Terra Santa, la musica che unisce

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In questo tempo incontrare un gruppo di giovani con qualche adulto accompagnatore che arriva da Gerusalemme fa un certo effetto: viene voglia di guardarli bene in faccia per scrutare segni di tristezza.

Scoprire poi che il gruppo è misto: arabi cristiani, musulmani, palestinesi e ebrei ha un effetto straniante. La realtà riesce sempre ad essere più vitale.

Il gruppo di cui stiamo parlando fa parte dell’Istituto Magnificat, Conservatorio di musica classica di Gerusalemme, aperto dalla Custodia di Terra santa oramai una trentina d’anni fa e ora affermata scuola musicale. Dal 2005 è sede all’estero del Conservatorio Pedrollo di Vicenza, permettendo ai musicisti di ottenere un diploma che ha valore italiano ed europeo attraverso la convenzione con il MIUR.

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Alberto Joan Pari, direttore dell’Istituto racconta che il tutto è iniziato molto semplicemente perché nella scuola la musica non è insegnata in forma curriculare. E d’altra parte la vita della comunità cristiana non conosce nulla che assomigli agli oratori dove i bimbi e i ragazzi crescano nella fede e possano anche passare il loro tempo libero.

Così per offrire un’occasione di attività extrascolastica ai bimbi cristiani, p. Perucci e due signore cristiane iniziarono a dare lezioni di musica intorno a un vecchio pianoforte. Poi alcuni genitori musulmani chiesero di poter far partecipare i loro figli e questa fu la prima sfida, perché all’interno delle storiche e sempre difficili dinamiche tra cristiani e musulmani si pone per esempio quella per cui i mussulmani devono suonare divisi per genere.

In seguito insegnanti ebrei chiesero di poter far parte del corpo docente, anche perché non c’erano molti insegnanti di musica musulmani. Non c’è bisogno di spiegare la portata di questa seconda sfida.

Ora l’Istituito conta circa 200 alunni con 30 insegnanti: accoglie tutte le culture, etnie e religioni e porta educazione musicale in un contesto, quello di Gerusalemme vecchia, in larga parte musulmano, per tradizione e per censo molto lontano da quest’arte.

Per tradizione perché all’interno del mondo musulmano – dice p. Alberto – non è molto diffusa la tradizione musicale, che chiede la separazione tra uomini e donne nella formazione ed esecuzione, e poi poiché non fa parte delle materie scolastiche: chi si vuole avvicinare alla musica deve potersi permettere un insegnante.

Così anche l’Istituto chiede un contributo anche se la gran parte delle spese è coperto dalla Custodia di Terra Santa e non mancano borse di studio per essere inclusivi anche da questo punto di vista.

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P. Alberto nella presentazione della scuola ha impiegato più volte il termine «sfida», come già detto; l’uso di questa espressione a 30 anni di distanza e con un’attività avviata dà la misura di una sorta di tensione perché in una situazione simile non si possono pensare binari consuetudinari.

E il 7 ottobre 2023 è lì a dimostrarlo.

Quel terribile momento è stato un terremoto emotivo tremendo. Il gruppo ha tenuto, ma è calato anche perché tra gli studenti ci sono molti figli di diplomatici che non sono rientrati in Israele. Fare per un po’ lezione on line, a gruppi separati, è stato d’aiuto. Appena le scuole che avevano la possibilità di un rifugio hanno riaperto, ha riaperto i battenti anche l’Istituto – situato nel vecchio mattatoio del convento per cui è lui stesso un rifugio anti missile – incoraggiato dagli studenti che hanno voluto tornare.

Il gruppo, insomma, ha retto e p. Alberto vi vede la dimostrazione che la scuola è casa sulla roccia, fondata su valori veramente condivisi.

Alle domande specifiche sulla situazione generale o sulla posizione dei cristiani davanti all’idea dello stato palestinese ha sempre premesso che loro non fanno politica, ma se è vero in generale, un’esperienza del genere non forse è politica?

A questa prima vittoria la scuola però si aspettava un seguito difficile: chi in questi tempi avrebbe iscritto il proprio figlio a far musica e in un ambiente del genere? E, invece, le iscrizioni sono riprese e aumentate e non per fuga, ma con l’esplicito desiderio di offrire ai propri figli l’orizzonte di una convivenza diversa. Ancora una sfida perché, e cristiani, ebrei, palestinesi ed ebrei possono vivere insieme facendo qualcosa di bello insieme.

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Come sempre «piccolo seme», di evangelica memoria, verrebbe da dire. Ma mi faccio l’idea che anche azioni più eclatanti – scrivo mentre la solidarietà agli attivisti della Global Sumund Flotilla diretta a Gaza dilaga per le piazze – si appoggino sulla consapevolezza che piccoli semi ci sono. Non si sta imponendo la pace, si stanno raccogliendo speranze custodite con tenacia e realismo.

A Gerusalemme si vive come in una bolla e lì, come in tutto Israele, se non ci fosse internet non si saprebbe quasi nulla di quello che sta accadendo. Mentre tutto scorre normalmente, ci si potrebbe accomodare dentro oppure approfittare della forza, della serenità anche che dà una bolla, per uscire.

E così la breve tournée del gruppo (Bologna, Pavia, Lecco e Novara) curata dalla Fondazione Terra Santa è diventata una testimonianza. Essa è nata grazie alla disponibilità di fondi da dedicare a un’esperienza di questo genere e mantenerla in questi giorni è stato a mio parere un atto di coraggio.

Il gruppo sarebbe arrivato in una situazione molto schierata sul tema, avrebbero incontrato contestazioni pro Palestina con un’eco diversa per ciascun componente. Decidere un viaggio sapendo di dover affrontare tutto questo aiuta a comprendere che una convinta collaborazione sa guardare in faccia alla realtà.

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In conclusione, inevitabile una domanda specifica sui cristiani. A parte gli immigrati, quelli autoctoni sono arabi e per questo accomunati nella discriminazione, la quale, però ha anche un fronte interno.

Questa commistione di persone e di presenze, perché ci sono parrocchie in Israele e in Palestina, rende i cristiani ponte tra Israele e il mondo palestinese, ma i cristiani palestinesi faticano a vivere in una situazione di guerra − che non è per certi aspetti la loro − e dove sono percepiti come minoranza.

Nel territorio di Israele la situazione è simile ed è resa difficile dall’impossibilità per chi non è ebreo di acquistare proprietà. La Chiesa lo può fare e così è lei a edificare e ci sono diversi progetti per quartieri protetti solo per famiglie cristiane, oltre all’impegno degli oltre 2000 dipendenti cui è offerto non solo il lavoro ma anche la casa e l’educazione.

Mentre riascolto la registrazione della la chiacchierata fatta con p. Alberto, nel sottofondo sento la musica delle prove dei ragazzi che riempiva gli ambienti. La musica sappiamo, come la poesia, sa dire e trasfigurare anche le fatiche.

Quanto raccontato da p. Alberto è un intreccio di realismo e utopia; tutti e due fattori imposti dalla vita e dal desiderio di vita, essi appaiono come le nuove modalità della mitezza e volontà di incontro che condussero Francesco in quelle terre.

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Un commento

  1. Marcello Del Verme 9 ottobre 2025

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