari).

È quindi essenziale distinguere i compiti che hanno valore umano da quelli che non ne hanno. Tuttavia, lo sviluppo tecnologico produce implicazioni inattese: dietro le app restano persone che devono comunque svolgere lavoro connettivo senza ricevere riconoscimento – come i coach delle app di counseling, costretti a seguire copioni ma inevitabilmente chiamati ad adattarsi agli utenti. O ancora, la necessità di trasformare tutto in dati per alimentare l’IA, sottraendo tempo al lavoro relazionale.

Secondo Pugh, però, il lavoro connettivo – l’ultimo mestiere umano, come recita il titolo del libro – è fondamentalmente artigianale e non sostituibile dall’IA senza danno per chi ne beneficia. Esso si fonda su pratiche che non possono essere standardizzate né digitalizzate: l’uso del corpo (in particolare per trasmettere segnali non verbali), la capacità di cogliere e analizzare le emozioni altrui, la collaborazione basata sul dare e ricevere, la spontaneità, la gestione degli errori (persino il chiedere scusa può rafforzare un legame).

Le tensioni intrinseche a questo lavoro – tra competenza e considerazione dell’altro, ad esempio – sono parte integrante delle relazioni umane.

Forme organizzative e lavoro connettivo

Per analizzare meglio il lavoro connettivo, Pugh invita a guardare oltre la dimensione individuale, concentrandosi sulla «architettura sociale» delle organizzazioni come ospedali e scuole.

Ne distingue tre tipologie, ciascuna con impatti diversi. La prima è guidata da una «missione», spesso al servizio di persone con grandi bisogni e svantaggi sociali: qui il carico di lavoro è altissimo. Sebbene significativa per i professionisti, questa forma rischia di condurre a un eccesso di lavoro connettivo, trasformandoli in «eroi» destinati al burnout per carenza di risorse (il medico di campagna oberato, l’insegnante in una scuola disagiata).

La seconda tipologia è quella aziendale, dove il profitto prevale e la produttività è prioritaria: non c’è spazio per legami autentici. Il lavoro connettivo diventa un servizio al consumatore, misurato e monitorato dalla tecnologia. Qui il rischio di burnout deriva dalle pressioni contrastanti: generare profitti e gestire le richieste dei clienti o pazienti.

Infine, la terza tipologia consente una vera «intimità sociale», ma limitata a chi può permettersi professionisti con molto tempo a disposizione, riservati quindi alle persone più abbienti. In questo caso, però, sono i professionisti a rischiare di perdere il senso del proprio lavoro. Trovare un modello equilibrato per professionisti, utenti e società appare difficile.

Pugh sottolinea anche come il lavoro connettivo possa o meno conciliarsi con protocolli rigidamente codificati e con sistemi di misurazione – elementi essenziali alla sostituibilità tramite tecnologie digitali. La mancanza di tempo, ostacolo tipico al lavoro connettivo, nasce proprio da questi processi di standardizzazione e quantificazione (spesso di casi che «non rientrano nelle caselle»), che si sommano al lavoro reale, poiché ormai tutto deve essere registrato elettronicamente.

Infine, l’autrice analizza gli effetti del lavoro connettivo in rapporto alle disuguaglianze sociali, sia in senso «discendente» (professionisti più istruiti rispetto agli interlocutori, come un medico bianco con un paziente povero e nero), sia in senso «ascendente» (una collaboratrice domestica nera che interagisce con una donna bianca della classe media). Nel primo caso, lo squilibrio di status può impedire la formazione di una relazione autentica, portando il paziente a evitare medici o scuole e aggravando le disuguaglianze. Nel secondo caso, l’erogazione di lavoro connettivo su richiesta dipende dalla possibilità di attribuirgli un senso, di sentirsi utili.

Si pone allora la questione dell’autenticità di ciò che si offre per stabilire una connessione. In entrambi i casi, Pugh insiste sull’importanza del «vedere» l’altro ed essere a propria volta «visti»: se una parte non riesce a esprimersi, il rapporto rischia di incrinarsi. E se l’IA evita il rischio di giudizio, questo riconoscimento senza giudizio umano è anche un riconoscimento privo di valore umano (l’IA è in fondo solo «meglio di un cattivo professionista»).

Sul valore sociale del lavoro connettivo

Il libro si conclude con un capitolo più ottimista, che illustra esempi di architetture sociali capaci di preservare un lavoro connettivo di qualità, relegando in secondo piano le esigenze di profitto e quantificazione, senza trasformare i professionisti in eroi sacrificabili.

Pugh individua tre pilastri per mantenere questo legame vitale per la società: primo, un «design relazionale» all’interno delle organizzazioni, con leader e mentori capaci di costruire una comunità di pratica; secondo, una «cultura connettiva» condivisa; terzo, una distribuzione delle risorse che conceda spazio e soprattutto tempo da dedicare al lavoro connettivo. L’autrice richiama in particolare le scelte politiche che ostacolano questi modelli organizzativi, preferendo investire in tecnologie utili soprattutto a compensare la carenza di lavoro connettivo.

Questo studio approfondito si colloca all’incrocio tra sociologia del lavoro, tecnologia digitale, organizzazioni ed emozioni. Offre spunti teorici stimolanti sulla natura del lavoro connettivo e, soprattutto, si fonda su un quadro empirico prezioso per riflettere sugli effetti dello sviluppo dell’IA, laddove le analisi attuali si soffermano più spesso sulle promesse che sull’indagine.

Va tuttavia ricordato che il lavoro connettivo, pur descritto da Pugh in chiave molto positiva, può avere anche fini non altruistici, aspetto solo accennato nel libro. Inoltre, un maggiore riferimento agli studi di genere avrebbe arricchito l’analisi: sebbene l’autrice noti che il lavoro connettivo, in quanto forma di cura, sia più facilmente riconosciuto e valorizzato quando svolto da donne, non approfondisce le specificità che possono emergere a seconda del genere. Piuttosto, delinea piste di ricerca per proseguire una riflessione affascinante e quanto mai attuale, compreso l’invito a prendere le distanze da un discorso che presenta l’IA come soluzione necessaria a problemi che non sono inevitabili, bensì frutto di scelte politiche e sociali.

Allison Pugh, The Last Human Job. The Work of Connecting in a Disconnected World, Princeton University Press, Princeton 2024, 365 p. Recensione pubblicata sul sito Books & Ideas (versione inglese de La Vie des Idées) il 18 luglio 2025 (nostra traduzione dall’originale inglese)

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