Riparazione: i sensi di una parola

di:

kintsugi

Prendere in mano una parola e cercare di percorrerne i possibili sensi è un’operazione che ha a che fare con la consapevolezza di quanto lunga e faticosa sia stata la conquista del senso nell’indagine linguistica.

La storia del pensiero occidentale è stata attraversata da lunghe e articolate riflessioni sul linguaggio, dispiegate attraverso domande le cui risposte hanno via via generato nuovi interrogativi: è il mondo che crea le parole o sono le parole che creano mondi? Che rapporto c’è fra cosa e parola e tra pensiero e parola? Perché e come le parole cambiano forma? In che relazione si pongono i cambiamenti della forma con i cambiamenti del contenuto, e viceversa?

Nel Cratilo, Platone, indagando la relazione tra i nomi e le cose, pose le basi per l’analisi della funzione delle parole: i nomi sono tali per natura, e dunque rispecchiano la realtà, o sono frutto di un arbitrio e di una convenzione?

Nell’incipit del V libro del De Lingua Latina, Varrone, riconoscendo nelle parole la presenza di due nature, una facente riferimento all’origine, ossia all’etimologia (unde sint verba), l’altra relativa al significato (peri semainomenon), aprì la strada a due diverse e complementari prospettive di approccio allo studio linguistico: l’approccio storico, che analizza i mutamenti della forma espressiva della parola, e l’approccio descrittivo, che assume come oggetto d’indagine il contenuto.

La questione della nominabilità del reale ritorna costantemente nel pensiero attraverso i secoli del Medioevo e della età moderna, ma è solo alla fine dell’Ottocento che la teoria della significazione, ossia lo studio delle leggi che regolano le trasformazioni di significato delle parole, entrò a pieno titolo nelle indagini linguistiche e grammaticali.

Apertosi, nel 1816, con la pubblicazione della Grammatica comparativa di Franz Bopp, che dava inizio allo studio sistematico delle relazioni fra le lingue nel loro sviluppo diacronico, l’Ottocento si chiuse, nel 1897, con l’Essai de sémantique di Michel Bréal, cui si deve l’introduzione del termine “semantica” e l’assunzione dell’imprescindibilità del pensiero umano nella generazione dei processi e dei cambiamenti linguistici. Sarà poi Ferdinand de Saussure con il suo il Cours de linguistique générale, del 1916, a mettere a fuoco la bifaccialità del segno, nel suo vitale intreccio tra signifiant, percepito dai sensi, e signifié, colto attraverso operazioni di decodifica mentale, e a distinguere nel linguaggio il piano collettivo e sociale della langue e la forma individuale e irripetibile della parole.

All’elasticità del segno, che si modifica nel tempo, plasmato da innumerevoli fattori, corrisponde, nell’atto di parole, la creatività del locutore, in dialogo e collaborazione continua con l’interlocutore: la strada è ormai dischiusa alle nuove piste di indagine del Novecento nell’ambito della teoria della comunicazione.

Cinque sensi delle parole

Il linguaggio è un atto comunicativo che agisce su vari livelli di senso. Se il significato, categoria dell’analisi linguistica, è sempre prossimo ad appiattirsi e chiudersi nell’ambito circoscritto e cristallizzato dell’uso, il senso, categoria della comunicazione, non è mai a senso unico, ma vive di una continua apertura alla prospettiva dinamica di nuove direzionalità. E così, tra nonsense, doppisensi e controsensi, il senso è continuamente disponibile ad arricchirsi di sensi nuovi, oltre il senso comune.

Sono almeno cinque i livelli di senso che possiamo distinguere quando analizziamo una parola:

  • il senso etimologico, che riguarda il materiale originario con cui la parola è stata plasmata;
  • il senso letterale (o proprio, o denotativo), che corrisponde sostanzialmente al significato proposto dal vocabolario – la langue in prospettiva saussuriana;
  • il senso figurato (o metaforico, o connotativo), che riguarda la trasfigurazione di significato in chiave visivamente efficace;
  • il senso descrittivo (o distintivo), che pertiene al modo con cui la parola cattura e porta ad evidenza alcune caratteristiche piuttosto che altre del referente, cioè della “cosa” che vuole descrivere;
  • il senso evocativo (o allusivo), che apre alle risonanze interiori di affetti, ricordi, esperienze e significazioni personali e viene a rappresentare l’esito più spinto della parole saussuriana.

Tenendo sullo sfondo queste indicazioni di lavoro, possiamo entrare nel merito dei sensi della parola riparazione.

Riparazione: il senso etimologico

Per indagare il senso etimologico della parola riparazione, la prima operazione da farsi consiste in un esercizio di scomposizione.

Individuiamo, innanzitutto, il suffisso –zione, eredità del suffisso latino -tio, tionis. Si tratta di un suffisso deverbale, ossia un suffisso utilizzato per generare da verbi sostantivi che esprimono l’azione propria del verbo: riparazione da riparare, come punizione da punire, contestazione da contestare, presentazione da presentare.

Poi il prefisso ri-, dal latino re-. Prefisso che indica il movimento all’indietro: non un “andare verso”, ma un “tornare verso”, un tornare a volgere lo sguardo verso qualcosa che avevamo superato e che ci eravamo lasciati alle spalle. Nel prefisso ri-/re- è contenuta un’idea di iterazione o di blanda opposizione (indietro, di nuovo, di contro …).

Infine, il cuore della parola, rappresentato da para-, che rimanda al verbo latino paro, parare nel suo significato di preparare, allestire, procurare, acquistare.

Il verbo latino paro deriva dalla radice indoeuropea *par-, che contiene un’idea di movimento: portare al di là, produrre, ma anche partorire. Ritroviamo questa radice nel sostantivo parens, parentis, nel suo significato di padre/madre e, al plurale, genitori.

Questa antica radice indoeuropea ci riporta, a sua volta, ad una sorta di sonorità primigenia: la sillaba iniziale pa– è costituita dalla consonante occlusiva bilabiale p, in cui riconosciamo lo stesso rapido movimento di chiusura e apertura delle labbra che caratterizza il movimento innato di suzione nei neonati, e dalla vocale a, con il suo caratteristico timbro chiaro e la sua sonorità aperta.

Prima del latino, prima ancora dell’indoeuropeo, il pa- ci riporta alle vocalizzazioni e agli esercizi di lallazione dei neonati e al maternese o baby talk, la forma prelinguistica di comunicazione utilizzata dalle madri e dai padri nelle loro interazioni con i figli piccoli. Secondo un’interessante teoria sviluppata dalla neuroantropologa Dean Falk, il maternese, in quanto fenomeno universale comune a tutte le lingue del mondo, può essere considerato una sorta di resto fossile di un protolinguaggio antichissimo, precedente le più antiche forme di comunicazione linguistica e fondamentale per lo sviluppo dello stesso linguaggio umano.

Diciamo riparazione, e possiamo sentire risuonare l’eco del latino reparare − preparare di nuovo, rendere di nuovo pronto, ristabilire, rimettere a posto. Ma possiamo anche sentire, più lontana ancora, la musicalità di un’onda sonora profonda che, nella ripetizione di quella sillaba pa pa pa, recupera una dimensione primigenia: l’originaria confidenza verso il mondo che il bimbo neonato apprende grazie ai gesti di cura dei propri parentes.

Riparazione: il senso letterale

Nel suo senso proprio e letterale, il sostantivo riparazione riguarda il rendere di nuovo pronti, il rimettere a posto, degli oggetti materiali.

Le categorie merceologiche che si legano al termine riparazione ci offrono un interessante punto di osservazione rispetto al nostro rapporto con le cose. Cos’è riparabile, per noi, oggi? Cos’è meritevole di riparazione? Un rapido giro in internet ci chiarisce subito le idee: la parola riparazione è associata quasi esclusivamente ad apparecchiature elettriche ed elettroniche – elettrodomestici, computer, cellulari – o, al limite, automobili.

Siamo passati da un mondo in cui tutto o quasi tutto era riparabile, al mondo dell’usa e getta, del consumismo e dello scarto. Da un mondo in cui tutte e tutti eravamo naturalmente predisposti e attrezzati alla riparazione, perché “non si butta via niente” e un oggetto, prima di essere considerato irriparabile, doveva passare per stadi progressivi che ne dischiudevano metamorfiche possibilità di riutilizzo in forme diverse, a un mondo che alla laboriosità della riparazione preferisce di gran lunga la spensieratezza della sostituzione. Da un mondo in cui l’arte della riparazione dava vita a tutta una serie di microprofessionalità riconosciute e diffuse a livello sociale (calzolai, sarte, rammendatrici, falegnami, ombrellai, stagnini…), a un mondo in cui l’artigiano che sa riparare è diventato un’introvabile rarità.

Eppure, la natura stessa è attrezzata alla riparazione: lo dimostra il fatto che la parola riparazione viene utilizzata come termine tecnico in botanica, biologia e medicina, per indicare fenomeni di rigenerazione di porzioni di tessuto o di ripristino di strutture cellulari e molecolari. Il nostro stesso DNA è soggetto ad un continuo e quotidiano processo di riparazione: come dire, la riparazione è parte integrante della vita.

Ma, anche se per secoli, per natura e per cultura, abbiamo integrato nella normalità delle nostre esistenze le attività di riparazione, è evidente che oggi la nostra incivile civiltà è in serie difficoltà di fronte al verbo “riparare” e il fatto che non vengano più considerate riparabili o degne di riparazione cose che, fino a pochi decenni fa, era invece assolutamente normale riparare è un inquietante indicatore di un mutamento antropologico a rischio di irreversibilità: nel tempo del “consumo, dunque sono” tutto è merce da buttare, anche lo stesso homo consumens.

Alcuni timidi segnali sembrano, però, dirci che sta forse maturando una nuova consapevolezza rispetto alla necessità di porre riparo alla perdita di questa predisposizione naturale e culturale alla riparazione. Il 30 maggio 2024 il Consiglio dell’UE ha approvato la direttiva 2024/1799 sul diritto alla riparazione. Gli Stati membri hanno due anni di tempo per recepire la direttiva nella legislazione nazionale e contribuire ad invertire la rotta, incentivando la possibilità dei consumatori di chiedere la riparazione anziché la sostituzione dei prodotti difettosi e promuovendo, anziché lo sperpero del consumismo selvaggio, la virtuosità dell’economia circolare.

Riparazione: il senso figurato

Traslare il significato di una parola dalla concretezza della lettera al piano figurato è un’operazione ordinaria della lingua che, attraverso la metaforizzazione, dà continuamente prova della sua grande creatività. Per molte parole – una per tutte, cuore – il senso figurato acquista talvolta una pregnanza d’uso così frequente che il vocabolario, accanto al significato proprio, denotativo (cuore come organo muscolare), ne registra anche il valore connotato (cuore come sede dei sentimenti).

Ciò accade anche per la parola riparazione: la forza e la frequenza del senso figurato, riferito a realtà immateriali o dimensioni morali, è tale che anche questo secondo livello di significato è vocabolarizzato.

L’uso della parola secondo i due valori, denotativo e connotativo, è attestato già nel termine tardo latino reparatio, -onis. Se in un decreto di Teodorico si parla di reparatio urbium vetustarum, ossia del restauro in senso materiale delle antiche città, nella monetazione grazianea di fine IV secolo troviamo incisa la dicitura Reparatio Rei Publicae, con chiara valenza simbolica: l’imperatore Graziano (359-383) è rappresentato nell’atto di sollevare con la mano destra una donna inginocchiata, ossia la Res Publica romana che, secondo il messaggio propagandistico veicolato dalla moneta, viene riportata agli antichi splendori dall’imperatore cristiano.

Anche per il verbo reparo,-are è testimoniato, accanto al senso proprio (damna reparare – riparare danni), il senso figurato (animos reparare – rinfrancare gli animi; gratiam reparare – recuperare il favore).

Dunque, già a partire dall’uso verbale del latino classico, attraverso la sostantivazione di età tardo antica, la parola riparazione custodisce in sé questa doppia possibilità d’uso – il versante concreto e il versante astratto, il riferimento agli oggetti e il riferimento alle relazioni.

Di fatto, è la pregnanza del senso figurato ad aver dischiuso alla parola riparazione le strade del diritto e della teologia: così, in ambito giuridico, con riparazione si intende l’indennizzo, il risarcimento, la somma di denaro versata a compensazione di danni subiti, mentre in ambito teologico il concetto spiritualizzato di riparazione ha trovato definizione e specificità soprattutto con riferimento alla devozione al Sacro Cuore.

Come ricordava papa Francesco nel maggio del 2024 in un discorso ai partecipanti al congresso internazionale Réparer l’irréparable, nel 350° anniversario delle apparizioni di Gesù a Santa Margherita Maria Alacoque discorso poi parzialmente ripreso nell’enciclica Dilexit nos:

La riparazione è un concetto che troviamo spesso nelle Sacre Scritture. Nell’Antico Testamento essa assume una dimensione sociale di compensazione del male commesso. È il caso della legge mosaica che prevedeva la restituzione di ciò che era stato rubato o la riparazione del danno causato (cf. Es 22,1-15; Lv 6,1-7). Si trattava di un atto di giustizia volto a salvaguardare la vita sociale. Nel Nuovo Testamento, invece, essa si configura come un processo spirituale, nel quadro della redenzione operata da Cristo. La riparazione si manifesta pienamente nel sacrificio della Croce. La novità qui è che essa rivela la misericordia del Signore verso il peccatore. La riparazione contribuisce quindi alla riconciliazione degli uomini tra loro, ma anche alla riconciliazione con Dio, perché il male commesso contro il prossimo è anche un’offesa a Dio. Come dice Ben Sirac il Saggio, “le lacrime della vedova non scendono forse sulle guance di Dio?” (cf. Sir 35,18). Cari amici, quante lacrime scendono ancora sulle guance di Dio, mentre il nostro mondo sperimenta tanti abusi contro la dignità della persona, anche all’interno del Popolo di Dio!

Declinata in passato attraverso piegature doloristiche oggi difficilmente condivisibili, la parola riparazione merita senz’altro nel nostro tempo una nuova riconsiderazione teologica che, liberandola da ingombranti appesantimenti sovrastrutturali, la riporti all’essenzialità del suo essere strumento di riconciliazione degli uomini tra loro e con Dio.

Riparazione: il senso descrittivo

Per cogliere il senso descrittivo/distintivo di una parola può essere utile lavorare sulle contrapposizioni, vale a dire confrontare fra loro parole legate da relazioni di sinonimia, per evidenziare quali caratteristiche del referente, espresse dalla lessicalizzazione, rappresentino dei punti qualificanti di differenza di una parola rispetto ad un’altra.

Ad esempio, il greco per dire essere umano ha a disposizione le parole anthropos e thnetòs: anthropos, ricondotto al significato etimologico di “colui che riflette su ciò che vede”, sottolinea la capacità di riflessione e la razionalità dell’essere umano, in contrapposizione agli animali; thnetòs, invece, mettendo a tema la mortalità, marca la differenza sostanziale degli esseri umani rispetto alle immortali (athanatoi) divinità.

Per quanto riguarda la parola riparazione, possiamo porla a confronto con lemmi riferiti al rimettere in buono stato degli oggetti (accomodatura, aggiustatura, rattoppo, reintegrazione, restauro, riattivazione, ricostruzione, ripristino, sistemazione) o al rimediare o compensare danni morali o immateriali (compenso, espiazione, indennizzo, rimedio, risarcimento, soddisfazione).

Il confronto fa emergere i tratti distintivi peculiari delle singole parole. Non esistono sinonimi perfetti e che una parola non valga l’altra lo dimostra il lungo dibattito sorto in merito all’uso aggettivale del termine riparazione nel sintagma “giustizia riparativa”, di contro all’espressione restorative justice (giustizia ricostruttiva), adottato in ambito anglosassone dalla fine degli anni Ottanta.

Se ci chiediamo quali elementi distintivi si facciano portatori delle peculiarità proprie della parola riparazione rispetto ad altri termini parzialmente sinonimici, sono due, a mio parere, i fattori, fra loro strettamente interconnessi, che intervengono a marcare la differenza quando si apre la questione della riparabilità di cose, situazioni e relazioni: il tempo e la creatività.

Il tempo per riparare

Conoscevo una signora che di mestiere, per tutta la sua lunga vita, ha fatto la rammendatrice. Con pazienza incomparabile Vittoria ricostruiva i fili della trama e dell’ordito di qualsiasi tessuto; grazie alle sue mani sapienti, buchi e strappi negli abiti, nelle giacche e nelle camicie, grandi o piccoli che fossero, scomparivano, e preziosi tessuti di sartoria, danneggiati da tagli improvvidi e sbagliati, ritornavano nuovi.

Vittoria è morta lo scorso anno, a 84 anni, dopo una vita dedicata a ricucire stoffe e a mantenere salde e in armonia le trame di affettuose relazioni familiari, di amicizia e di vicinato. Con lei è scomparsa un’arte che appare ormai inconciliabile con i nostri tempi affannati: riparare richiede il lusso e la pazienza di un tempo che a noi sempre più sfugge di mano e con il quale fatichiamo a riconciliarci.

Per riparare bisogna darsi tempo, perché il gesto di riparazione, che chiede di sostare nella serenità di una dimensione distesa e non violenta, ricusa il mordi-e-fuggi e il tutto-e-subito e non può accompagnarsi alla fretta angosciata del troppo-da-fare.

Riparazione e creatività

Se l’irreparabile non può essere completamente riparato, l’amore può sempre rinascere, rendendo sopportabile la ferita. Così papa Francesco nella Dilexit nos, riprendendo parte del discorso ai partecipanti al congresso Réparer l’irréparable. Davanti a quello che sembra irreparabile c’è sempre un’altra possibilità: l’amore come forma riparatrice creativa, la creatività come pratica di amore.

Dall’arte giapponese del kintsugi, che ripara il vasellame rotto servendosi di oro colato come collante fra i frammenti, così che le suture divengano l’elemento più originale e prezioso, al ricamo di riparazione o rammendo creativo, che trasforma sdruciture e spacchi in stimoli per la fantasia e per soluzioni uniche e originali, la riparazione si propone non solo come stratagemma funzionale, ma come strepitosa potenzialità creatrice.

Anche la natura custodisce in sé, più che la rigidità dell’ingegnere, la creatività del bricoleur che, recuperando le cose più strane e impensabili, gli scarti irriparabili che altri hanno buttato, senza seguire un progetto preciso e dettagliato, senza avere un’idea chiara di cosa andrà a realizzare, offre a ciò che potrebbe sembrare una svista, un’imperfezione o un errore nuove possibilità. È così che le piume, nate probabilmente per garantire un buon isolamento termico, sono diventate strumento per il volo e le vesciche natatorie si sono trasformate in polmoni.

Riparazione: il senso evocativo

Se pensare la riparazione attraverso il senso descrittivo ci permette di recuperarne la dimensione temporale e creativa, il senso evocativo può dischiudere suggestioni di inattesa originalità.

Facciamo un piccolo esperimento. Il vocabolario riporta due significati principali del verbo riparare, da cui deriva la parola riparazione: riparare nel senso di fare una riparazione e riparare nel senso di offrire o trovare un riparo. Riparazione e riparo, due parole apparentemente distanti quanto a significato, sono fra loro unite grazie al legame etimologico: dal latino reparare, che dà vita al tardo latino reparatio (da cui l’italiano riparazione), prende origine anche il provenzale re(m)pairar, nel significato di ritrovare una casa, un rifugio, un luogo sicuro, un riparo.

Al cor gentil rempaira sempre amore / come l’ausello in selva a la verdura, cantava il bolognese Guido Guinizzelli: l’amore trova sempre riparo e protezione nel cuore gentile, come gli uccelli trovano riparo tra le fronde verdi degli alberi. Torna alla mente la parabola del granello di senape: il Regno è come un minuscolo granellino di senape che, una volta seminato, cresce fino a diventare un albero così grande che i suoi rami possono offrire dimora e riparo agli uccelli del cielo.

Il senso allusivo azzarda strade impreviste e se in riparazione lasciamo risuonare riparo, sotto la piatta superficie della lettera, come in un ologramma, si disvelano trasparenti profondità.

Imparare dagli alberi. Resina odorosa per sigillare cicatrici, per riparare ferite, rami frondosi per ospitare ogni passero che desideri anche solo un po’ di ombra, un rifugio temporaneo o una vera casa.

Imparare dagli alberi. Farsi capaci di dimorare nel tempo disteso di chi, con le radici salde nella terra e i rami protesi verso il cielo, sa cercare parole che tessono trame d’incontro – come fili che, prima che lo strappo diventi lacerazione insanabile, rinforzano il tessuto sdrucito, come rammendi che sigillano squarci inventando miracolosi, meravigliosi ricami.

Bibliografia

Zygmunt Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza

Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erickson

Dean Falk, Lingua madre. Cure materne e origine del linguaggio, Bollati Boringhieri

Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Bollati Boringhieri

François Jacob, Evoluzione e bricolage, Einaudi

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4 Commenti

  1. Mariagrazia Gazzato 6 ottobre 2025
  2. Laura 6 ottobre 2025
  3. Pietro 5 ottobre 2025
  4. Gianandrea. 4 ottobre 2025

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