
Occorre restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico e al disinteresse laico, immaginando nuovi percorsi.
nda: Una premessa: si usa il femminile inclusivo perché in questo ambito parlare di laiche permette di parlare di tutto il mondo “non ordinato”. Seconda premessa: il testo è una provocazione e come tale è stato anche stilisticamente approntato.
Lo sappiamo. La teologia italiana vive di doppiezze: da un lato, l’Italia si richiama per storia e identità al cristianesimo (“donna, madre e cristiana”) e, dall’altro, la teologia è sconosciuta, prigioniera dei sancta sanctorum degli Istituti Teologici e della CEI.
Da un lato, siamo tutti cristiani, dall’altro, la comprensione critica dei dati della fede cristiana è estranea alla società civile così che non c’è reazione da parte cattolica se un parlamentare sventola e bacia il rosario in parlamento mentre le sue politiche non hanno nulla a che vedere con il vangelo.
Liberare la teologia dalle doppiezze istituzionali
C’è un’altra doppiezza: una persona che non condivide la fede cristiana o nutre legittime riserve verso la Chiesa cattolica ma è culturalmente attratta da questioni teologiche, si trova esclusa da qualsiasi possibilità di approfondimento culturale. La teologia è estromessa dalle Facoltà universitarie statali e, negli Istituti Teologici, sembra per lo più orientata alla formazione sacerdotale o intraecclesiale.
Questo dà vita a fenomeni imbarazzanti: per essere iscritti al percorso istituzionale occorre, per esempio, il certificato di battesimo e/o la lettera di raccomandazione del parroco che rassicura sulla buona fede e condotta cattolica (che agli occhi di un cittadino comune potrebbe essere considerata una sorta di dinamica mafiosa); la necessità (talvolta per ordini superiori) di conferire comunque titoli teologici a maschi in formazione per il ministero (perché i vescovi hanno fretta di imporre le mani ai seminaristi); la considerazione nella valutazione degli studenti di aspetti non strettamente accademici ma anche ecclesiali.
C’è un’ulteriore doppiezza che conosciamo bene all’interno dei percorsi teologici cattolici: per volere dell’allora card. Z. Grocholewski, Prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica dal 1999 al 2015, per la sua formazione da canonista,[1] fu reinserito il doppio binario – che si era cercato di eliminare decenni prima – distinguendo, cioè, il percorso di formazione per il ministero ordinato e quello per le laiche.
L’idea era probabilmente quella di mantenere in mano clericale il controllo della teologia, perché, infatti, sarebbero stati solo coloro che avessero potuto svolgere il primo percorso (Baccellierato, Licenza e Dottorato) che avrebbero avuto la possibilità di accedere alla docenza stabile. L’esito, invece, fu un abbassamento di livello della qualità dell’insegnamento negli Istituti teologici per i seminaristi e un innalzamento di livello dei percorsi per le laiche.
Questo è avvenuto perché, da una parte, come si accennava, si sono iscritti ai percorsi presunti “di serie A” persone che forse avevano una vocazione pastorale ma non sempre una vocazione accademica (senza considerare i problemi di lingua per i seminaristi di madrelingua straniera, talvolta con lacune di comprensione rimanenti fino ai titoli maggiori) e, dall’altra, perché le laiche che si iscrivevano ai percorsi ISSR (presunti di serie B) arrivavano con una forte motivazione accademica e culturale, con una maturità personale derivante da percorsi professionali già avviati e, per lo più, con una maggiore attrezzatura culturale a causa, non di rado, di una precedente laurea. Sappiamo, infatti, le difficoltà dello sbocco anche professionale di un titolo teologico per le laiche.
D’altra parte, le resistenze a iscriversi a un corso di teologia confessionale da parte di una laica e magari agnostica o atea sono comprensibili: la diffidenza verso il clero, acuita dalle recenti cronache di abusi; il timore dell’indottrinamento; l’incompatibilità tra i propri impegni professionali o familiari e la struttura rigida dei corsi ecclesiastici.
Sappiamo che l’Università italiana non offre un percorso formativo teologico che non si ritrova se non trasversalmente tramite percorsi di letteratura antica (dove tra l’altro il livello accademico spesso è pari, se non superiore, a quello presentato dall’approccio teologico-dogmatico) o corsi di Storia del pensiero teologico (perché la parola teologia non può essere usata in ambito pubblico senza il patrocinio della CEI): queste possibilità sono, tuttavia, limitate e, comunque, nessuna Università italiana concede un titolo in teologia che – ancor peggio di filosofia – non concederebbe sbocchi professionali.
Queste barriere hanno creato un disastro culturale. La teologia cristiana finisce per essere rappresentata pubblicamente solo nei suoi lati più imbarazzanti: il cristianesimo è associato solo alla retorica moralista, agli scandali del clero che fanno perdere credibilità al messaggio evangelico, alla strumentalizzazione politica della religione. Tutto il resto, la ricchezza filosofica e culturale di secoli di pensiero, rimane ignorato o sottostimato.
Tutte queste doppiezze hanno fatto perdere l’accesso popolare alla rilevanza culturale e filosofica del pensiero teologico, ma non alla sua necessità e desiderio diffuso. È indubbio infatti che fenomeni come il successo di Vito Mancuso, Massimo Recalcati, Michela Murgia o Aldo Cazzullo indicano che, quando si trova il giusto canale, la risposta è più abbondante di quanto si pensi e, dunque, c’è una grande domanda.
Lo dimostrano anche le grandi agorà culturali (GMG, Arena di Pace, Poeti sociali, Festival Biblico, della Letteratura, della Spiritualità) che riescono, forse, a trasmettere entusiasmo e stupore, ma non accompagnano in approfonditi percorsi di formazione individuale, riflessione e cultura teologica. Emergono così, come massimi esperti, gli Augias di turno che sembrano parlare di segreti e rivelazioni mai sentiti prima, quando i contenuti di un libro che vende milioni di copie si ritroverebbero nel primo capitolo delle dispense di Patrologia.
D’altra parte, c’è il fenomeno di adulti (certamente molto ricchi) disposti a rovinarsi economicamente per ascoltare maestri in grado di riportare “respiro” nella loro vita, rivelando loro sostanzialmente come i pensieri dominino il benessere interiore e i influiscano sui comportamenti. Questi novelli Evagri Pontici che riescono a fornire un abc spirituale a ricchi borghesi o a manager aziendali sono un fenomeno in crescita che fa la fortuna di percorsi dove, assieme alla teologia, anche miti, stelle e astrologia fanno la felicità delle tasche dei predicatori.
Liberare le teologhe dal controllo clericale
Mancano strutture in grado di rispondere all’esigenza di colmare questo vuoto ma non è difficile immaginarle anche sulla base del fatto che, da decenni ormai, si sono moltiplicati luoghi di studio e di diffusione più seria della teologia (scuole di teologia, i corsi teologici online della Facoltà Valdese, percorsi spirituali e culturali nelle foresterie monastiche, corsi o incontri promossi da parrocchie, reti e associazioni, perfino le aziende chiedono una riflessione antropologica e spirituale tesa al benessere dei lavoratori). Nessuno di questi appare però ancora del tutto emancipato dalle Chiese (anche se il tentativo più esplicito nel senso di un’apertura appare essere quello della Facoltà Valdese).
Perché il tema è: si può pensare una teologia che non sia espressione della fede? In modo inverso e in altri ambiti la stessa questione prevede che la teologia possa costituire un pericolo per la fede o la devozione. In altre parole: la teologia è davvero una scienza? Può riflettere, oltre che sulla fede di chi la studia, anche sui dati della fede o meglio sull’esperienza di qualcun altro e che è quindi necessariamente consegnata tramite i comuni mezzi comunicativi e in quanto tale passibile di essere analizzata?
Oggi vediamo il moltiplicarsi anche di proposte di riflessione e percorsi teologici, permesse soprattutto dalla presenza virtuale e dal nuovo protagonismo delle teologhe (si pensi al successo che hanno i corsi di teologia online del Coordinamento Teologhe Italiane), che cavalcano il vuoto teologico lasciato dagli studi maschili sul ruolo e la rilevanza delle donne nella storia cristiana. In tale moltiplicazione di iniziative si trova anche chi ha il coraggio di offrire una riflessione fuori dalle braccia di “madre Chiesa”.
Non sorprende se, nel contesto della Chiesa italiana, tale autonomia di pensiero viene considerata come una minaccia o come arroganza. L’accusa implicita di egocentrismo a certi influencer e ai loro follower viene estesa anche a chi propone percorsi sistematici e più seri di conoscenza della Scrittura; l’invito e l’avvertimento “spirituale” a lavorare “in rete”, la diffidenza nei confronti di iniziative autonome e fuori dagli schemi tradizionali solleva ostacoli, resistenze ma soprattutto solleva una domanda cruciale: chi ha il diritto di fare teologia? E come?
In campo cattolico finora la risposta è stata chiara: i ministri ordinati, tanto che noi teologhe conosciamo le politiche per evitare che laiche avessero la docenza in discipline come la sacra Scrittura e la Teologia: per ottemperare alla “quota rosa” ci hanno riservato volentieri i percorsi di filosofia o, al massimo, di spiritualità, oppure ci relegano al “femminile” che diventa un ghetto così anche controllabile.
È sotto gli occhi di chiunque, e tale visione abbaglia i docenti delle scuole superiori che sono a contatto con gli adolescenti e i giovani, la forte ricerca di senso, di simbolico e di interiorità, di capacità di fare i conti con quell’infinito dell’anima (come la indicava Eraclito) nella quale è facile perdersi senza coordinate:[2] in un’epoca di crescente secolarizzazione, in questo mondo neoliberista dove la mentalità consumistica ha colonizzato rapporti e menti, la ricca eredità teologica e spirituale cristiana appare avere una missione culturale più ampia. Mantenerla confinata e appannaggio degli ambienti ecclesiastici significa privarla della sua potenziale funzione pubblica e umana.
Occorre quindi pensare ma anche moltiplicare centri culturali capaci di operare secondo principi radicalmente diversi da quelli degli istituti ecclesiastici tradizionali. Si tratta di pensare percorsi leggeri nella struttura, intensi nella proposta contenutistica, continuativi nella proposta se non anche sistematici nella copertura disciplinare: le tematiche dovrebbero anzitutto privilegiare un approccio comparativo rispetto all’adesione confessionale; ciò non significa necessariamente coltivare ostilità verso la fede o la Chiesa cattolica, ma creare spazi dove credenti e non credenti possano confrontarsi su un piano paritario.
La teologia deve avere il coraggio di diventare divulgativa senza cadere nell’apologia o nella semplificazione catechistica o nell’irrigidimento moralistico o dogmatico. È chiaro che va abbandonato il gergo specialistico per adottare un linguaggio diretto e comprensibile. Va da sé che si dovranno trovare tematiche accattivanti, capaci di sollecitare la curiosità di un cittadino di oggi.
La diffusione che hanno avuto personaggi come Vito Mancuso o Michela Murgia nella divulgazione di tematiche teologiche non ci dice solo che hanno trattato temi che interessano la società di oggi, ma soprattutto che lo hanno saputo fare con un linguaggio chiaro e diretto capace di rendere il linguaggio teologico accessibile a tutti. Dare alle tematiche il sapore del filtro esperienziale non può essere conferito dalla restituzione di un tema studiato: occorre avere abitato le questioni che si propongono per accompagnare altri in quei vissuti.
Certo, non è semplice tradurre certi contenuti senza semplificarli, ma, come si sa, la traduzione è un lavoro che richiede competenze in due mondi apparentemente incomunicabili.
Mi preme sottolineare ancora come sia determinante aprire questi percorsi al di fuori dei confini confessionali. Se capiamo questo, appare ovvio che i preti dovranno lasciare la scena. A causa della disistima che la teologia e il mondo clericale si è guadagnata negli ultimi decenni, la garanzia di un’autonomia intellettuale di questi percorsi potrà essere garantita solo se il corpo docenti sarà formato da laiche.
E allora diventa paradossale che siano soprattutto le donne a garantire che una riflessione teologica “pubblica” sia sottratta alle dinamiche di autorità proprie delle istituzioni ecclesiastiche. Loro, che per secoli sono state silenziate ed escluse dalla voce scientifica in tutti i campi, appaiono ora le più autorevoli per parlare dalla cattedra della teologia pubblica.
Sotto questo aspetto le tante Virginia Woolf della storia della teologia cattolica ci hanno raccontato le sofferenze e la drammaticità di certi percorsi accidentati. Sappiamo oggi di aver bisogno di una stanza tutta per noi e di 500 sterline. L’accesso al livello accademico lo abbiamo avuto. Ora occorre trovare autonomia e sostentamento economico, perché è chiaro che theologia non dat panem.
Quindi, da una parte, le teologhe dovranno trovare un’autonomia economica che permetta loro di non essere sotto ricatto nella loro libertà di insegnamento. Esperienze già attuate e presenti dimostrano la fattibilità di simili progetti, magari sponsorizzati da aziende o dagli stessi fruitori nella forma di accordo economico diretto con una professionista.
Occorre anche liberare i vescovi dall’incombenza di conferire una benedizione a tali iniziative. I capi della Chiesa non dovranno sentirsi implicati in questa epopea alla quale non dovranno (né talvolta potrebbero) dare assenso: ne comprendiamo le difficoltà. I più perspicaci, del resto, saranno ben contenti (e magari sollevati) nel vedere lanciare iniziative alle quali non è richiesto il loro intervento: sarà un modo anche per riuscire a renderle più creative.
D’altra parte, le teologhe stesse dovranno vigilare a non riprodurre all’interno dei loro circoli o nelle loro relazioni dinamiche di controllo o di potere che, proprio poiché subite, potrebbero essere inconsapevolmente rimesse in atto. Il patriarcato è una cultura che si introietta e che permea la mente di maschi e femmine.
Un problema analogo viene vissuto dalle generazioni di pensatrici femministe laiche. Le madri fondatrici del femminismo (es. della differenza) non si riconoscono nelle posizioni delle nuove generazioni di femministe (Non una di meno, Transfemministe, LGBTQ+) e sono state tentate di ridimensionarle o di non riconoscerle. Eppure, la lezione fondamentale proveniente dal femminismo, quella dell’“autodeterminazione”, dovrebbe valere per tutte: è valsa per le “madri”, vale per noi teologhe e dovrebbe valere per le generazioni dopo di noi.
Aspettiamoci, quindi, una resistenza del mondo ecclesiastico ma anche da quello laico: il mondo cattolico potrebbe percepire queste iniziative come una sottrazione di competenze, di autorità e soprattutto di uditorio (che già scarseggia nelle chiese!). Ma ci saranno da superare anche i freni provenienti dal mondo civile che potrebbe vedere in queste proposte strategie di proselitismo mascherato.
Liberarsi dalla lezione frontale
È difficile far comprendere e rendere conto a chi non la vive del grado di trasformazione che sta subendo la scuola pubblica.
Da una parte, le esigenze che vengono dalla pedagogia richiedono ai docenti competenze psicologiche e pedagogiche aggiornate che sembrano assenti dove si insegna teologia.
Dall’altra, il modello neoliberista sta trasformando l’educazione in una delle tante performance per rendere i giovani funzionali al sistema e i criteri aziendali sono diventati egemonici anche nei gangli più intimi della scuola (i genitori sono oramai i clienti di un’azienda e in quanto tali fanno sentire il loro indice di gradimento).[3] A maggior ragione, sempre più avremo bisogno di centri o di percorsi formativi pensati per piccoli gruppi, di scuole “socratiche”, che permettano una formazione umana regolare, continua e approfondita (lifelong learning è ormai un tema mainstream anche nei luoghi di lavoro e che tanto assomiglia a quell’epektasis di paolina e gregoriana memoria).
Certamente occorrerà riferirsi alle metodologie didattiche più recenti senza tuttavia prestare del tutto il fianco all’aziendalizzazione dei percorsi.
È necessario certamente superare il modello della lezione frontale, privilegiando metodologie partecipative come seminari, tavole rotonde, laboratori di attività e pensiero (role playing, giochi d’aula, flipped classroom, cooperative learning, Think-Pair-Share activity e altri metodi didattici alternativi) che favoriscano il confronto critico e la co-costruzione del sapere.[4]
Il modello “formazione” già abbondantemente presente nelle aziende e in mano alle scuole di formazione specializzate (che viene imposto ormai sempre più purtroppo anche alle scuole)[5] si presenta come metodo più adatto all’uopo e sta diventando sempre più architettonico. Un docente dovrebbe essere anche un formatore, dotandosi di strumenti tecnici per l’apprendimento che oggi vengono dal team building o dal coaching ma che sono per lo più ancora sconosciuti nelle aule teologiche.
Liberare le tematiche dai recinti disciplinari e istituzionali
Particolare attenzione andrebbe rivolta al dialogo inter o transdisciplinare, certo invitando esperti di altre discipline – filosofi, sociologi, psicologi, scienziati – a confrontarsi con le questioni teologiche contemporanee ma soprattutto chiedendo ai teologi di saperne di più di questi campi.
Inutile ricordare che tematiche come l’etica dell’intelligenza artificiale, la teologia della sostenibilità ambientale, l’analisi critica dei messaggi populisti che strumentalizzano il religioso, la relazione tra scienze e forme di credenze (comprese quelle così attuali dei complottismi), sono fondamentali. Le più contigue sono ovviamente le proposte di analisi teologica di documenti artistici o di letteratura, ma anche il cinema e la musica sono terreni privilegiati di reciproca fecondazione tra saperi diversi.
La teo-logia ha per statuto proprio quello di essere un linguaggio che non può che tradurre le formule antiche in linguaggio contemporaneo se vuole rivolgersi ai contemporanei.
C’è un grande territorio che è stato predominio della Chiesa fino a pochi decenni fa e che oggi diventa moneta spicciola da scambiare in spiaggia: l’eredità culturale che deriva al cristianesimo dall’analisi e dalla gestione dell’esperienza interiore.
Oggi fortunatamente si trovano psicoanalisti, psicoterapeuti, coach mentali, naturopati e offerte di pratiche meditative più o meno in ogni ganglio della città. Tuttavia, resta ancora un lavoro da fare per i teologi spirituali: la competenza nel mostrare il raccordo quasi naturale tra le affinate tecniche attuali della psicoterapia e la ricca tradizione del dialogo spirituale antico, tra il desiderio dei giovani per i giochi di ruolo e la decodificazione della sapienza della ritualità, tra il bisogno di trascendenza e l’illustrazione delle tante possibili estasi quotidiane,[6] tra le tecniche di meditazione e il meletein di antica memoria e tanto altro.
Qui va fatta una precisazione: la rivoluzione copernicana, messa in atto da I. Kant per la filosofia e assunta da K. Rahner in teologia, permette di descrivere il fenomeno religioso senza doversi necessariamente addentrare in discussioni circa l’effettivo “nome” del “noumeno” – nella fattispecie della e di quale divinità.
Questa prospettiva permette di non mettere a tema il presupposto della fede e di trattare tutte le discipline e le tematiche teologiche con il rispetto della credenza di ciascuno.
Una tale teologia non sarà tesa a dimostrare l’esistenza o la dicibilità di quel “noumeno” ma, restando sul piano del fenomeno antropologico del fatto religioso e delle sue implicazioni, avvicina la mente umana a tematiche che si aprono sul mistero della vita. Perché è vero che certa teologia ci ha insegnato che la riflessione teologica presuppone la fede (Agostino), ma vi sono stati fior fiore di altri teologi che hanno mostrato come la ragione stessa cerca la fede o ne è separata (Anselmo, Abelardo, Ockham).
Un altro presupposto teoretico di queste riflessioni è costituito anche dalla convinzione che la teologia costituisca un patrimonio culturale e antropologico che trascende i confini di fede e confessionali. Le grandi questioni teologiche, al pari di quelle filosofiche, interpellano ogni persona, indipendentemente dalle sue convinzioni religiose e dal suo livello di istruzione e hanno costituito un patrimonio indicibile del pensiero umano.
Che siamo in un contesto sociale che spinge e chiede strumenti per orientarsi nelle varie crisi contemporanee è indubbio. Chi sente oggi l’esigenza di informarsi di più sulle origini della religione di Mosè, trova sul web siti più o meno complottistici: i conflitti bellici che attraversano l’Europa orientale e il Medio Oriente, infatti, hanno riattualizzato drammaticamente la questione del protagonismo delle religioni nei conflitti; del resto, le derive populiste della più grande “religione civile”[7] che sono gli USA, dove, per esempio, è tornato di gran moda il creazionismo, investono tutte le democrazie occidentali, sollevando interrogativi profondi sul rapporto tra verità, religione e potere politico.
Anche la crisi sistemica del capitalismo neoliberista pone con forza rinnovata la questione della giustizia sociale, dell’economia della condivisione, della critica alle ideologie colonialiste o razziste che producono cittadini senza diritti, della relazione con la terra, tutti temi che erano al centro della narrazione biblica.
Quando la vita delle persone appare ormai senza “valore” se non produce ricchezza e il sapere tecnico è diventato l’unico schema per pensare e impostare le relazioni,[8] intestardirsi a mantenere il monopolio della teologia significa in fondo non credere al suo potenziale civile e sociale per il benessere a 360 gradi dell’umanità.[9]
Immaginare una teologia che sappia uscire dalle proprie roccaforti istituzionali per confrontarsi con la complessità del mondo contemporaneo, significa riconoscere che la verità teologica, se tale è, non può temere il confronto con altre forme di sapere, anzi ne risulta fecondata e vitalizzata.
Restituire alla teologia la sua vocazione pubblica, sottraendola al monopolio ecclesiastico e al disinteresse laico costringe a immaginare percorsi che meritano la libertà di essere sperimentati, nella convinzione che il dialogo critico e rispettoso tra visioni del mondo diverse costituisca una risorsa preziosa per l’intera società.
Forse così si potrà contribuire ad evitare che il cristianesimo continui a essere percepito unicamente attraverso le sue manifestazioni più deteriori e si potrà favorire una comprensione più profonda e articolata del suo contributo al pensiero occidentale e alla ricerca di soluzioni per le sfide epocali che ci attendono.
Liberarsi dai dissidi per una teologia incarnata e significativa
Il dissidio della teologia italiana attraversa potentemente anche l’esperienza di chi ha maturato competenze teologiche: esiste una indubbia tensione nei percorsi personali delle accademiche. Il conflitto tra la competenza personale e il riconoscimento istituzionale può dare vita a timori, scoraggiamenti, abbandoni. Ma la frustrazione che ne emerge potrebbe anche funzionare da detonatore e diventare generativa di nuove posture per dare vita a iniziative nelle quali proprio la marginalità diventi un trampolino di lancio per portare la teologia fuori dai recinti ecclesiastici, dove forse c’è anche richiesta, e costituisca il motore della riflessione e dell’azione.
In questa tensione si apre, infatti, una possibilità feconda: quella di una teologia che non cerca solo riconoscimento, ma significato, che non si misura sulla base della legittimità ricevuta dall’alto, ma della risonanza che genera nei vissuti concreti delle persone.
Si tratta, in sostanza, di pensare la teologia non come sistema dottrinale da trasmettere, ma come strumento di pensiero critico e di discernimento, capace di generare coscienza e orientamento. Abbiamo un estremo bisogno allora di moltiplicare e non di diminuire, di diffondere e non di centralizzare questi sognati luoghi di consulenza teologica, scuole e laboratori di umanizzazione.
Proprio lì, nel punto in cui il desiderio dell’io incontra il desiderio di un altro, si può aprire lo spazio per una teologia incarnata, significativa, politica.
[1] Pare che il ragionamento sia stato questo: siccome nel CDC si parla di Istituti Teologici e di Istituti Superiori di Scienze Religiose, occorre ripristinarli. L’operazione maschera maldestramente un’impostazione clericale che ha consentito di complicare l’accesso al Dottorato per le laiche.
[2] Jonathan Haidt, La generazione ansiosa, Rizzoli 2024; Franco De Masi – Manuela Moriggia – Giancarlo Scotti, Quando la scuola fa paura. La fobia scolastica spiegata ai genitori, docenti, psicologi e psicoterapeuti, Mimesis 2020.
[3] Miquel Benasayag, Funzionare o esistere? Vita e pensiero 2019; Id. L’epoca della intranquillità. Lettera alle nuove generazioni Vita e Pensiero 2023; Angélique Del Rey, La tirannia della valutazione, Eleuthera 2018.
[4] Forema, Small techniques, giochi d’aula e attività per l’apprendimento esperienziale; Masci, Giochi e role playing per la formazione e la condizione dei gruppi.
[5] “Purtroppo”, perché un tale modello non si ritiene adatto per i più piccoli.
[6] Ho affrontato la questione in Estasi, Il Pozzo di Giacobbe 2024.
[7] Emilio Gentile, La democrazia di Dio. La religione civile americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2008.
[8] Cf. Zygmunt Baumann, Intervista sull’identità, Laterza 2004.
[9] L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito il “benessere” non solo come assenza di malattia ma quale equilibrio fisico, mentale, emotivo, sociale, aggiungendovi anche “spirituale” nel 2006.






Grazie del contributo
In un racconto di Borges viene descritto bene cosa Dio pensa dei teologi : nell’ aldila’ si ritrovano due teologi che in terra hanno passato il tempo a combattersi a colpi di scritti e libelli, ciascuno dei dunque convinto di sapere chi e’ Dio . Nell’ aldila’ Dio non sa neppure distinguere chi sia l’ uno e chi l’ altro.
Che senso ha una teologia senza Chiesa? Che senso ha una teologia senza fede? Che senso ha una teologia senza vita di fede, liturgia, ortodossia, canone scritturistico e dogmatico? Se la teologia è il sapere della fede (scientia fidei: almeno, al nostro ISSR insegnano così, e a ragione, mi pare), e la fede è vissuta dai credenti, che sono la Chiesa, allora certe pose rivoluzionarie non hanno (teologicamente) senso
In realtà esiste molta riflessione teologica che riaffiora (come un fiume carsico) anche al di fuori delle istituzioni, musica, film, letteratura. Esistono anche molti studi che scavano in questo filone. Diciamo che sono più vitali di molta teologia che si auto dichiara “antidogmatica” o di rottura ecc. Alla Mancuso ad esempio, che non ha portato particolari novità teologiche se non un misto tra filosofia e cristianesimo liberale protestante. Io trovo abbastanza fastidioso anche l’approccio delle “teologhe”.
In ogni caso nessuno impedisce di fare teologia senza Chiesa o senza istituzioni, penso che si utilizzi la Chiesa (anche dimostrandosi contrari ad essa) proprio per veicolare il proprio lavoro, dato che non esiste una particolare richiesta di riflessione teologica.
https://www.youtube.com/watch?v=F8mO1bOa1CM
Ad esempio un film come questo di Luc Besson, presentato a Venezia un paio di anni fa è abbastanza incentrato sul concetto di grazia e redenzione. L’opera di Mancuso invece parte dall’idea che la redenzione non serve perchè non esiste peccato originale e l’uomo si salva da solo. Paradossalmente riconosci certe tematiche presenti nella cultura contemporanea solo già ne hai consapevolezza…
In linea generale, certo: la teologia dipende dalla fede e dipende dalla Chiesa. Ciò però può essere interpretato in modi assai diversi. Un conto è dire che la teologia cristiana parte dall’oggetto della fede cristiana (gli *articula fidei*), un conto è dire che è una produzione della fede personale o ancor più che per essere compresa necessita di fede: questa è un’idea assai recente, che nessun teologo scolastico avrebbe condiviso. Un conto è dire che la teologia è un’impresa intellettuale che giova alla Chiesa (pur senza esserle necessaria), un conto è dire che il suo scopo è sostenere il magistero e che essa non ha senso se separata dalla pastorale: anche queste seconde sono idee assai recenti. Per dirne una, Tommaso d’Aquino in tutta la sua immensa *Summa* cita una sola volta un papa contemporaneo, e per una questione assai marginale. La conseguenza è che un giovane di oggi, estraneo (come la stragrande maggioranza dei suoi coetanei) alla vita della Chiesa, sente di gran lunga più vicino Tommaso d’Aquino che molta produzione teologica contemporanea, pure quella che intende essere più moderna. È un discorso che richiederebbe molto più spazio, ovviamente, ma credo che qui Selene Zorzi tocchi almeno un punto assai importante.
LA TEOLOGIA DEVE RITORNARE NELLE FACCOLTA’ UNIVERSITARIE PUBBLICHE. SI PONGA FINE ALL’ESILIO CLERICALE.
Nel fratempo si può uscire dalle Accademie, creando dove possibile, in Centri Studi, in Parrocchie, dei Laboratori Biblico-Teologici, dando spazio a ricerche bibliche e teologiche nella piena libertà dei ricercatori/trici, vista l’enorme produzione di studi. Dando soprattutto massimo spazio agli studi delle Bibliste e Teologhe come Selene Zorzi.
Giovanni Lupino Teologo molto marginale. Orgogliosamente!
… e chi paga???
Chi vuole il servizio! SI veda l’esempio dei percorsi teologici online offerti dalla biblista Annamaria Corallo
Articolo indubbiamente interessante.
Ma chiedo: chi impedisce ai teologi (uomini e donne) che intendono emanciparsi dalla teologia cattolica e dalle regole ecclesiastiche di seguire le proprie aspirazioni e progetti istituendo apposite scuole e organizzazioni, con autonomi finanziamenti? Non si può chiedere alla Chiesa cattolica di sostenere chi la avversa apertamente.
A meno che si riesca a dimostrare che il lavoro scientifico di una teologia “laica”, libera da ogni indirizzo dogmatico e totalmente sottratta al controllo del magistero, possa far crescere anche il sapere teologico generale e, di riflesso, anche il saper teologico “confessionale”.
Senza coinvolgimento della Chiesa quanto interesse potrebbe esserci per una teologia molto “laica”? Senza contare che non necessariamente liberarsi dai dogmi garantirebbe maggior creatività, esattamente come togliere un po’ di diesis e bemolle in una partita di Bach, a volte gli ostacoli aguzzano l’ingegno..
Faccio parte di una Comunità che si trova ad una periferia quanto mai lontana da un auspicabile pabulum teologico cui nutrirsi quale prospettato da un rivolgimento dello scenario accademico attuale, e non solo accademico, da parte dell’autrice Selene Zorzi, che conosco ora e cui va tutta la mia ammirazione.
Io sono approdato alla teologia abbeverandomi ai rivoli cercati e trovati fra le plurime iniziative diocesane (non solo della mia Diocesi) e dentro l’universo dei media. Da settantenne mi ritrovo una mia struttura, in continuo rimodellamento, che viene sostanzialmente riconosciuta nei vari confronti, che pure cerco e trovo, tra i fratelli e le sorelle, costruita sulle mie precedenti possibilità di mobilizzazione e disponibilità di tempo, per altro rapito ad altri interessi che sono via via decaduti. Trovo però che nelle singole parrocchie non ci sia, pur generalizzando, uno spazio dedicato preferenzialmente e specificamente all’approccio teologico, considerando tale attività quanto meno “opzionale” e tale da togliere tempo e risorse alle altre attività “sostanziali”. Ma, come le altre attività, purtroppo avrebbe uno svolgimento interno, senza poter arrivare alla portata del territorio, alla portata di ogni volenteroso alla ricerca di Dio ivi presente, senza quella deriva confessionale che la gente pregiudizialmente si aspetta.
Sono un teologo latinoamericano, formato in una delle più rinomate università private di Teologia del Brasile. Questo articolo è semplicemente necessario ed estremamente preciso nella critica che propone. Il corpo docente e persino l’esercizio teologico restano ancora patriarcalmente confinati agli ambiti religiosi e concettuali del cattolicesimo romano. L’impossibilità e le difficoltà create affinché donne, persone lgbtqiapn+ e non credenti possano accedere agli spazi teologici per sviluppare dialoghi e critiche rappresentano una delle prove contemporanee e più incisive della difficoltà cattolico-maschile di apertura – ben diversa dalle tante posizioni presentate come “moderne” o “di aggiornamento”. Eccellente articolo, mia amica teologa!
Del teologio non importa a nessuni.
Nessuno persona dotati di un culturo a livella universitarie (a meno che non sii un persona religioso) si sento chiamate in causi quande si parlo di questi questiono.
Ho infilati le letteri finalo a casacci per non offendero nessuni e anche, un poca, per divertimenti.
Testo molto lungo, molti desideri e molti desiderata. E dunque? Quale è la proposta c-o-n-c-r-e-t-a? In Italia c’è un’associazione di ‘teologhe’, mi pare (e poi: teologi ‘maschi’, teologhe ‘donne’; ma basta!!!!). Che cosa fanno o farebbero o stanno facendo teologi e teologhe, nel senso indicato dall’Autrice? Non mi sembra di vedere una luce… mi sembra tutto molto vago. Perché se poi alla fine la conclusione è che ogni decisione dipende dai ‘vescovi’, allora non cambia nulla.
Sono stati citati i corsi online del CTI o della Facoltà Valdese; c’è in cantiere un percorso sostenuto da una casa editrice presso Verona; ci sono già percorsi online che ha attivato la biblista Annamaria Corallo, etc… il femminile era inclusivo. I vescovi, se legge bene, li abbiamo esonerati da ulteriori impegni 🙂