
Si può ancora parlare, oggi, dei miracoli? E del loro rapporto con la fede? I miracoli sono ancora significativi per la fede? La verità di una dottrina religiosa deve aver bisogno ancora dell’evidenza del miracolo? La risposta a queste domande non è semplice, come mostra Andrea Aguti nel suo libro Il miracolo (Morcelliana, Brescia, 2025).
Un tema imbarazzante
Aguti avverte subito nell’introduzione che parlare oggi di miracoli, oltre ad essere «una scelta impopolare e imprudente» (come disse C.A. Viano), è anche «una scelta imbarazzante. Imbarazzante anzitutto per chi lo scrive, ma anche per quelli a cui è diretto, cioè i filosofi, sia credenti sia non credenti, gran parte dei quali, almeno in Italia, ha dismesso da tempo il tema del miracolo perché ritenuto superato e filosoficamente impresentabile, e i teologi, molti dei quali cercano di sbarazzarsi del miracolo senza darlo troppo a vedere» (p. 5).
Il libro è un «saggio di filosofia della religione» che riflette sul miracolo dal punto di vista della filosofia della religione teistica. È un’analisi dei motivi che hanno portato molti studiosi – Agostino, Tommaso d’Aquino, Spinoza, Hume, Kierkegaard, Feuerbach, Kant, Blondel, Guardini, Walter Kasper e altri – a parlare del miracolo per ragioni diverse. Un’analisi filosofica profonda, articolata, accurata, puntuale, che rivela quanto complesso sia l’argomento, quanti dubbi suscita, quante soluzioni apre, quante risposte su Dio, sul suo intervento o meno sulla creazione, sulle leggi e l’ordine della natura stabiliti da Dio che l’evento miracoloso violerebbe o vi si aggiunge, sul concetto di Provvidenza, sulla credibilità del miracolo e delle sue testimonianze, e specialmente sul rapporto fede-ragione.
Può la scienza spiegare tutto? La scienza non può dire nulla sul modo in cui Dio agisce nel mondo. Noi non possiamo vedere l’azione divina. «Ciò che la scienza può fare è soltanto osservare gli eventi del mondo fisico e offrire alla teologia la migliore conoscenza disponibile di esso, lasciando a quest’ultima il compito di stabilire se certi eventi si lascino interpretare plausibilmente come istanzazioni dell’azione divina» (p. 191sg).
I miracoli sono sempre accaduti; e, nonostante quel che si può credere, oggi non si è affatto concluso il loro tempo, perché la scienza non ha ancora la capacità di spiegarli – dice Aguti – o, se ce l’ha, è limitata.
Increduli, dubbiosi, credenti
Di fonte ai miracoli, ci poniamo, in genere, secondo tre atteggiamenti: di increduli, dubbiosi e credenti; e i credenti possono esserlo per fede sincera e matura o perché seguono la fede popolare. Ma ciò che non dovremmo fare è esserne indifferenti, considerarli favole o prodotti di fantasia, confonderli con altri fenomeni come i prodigi o la magia.
Il libro di Aguti ci spinge a porci criticamente di fronte ad essi, qualunque siano le nostre idee.
Il miracolo è strettamente legato alla religione; e si definisce secondo tre caratteristiche: deve essere un evento inspiegabile con la conoscenza attuale che si ha del mondo; un evento, cioè, che viene meno alle leggi che regolano l’ordine, la regolarità del corso della natura. Un evento, quindi, che richiede una spiegazione soprannaturale, e tale da avere un significato religioso e morale.
Insieme ai problemi su ricordati, infatti, i miracoli pongono anche un problema morale, suscitando una serie di domande intorno agli attributi di Dio e alla teodicea: «Se essi hanno prevalentemente il fine di significare la benevolenza di Dio verso le creature, perché lo fanno in modo così apparentemente arbitrario o selettivo, tale da non sanare che una infima parte dei mali presenti nel mondo? Lo scarso impatto che i miracoli hanno nel diminuire la grande mole di sofferenze presenti nel mondo non permette forse di affermare non soltanto che i miracoli non danno alcuna evidenza a favore dell’esistenza di Dio, ma perfino che ne danno una contraria?» (p. 205).
Il linguaggio dei segni
I miracoli sono «segni» e, come tali, vanno interpretati. Se accadono, comunicano qualcosa, benché non riusciamo a percepirne il significato. «La dimensione semiologica (dice Aguti) è cresciuta molto nella considerazione dei teologi contemporanei, in particolare in quelli cattolici, in concomitanza della difficoltà a intendere il miracolo come un evento che sospende o contravviene alle leggi della natura […]. La concezione del miracolo come segno implica che, se i miracoli accadono, proprio per il fatto di accadere mettono sempre in atto un processo comunicativo e significativo, a prescindere dalla ricezione o meno del loro significato» (pp. 195, 197 ss).
I miracoli «hanno la tendenza a risvegliare la coscienza, a stimolare il senso di responsabilità, a ricordare un dovere, e a dirigere l’attenzione verso quei segni del governo divino già contenuti nel corso ordinario degli eventi» (John H. Newman, citato a p. 77).
Ma proprio queste caratteristiche impediscono ad altri di fare qualunque discussione su di essi, perché, «in una visione scientifica e naturalistica del mondo, non c’è spazio per essi» (p. 21). «Il progresso continuo della conoscenza riduce il numero di eventi che sono concepibili come miracolosi e questo diminuisce la possibilità di fare miracoli “tra uomini saggi e cauti”» (Hobbes, cit. a p. 53).
I miracoli sono, in genere, il segno della benevolenza di Dio, ma possono esserlo anche della sua ira. Ma i nostri concetti di giustizia, bontà, equità ecc. non sono gli stessi di quelli di Dio. Ne è esempio la parabola evangelica degli operai dell’ultima ora i quali, alla fine della giornata, ricevono la stessa ricompensa di quelli che hanno faticato l’intera giornata. Noi saremmo portati a difendere costoro; ma il nostro criterio morale di giustizia e di distribuzione dei meriti non è quello di Dio, che ha un suo disegno a noi incomprensibile. Perciò, quando preghiamo per ottenere un miracolo e Dio non lo fa, il credente non si allontana per questo da lui, perché sa che egli agisce secondo un suo piano.
Ritorna il problema dell’intervento divino nel mondo, che avviene non solo per cause naturali, ma anche per interventi «occasionali». Ma tutto rientra nel piano provvidenziale.
Il caso emblematico è Giobbe, precisando però che egli non chiede nulla a Dio; la sua è solo protesta; né Dio fa nulla per alleggerirgli le sofferenze. Ma, alla fine, ecco il grande stupefacente riconoscimento: «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo […]. Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi hanno veduto» (42,2-5).
Il miracolo, allora, è un’interazione tra Dio e l’uomo. Esso accade per intervento divino, ma lascia lo spazio all’iniziativa umana, che si esplica con la preghiera (p. 210). Con la preghiera noi chiediamo, ma senza pretendere di avere. Sebbene Dio sappia di cosa abbiamo bisogno, Gesù ci raccomanda di chiederlo ugualmente con insistenza. Come un padre che sa cosa vuole il figlio, ma desidera che glielo chieda. Su questa richiesta si fonda ogni relazione umana.
Preghiamo, ma rimettendoci alla volontà di Dio, come ha fatto Gesù nella sua ora più buia, quando pregò tre volte il Padre perché allontanasse da lui il calice della sofferenza; ma si rimise alla sua volontà (Mt 26,39).
Dante e san Tommaso
Un esempio di uno stra-ordinario miracolo dovuto alla forza della preghiera è la leggenda medievale di Traiano, ripresa da Dante e da san Tommaso.
In Paradiso, Dante vede l’anima di questo imperatore risplendere nell’occhio dell’aquila insieme a Rifeo, un altro pagano. Stupito di trovare lì due pagani, l’Aquila gli spiega che essi non morirono da pagani, ma da cristiani. E di Traiano dice che furono le preghiere incessanti di papa Gregorio Magno a farlo tornare in vita e convertirsi così al cristianesimo, credendo nel “Cristo venuto”.
Ecco i versi stupendi: «Che l’una de lo ’nferno, u’ non si riede | già mai a buon voler, tornò a l’ossa; | e ciò di viva spene fu mercede: || di viva spene, che mise la possa | ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, | sì che potesse sua voglia esser mossa» (Par. XX, 106-110) [l’una (anima: quella di Traiano) tornò in vita dall’inferno, da dove non si torna mai a volere il bene; questa nuova vita fu il premio d’una viva speranza: speranza che dette forza alle preghiere fatte a Dio (da Gregorio Magno), così che, una volta tornata in vita, la sua volontà potesse essere mossa a fare il bene].
Anche san Tommaso, parlando di questo miracolo, dice: «Probabilmente il fatto di Traiano si può spiegare nel senso che egli, per le preghiere di san Gregorio, fu richiamato in vita e quindi ottenne la remissione dei peccati e la grazia. Di conseguenza, fu liberato dalla pena» (S. Th., III, Suppl., q. 71, a. 5).
Ma è soprattutto durante l’esame sulla fede che Dante definisce bene il miracolo. Durante questo esame, san Pietro gli pone precise domande su di essa: cosa è, se egli la possiede; e, alla domanda da dove l’ha ricevuta, Dante risponde che essa ha origine nella divina rivelazione della sacra Scrittura.
Pietro gli chiede, allora, perché ritiene che le parole della Scrittura siano ispirate da Dio. E Dante: la prova di questa verità, sono le opere seguite a quella parola, diffusa come pioggia in tutti gli scritti del Vecchio e del Nuovo Testamento; opere che vanno oltre le leggi della natura. Sono i miracoli, fonte della fede.
Ma san Pietro insiste: chi ti assicura che quelle opere avvenissero? Lo afferma, infatti, lo stesso libro (la Scrittura) che tu dici essere ispirato proprio per i miracoli. Ed ecco la grande risposta di Dante: se il mondo pagano si è convertito al cristianesimo senza i miracoli, questo solo è tale che gli altri non sono che una centesima parte.
Nel Convivio, poi, chiarisce che i miracoli sono il principale fondamento della nostra fede, compiuti da Dio che ha creato la ragione umana, ma il potere suo che mostra sui miracoli è più grande di essa. Di fronte ad essi, molti sono dubbiosi, per qualche nebbia che oscura la loro vista, così che non possono credere senza avere di ciò un’esperienza visibile.
«Se avete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spostati da qui a là”, ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile». Così risponde Gesù ai discepoli che gli chiedono perché essi non erano riusciti a guarire un epilettico indemoniato (Mt 17,20).
È necessaria la fede per credere nei miracoli, altrimenti rimaniamo increduli o dubbiosi; e allora ogni discorso su di essi è chiuso. La stessa fede cristiana si fonda sui più grandi di essi: l’Incarnazione e la Risurrezione di Cristo. Se, infatti, Cristo non fosse risorto, la fede sarebbe vuota (1Cor 15,14).
Credere senza miracoli
Noi vorremmo credere solo se vediamo; ma Gesù vuole che gli si creda senza i miracoli. A volte, anzi, proibisce al miracolato di parlarne. Tuttavia, gli evangelisti gliene attribuiscono molti, perché essi attestano la sua messianicità; e hanno significato morale.
Con un miracolo – secondo Giovanni – egli inizia la sua vita pubblica: il miracolo di Cana. È l’inizio dei segni da lui compiuti – commenta l’evangelista – con il quale manifesta la sua gloria e i suoi discepoli credono in lui (Gv 2,11).
E, quando due discepoli di Giovanni Battista gli vanno a dire se era lui che doveva venire o ne dovevano aspettare un altro, Gesù, che in quel momento aveva guarito molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi, e aveva donato la vista ai ciechi, risponde loro di riferire a Giovanni ciò che essi hanno visto e udito; e cioè che i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia (Lc 18,22).
Tuttavia – ripetiamo – Gesù vuole che si creda senza i miracoli alla sua parola, che stupiva chi lo ascoltava; in essa era la sua forza. Credo che il significato vero dei miracoli da lui compiuti sia in quello dell’emorroissa: una donna che da dodici anni aveva perdite di sangue e aveva speso tutti i suoi averi per guarire, ma nessuno vi era riuscito. Sentendo parlare di Gesù, va tra la folla che lo seguiva, pensando che, se solo fosse riuscita a toccargli le vesti, sarebbe stata salvata. Immediatamente le si ferma il flusso. È guarita per la sua fede in Gesù, per averlo avvicinato e toccato: «Figlia, la tua fede ti ha salvata» (Lc 5,25-34).
Ma c’è anche un altro episodio evangelico che lega il miracolo alla fede. Quando l’angelo annuncia a Maria che avrebbe concepito un figlio, Maria gli obietta che non era possibile, perché non conosceva uomo: virum non cognosco. Ma l’angelo le risponde che lei ha trovato grazia presso Dio, e a Dio nulla è impossibile.
Il miracolo è appunto questo: la possibilità di qualcosa che riteniamo impossibile, e che accade per intervento soprannaturale (la Grazia?).
Andrea Aguti, Il miracolo. Saggio di filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 2025, 224 pp., 20 euro






I miracoli non esistono, tutto ciò che avviene nel mondo ha una spiegazione nel mondo.
Chi nega che esitano i miracoli non ne ha mai sperimentato uno e perciò nega quello che non fa parte della propria esperienza. Ma è come negare che ci esista tutto ciò che non vediamo solo perché non lo vediamo. Ma c’è e c’è anche molto di più di quello che la nostra vista limitata ci consente di vedere.
I miracoli esistono e lei ne è la prova. Lei esiste in un insieme raffinatissimo di funzioni biologiche e psichiche in un determinato tempo e luogo su un minuscolo pianeta del sistema solare dentro ad una galassia enorme che è nulla rispetto al resto dell’universo. Ebbene per una serie statisticamente improbabile di eventi lei vive (ed essere vivi è di per se un miracolo visto che la maggior parte della materia che ci circonda nell’universo non lo è) e vive in un modo unico. Ovvero non ci sarà mai più nessuno nella storia di questo pineta come lei. Per me già questo è un miracolo. Sul perché questo miracolo statisticamente improbabile (finora non abbiamo trovato vita extraterrestre quindi evidentemente non è così probabile) sia avvenuto ognuno si dia la risposta che vuole. Io non credo sia tutto casuale. Ma in tutti i casi noi siamo dei miracoli.
Il teologo cristiano non ha bisogno dei miracoli, perché questi non sono indispensabili per la fede, tant’è vero che, talvolta, addirittura la fanno traballare, incespicare e venir meno. Eppure i miracoli accadono: allora bisogna verificare che siano tali e questo lo può fare il magistero ecclesiale accompagnato dal canonista, professione più severa di quella del teologo, perché nelle sue file annovera persone scrupolose e più avezze al giudizio.