Nicea: lo studio delle fonti

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A proposito dell’anniversario del Concilio di Nicea, dopo l’intervista con il prof. Emanuele Castelli e l’intervista con il prof. Samuel Fernández, Settimananews continua ad occuparsi del libro Le fonti antiche sul Concilio di Nicea (introduzione testo greco e note a cura di Samuel Fernández; traduzione dei testi a cura di Sara Contini, Città Nuova, Roma 2025, pp. 428, euro 36), che comprende testi scritti tra l’inizio della crisi meliziana e la morte di Costantino.

Ario e Melezio

L’importanza del volume sta nel raccogliere e tradurre lettere, canoni, credo, documenti imperiali e dichiarazioni sinodali circa le questioni teologiche, istituzionali e disciplinari discusse al Concilio di Nicea. E riguardanti non solo la controversia “ariana”, che fu il tema portante di quell’appuntamento. Si parla anche della controversia meliziana.

Durante la persecuzione di Diocleziano, tra il 305 e il 306, molti vescovi erano in prigione, e Pietro, vescovo di Alessandria, era nascosto. Allora Melèzio, vescovo di Nicopoli nel Basso Egitto, decise di ordinare preti e vescovi nelle comunità private dei loro pastori. Quando nel 306, alla fine della persecuzione, Pietro riammise nella Chiesa quanti avevano abiurato per paura, Melèzio si oppose pubblicamente al vescovo di Alessandria; deposto, organizzò la “Chiesa dei martiri” secondo la concezione rigoristica della Chiesa.

La controversia meliziana e la crisi ariana ebbero conseguenze profonde. È dunque utile ritornare alle fonti, contestualizzarle, emanciparle da presupposti ideologici e apologetici.

Il libro presenta e commenta una raccolta completa dei documenti attinenti al Concilio di Nicea, con tre caratteristiche comuni: sono stati scritti tra il 304 (inizio della crisi meliziana) e il 337 (morte di Costantino); hanno uno stretto rapporto con le discussioni di Nicea; sono arrivati fino a noi per tradizione indiretta.

Le traduzioni dei testi sono state affidate a Sara Contini, specialista negli studi sulla ricezione dei testi, post-doc presso l’Accademia Vivarium Novum (2024) e il Thesaurus linguae Latinae e l’Università di Tubinga (2025).

Il problema del Logos

Con Settimananews, Sara Contini affronta prima di tutto la questione delle difficoltà affrontate e risolte in questa nuova traduzione.

«Ci sono due questioni su cui vorrei soffermarmi, a proposito della terminologia utilizzata dagli autori antichi in riferimento alla venuta all’essere del Figlio o Verbo (“Logos”) di Dio. La prima questione concerne la famosa espressione ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν, attribuita ad Ario. La seconda questione riguarda i diversi verbi che, nei vari documenti raccolti, sono utilizzati per descrivere la nascita del Figlio rispetto alle altre creature.

Iniziamo dall’espressione ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν, spesso tradotta come “c’è stato un tempo in cui [il Logos] non esisteva”;[1] il prof. Samuel Fernández e io abbiamo preferito renderla con “c’è stato un momento in cui non c’era”. Va anzitutto osservato che queste parole non si trovano direttamente nei testi di Ario che riportiamo nel volume, almeno in questa forma. È presente invece nella lunga lettera[2] in cui il vescovo Alessandro di Alessandria mette in guardia Alessandro di Bisanzio e gli altri colleghi dal pericolo rappresentato dal presbitero alessandrino Ario. La lettera di Alessandro risale a qualche anno prima del Concilio di Nicea, che poi condannerà la formulazione ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν.[3]

Questa frase non è comunque lontana da espressioni che troviamo nei documenti di Ario: in una lettera indirizzata all’alleato Eusebio di Nicomedia (siamo sempre intorno al 322 o 323), Ario afferma che, “prima di essere generato e creato, [il Figlio] non c’era”,[4] perché l’unico ingenerato e senza principio è il Padre.

Nella stessa epistola, tuttavia, Ario si premura di chiarire che il Figlio “è venuto all’essere (ὑπέστη) prima dei tempi e prima dei secoli, pienamente Dio unigenito e inalterabile”.[5]

Anche quando, poco dopo, Ario e i suoi scrivono ad Alessandro per difendere la propria dottrina, ribadiscono che il Figlio, per mezzo del quale Dio ha fatto i secoli, è “immutabile e inalterabile, creatura perfetta di Dio ma non come una delle creature; generato, però non come uno dei generati”, e ancora: “il Figlio, che è stato generato dal Padre fuori dal tempo e prima dei secoli è stato creato e fondato, non c’era prima di essere generato, però, essendo stato generato fuori dal tempo e prima di tutti gli altri, è l’unico a trarre la propria sussistenza dal solo Padre”.[6]

Ario, infatti, non intende associare il Figlio alle altre creature nate nel tempo, come gli esseri umani, bensì rigettare due visioni teologiche che anche i suoi stessi avversari rifiutano, ovvero, da un lato, l’esistenza di due principi ingenerati, dall’altro la cristologia a due stadi, cioè l’idea che il Figlio fosse anteriormente una “parte” interna alla ousia divina e fosse stato successivamente esternalizzato.

Torniamo alla lettera di Alessandro, per capire perché egli attribuisca ad Ario queste parole. Alessandro associa la frase “c’è stato un momento in cui il Figlio non c’era” a un’altra controversa nozione che, effettivamente, troviamo espressa in questi termini quantomeno nei primi testi di Ario, ovvero che il Figlio “viene dal nulla” (ἐξ οὐκ ὄντων ἐστίν).

Notiamo, in questo resoconto, che Alessandro fa delle opinioni del suo avversario l’intersecarsi di diversi piani (le idee vere e proprie di Ario, la lettura che ne offre Alessandro, le visioni di altri vescovi orientali legati a diverso titolo alla controversia): si tratta di un aspetto caratteristico dei documenti raccolti in questo volume.

Nella lettera, Alessandro imputa ad Ario anche l’affermazione che il Figlio sia uguale per natura alle altre creature, e che alla sua nascita il Padre gli abbia concesso la primizia in quanto avrebbe previsto la sua eccezionale virtù.[7]

La condizione privilegiata del Figlio rispetto, per esempio, agli esseri umani sarebbe perciò dovuta al merito, ovvero un elemento accidentale e variabile, e non a una sua filialità naturale, visto che, come le altre creature, egli sarebbe stato condotto all’essere dal non-essere. Si potrebbe forse dire, quindi, che Alessandro accusi Ario di pensare del divino Logos e Figlio ciò che il grande esegeta Origene di Alessandria (ca. 185-254) pensava dell’anima umana di Cristo. Come un altro grande protagonista della controversia, ovvero Eusebio di Cesarea, fa notare ad Alessandro, questo non è però ciò che Ario scrive.[8]

L’idea che il Figlio non ci fosse prima di essere generato è chiaramente di Ario, e la si trova non solo nelle lettere già citate ma anche nell’Inno/Thalia;[9] l’idea, invece, che sia mutevole o simile alle altre creature è piuttosto di altri “Ariani” come Giorgio di Laodicea e Atanasio di Anazarbo.[10]

In ogni caso, per Alessandro sono le stesse Scritture a mostrare l’assurdità dell’affermazione ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν: se è vero che il Logos era in principio, e per mezzo di lui ogni cosa è nata, come si legge nel prologo del Vangelo di Giovanni, è evidente che non ci possa essere stato nessun “momento” (τὸ ποτε) in cui il Logos non c’era, perché l’esistenza di tutti i “momenti”, come di ogni altra cosa incluso il tempo stesso, si deve proprio al Logos.[11]

Alessandro lamenta che i propri avversari non vogliano accettare che le loro affermazioni sulla nascita del Figlio a un certo punto dal nulla abbiano valore temporale (χρονική πρόθεσις), e due o tre decenni dopo anche il nuovo vescovo di Alessandria e grande nemico dell’arianesimo, cioè Atanasio, accusa gli Ariani di evitare ipocritamente di dire in modo esplicito “c’è stato un tempo in cui non c’era il Logos” (ἦν χρόνος ὅτε οὐκ ἦν; or. Ar. 1.13.8), proprio per non incorrere in critiche come quella mossa da Alessandro.

Per questo ci è sembrato opportuno evitare anche noi la parola “tempo” nella traduzione di questa famosa frase attribuita ad Ario: da un lato, Ario stesso insiste sul fatto che la creazione o generazione del Figlio precede la creazione del tempo e la sua natura non è soggetta a mutamenti nel tempo, dall’altro i suoi avversari rilevano l’assenza di un riconoscimento esplicito da parte di Ario della dimensione temporale delle sue affermazioni sulla precedenza del Padre rispetto al Figlio. Dunque, se questa affermazione è effettivamente di Ario o riassume correttamente il suo pensiero, una traduzione che non parli esplicitamente di “tempo” restituisce in modo più fedele il suo modo di esprimersi.

La scelta dei verbi

Per quanto riguarda la seconda questione, invece, ovvero la traduzione di verbi tecnici come γίγνομαι, “nascere/venire all’essere”, e γεννάω, “generare”: rispetto alle traduzioni precedenti, ho scelto di mantenere il più possibile sempre le stesse traduzioni nei vari documenti per i vari verbi che fanno riferimento alla filialità del Cristo, per cui a “nascere” corrisponde sempre e solo γίγνομαι, a “esistere” sempre e solo ὑπάρχω e i suoi composti, a “creare” sempre e solo κτίζω, e così via. Questa scelta ha dato, a volte, luogo a espressioni che mi rendo conto possano essere un po’ farraginose: per esempio, nella propria lettera a Eusebio di Nicomedia, Ario descrive così il pensiero sul Figlio del proprio avversario, Alessandro di Alessandria: “il Figlio coesiste (συνυπάρχει) in modo ingenerato (ἀγεννήτως) con Dio, sempre-nato (ἀειγενής[12]), nato-ingenerato (ἀγεννητογενής, difficile espressione che ha in sé sia la radice di γίγνομαι che quella di γεννάω)”.[13]

Ho fatto questa scelta di traduzione perché, specie da documenti come il tomo di Alessandro di cui si è parlato prima, risulta che l’utilizzo di un verbo piuttosto che un altro ha una propria valenza nel dibattito. Non solo è chiaramente inaccettabile per la fazione di Alessandro l’idea di una fattura o creazione del Figlio da parte del Padre (Alessandro rifiuta dunque i verbi ποιέω o κτίζω,[14] che Ario, sulla base di Proverbi 8,22-25, riferisce al Figlio nella già menzionata lettera a Eusebio[15]) ma anche la stessa scelta di parlare di una nascita del Figlio può essere problematica o, comunque, meritevole di una spiegazione più approfondita, perché γίγνομαι è il verbo che in Gv 1,3 (ogni cosa è nata per mezzo di lui) si riferisce alle creature che sono appunto fatte per mezzo del Logos.

Se altri autori più o meno vicini al pensiero di Ario, come Eusebio di Nicomedia, Asterio di Cappadocia (secondo Atanasio), Ario stesso e più raramente Eusebio di Cesarea possono affermare che Cristo, poiché ha un principio, è “nato” (anche se, come detto prima, Ario si sforza di marcare una distinzione con le altre creature che sono “nate”), Alessandro tende a preferire “generato” (da γεννάω), attestato per esempio in 1Giovanni 5,1 (Chi ama il Padre ama anche il Figlio generato da lui) e utile anche per rigettare l’accusa, rivoltagli dagli avversari, di professare due ingenerati. In più, Alessandro usa termini scritturistici come l’“unigenito” (μονογενής) di Giovanni 1,18, oppure, stando a quanto su di lui riferisce Ario, questi strani composti come “sempre-nato”. Questa scelta di Alessandro è poi formalizzata a Nicea, dove l’unico verbo accettato per il Figlio è “generato”.

Volevo che tutte queste differenze tra i vari verbi, che hanno evidentemente una propria portata, fossero sempre immediatamente riconoscibili nella traduzione, in modo che, tramite queste parole chiave come “nascere”, anche l’italiano permetta di riflettere su una delle questioni discusse dal prof. Fernández nell’introduzione del volume, ovvero quella della presentazione filtrata delle idee dell’avversario nei vari documenti raccolti in questo volume.

Per esempio, ci si può chiedere se Alessandro avesse veramente utilizzato l’espressione “nato-ingenerato”, come afferma Ario, quando dai suoi propri scritti sappiamo che Alessandro considerava il Figlio “generato” e non nato.

Questi due esempi mostrano come le scelte di traduzione siano determinate dalla lettura complessiva di tutti i documenti, che dialogano l’uno con l’altro, e siano volte a supportare il lettore nella sua propria indagine tra le diverse voci che il volume raccoglie».

Attualità di Nicea
  • Il volume raccoglie (e traduce) tutti i documenti che si riferiscono ai temi trattati dal Concilio di Nicea scritti tra il 304 e il 337 e conservati in altre opere (le fonti indirette). È una raccolta e non un’antologia. Può spiegare la differenza?

Esatto. Si tratta di una raccolta proprio perché non seleziona bensì raccoglie tutti i documenti a noi noti che rispettano i tre criteri di selezione ampliamenti discussi da Samuel Fernández nell’introduzione del volume, cioè – come ha ricordato giustamente lei – l’essere stati composti negli anni interessati dalle controversie trattate a Nicea (ovvero sostanzialmente le crisi meliziana e ariana), l’avere come oggetto queste controversie, e l’essere stati trasmessi per via indiretta.

Come già menzionato, il volume intende fornire una panoramica delle diverse voci contemporanee sugli eventi che portarono al Concilio e sugli sviluppi immediatamente successivi, guidando il lettore a farsi una propria idea su Nicea nel suo contesto, con una maggiore consapevolezza degli interessi teologici e politici dei suoi protagonisti.

  • Oggi, a suo avviso, quale è l’importanza di ricordare i 1700 dal Concilio di Nicea e quale è l’attualità che dovrebbe avere per la teologia e la vita della Chiesa?

Nella precedente intervista, Emanuele Castelli si è già soffermato sull’importanza del Credo niceno-costantinopolitano, quindi io mi limiterò ad aggiungere alcune osservazioni.

I documenti relativi al Concilio di Nicea ci restituiscono un’immagine complessa della Chiesa antica, in cui emerge sempre più forte sul piano teologico la questione dell’eredità origeniana e, sul piano politico, la relazione, da un lato, tra il potere centrale (in questo caso, il vescovo di Alessandria) e le voci discordanti, dall’altro, tra Chiesa e Stato. Queste direttrici avranno un ruolo fondamentale nel mondo cristiano per i secoli successivi, e pochi eventi ci permettono di metterli a fuoco come il grande Concilio, che in questo senso ci offre una chiave di lettura preziosa della storia della Chiesa.

Dall’interazione tra questi diversi elementi emerge una comprensione della teologia e della definizione del Credo come frutto di un processo di discussione, approfondimento, mediazione, compromesso, ricerca del consenso, richiamo più o meno giustificato ad autorità come le Scritture e la tradizione apostolica, resoconti più o meno filtrati dalla prospettiva di chi scrive.

Questo processo raggiunge con il Concilio uno snodo importante ma non il proprio definitivo compimento, tanto è che, appunto, si parla di Credo niceno-costantinopolitano, e il Concilio di Nicea non portò certo alla fine dei dissidi nelle Chiese.

Da un lato, c’è la volontà della Chiesa, all’indomani del trionfo del cristianesimo con Costantino, di lasciarsi alle spalle l’instabilità e l’incertezza delle persecuzioni e di riconoscersi in un’unica professione di fede.

Dall’altro lato, il grado di complessità che la teologia cristiana aveva già raggiunto nei secoli precedenti, specialmente nell’Alessandria di Origene, aveva aperto moltissime possibilità di interpretazione del dato scritturistico, mentre il periodo delle persecuzioni aveva portato a un ripensamento della struttura e degli equilibri di potere della nuova Chiesa.

La pluralità della Chiesa riunita a Nicea diede luogo a conflittualità ed esclusione, ma anche a dinamismo e innovazione: basti pensare all’introduzione di termini non scritturistici come homoousios, a cui viene attribuito a Nicea un valore identitario.

Lo studio del Concilio e anche delle dolorose controversie che vi fecero seguito, dunque, può essere un monito a raccogliere la sfida rappresentata dalla complessità della fede e della società di cui la Chiesa fa parte, recuperando il senso di identità e l’ideale di pace rappresentati dal Credo ma mantenendo un atteggiamento aperto alla ricerca e al dialogo.


[1] Per esempio nei testi raccolti in M. Simonetti (ed.), Il Cristo, vol. II (Fondazione Lorenzo Valla: Scrittori greci e latini), Mondadori 1986.

[2] Fonti Antiche sul Concilio di Nicea (FNS da qui in poi): FNS 8.10,15,22; cf. FNS 26.7,12-13.

[3] FNS 32.4; FNS 34.3; FNS 37.8,15-16.

[4] FNS 6.5; cf. FNS 7.

[5] FNS 6.4.

[6] FNS 11.2,4.

[7] FNS 8.11-14.

[8] FNS 12.

[9] FNS 18.

[10] FNS 19-22.

[11] FNS 8.22-23.

[12] Questo è il termine riportato nell’edizione in questo volume; l’edizione Opitz corregge invece con ἀειγεννής, “sempre-generato”, in riferimento alla nozione della generazione eterna, anche questa grande eredità del pensiero origeniano

[13] FNS 6.2. Cf. la traduzione in Simonetti, Il Cristo, p. 71: “il Figlio coesiste con Dio senza essere stato generato, generato da sempre (ἀειγεννής), ingenerato-generato”.

[14] FNS 8.19.

[15] FNS 6.5.

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