La forza attraverso la pace

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È il primo successo della dottrina che il presidente degli Stati Uniti aveva abbozzato all’inizio del suo secondo mandato, quella della «pace attraverso la forza»? O forse invece quello che sta succedendo è l’applicazione di un altro principio mai articolato ma riassumibile in «la forza attraverso la pace?».

Nonostante i suoi proclami e le sue ambizioni da premio Nobel, Trump non crede nella pace: in patria ha spinto gli Stati Uniti sull’orlo di una guerra civile asimmetrica, con l’esercito pronto a intervenire nelle città che proteggono gli immigrati, con il corpo ICE responsabile di difendere i confini trasformato in una milizia che risponde solo al presidente.

All’estero, Trump ha promesso l’annessione della Groenlandia, che è parte del territorio della Danimarca, dunque si tratterebbe dell’attacco a un Paese membro della Nato. Ha evocato più volte l’idea di inglobare il Canada come 51mo Stato dell’Unione, di trasformare il Messico in un Paese vassallo e controllato. Senza annessione, ovviamente, per non trovarsi i messicani dentro i confini americani.

Ora sta aumentando la pressione sul Venezuela al punto che molti si aspettano un’operazione di «cambio di regime» come quelle in Medio Oriente, anche se non certo per sostituire Nicolas Maduro con Maria Corina Machado, appena insignita di quel premio Nobel per la Pace 2025 che Trump reclamava.

Trump è poi andato allo scontro con Paesi grandi e piccoli, con l’India, con la Cina, con il Sud Africa. L’elenco è lungo. Un’amministrazione che si proclama isolazionista, ha cambiato nome al ministero della Difesa per chiamarlo «della Guerra».

Tutto questo era vero anche prima della firma degli accordi del 13 ottobre, ma davvero viene sovrascritto dall’accordo in Egitto? Accordo negoziato senza i palestinesi e firmato senza Israele.

Anche i più critici, nei giorni scorsi, hanno dovuto riconoscere che un primo risultato Trump l’aveva comunque già ottenuto. Fermare la violenza a Gaza, quello che secondo moltissimi era un genocidio.

In realtà, la violenza continua, anche se su una scala diversa. Israele ha sparato su diversi palestinesi che tornavano nelle loro case a Gaza City, dopo la tregua. Almeno sei persone sono morte. L’esercito dice che quei palestinesi avevano provato a superare la linea dietro la quale si sono ritirate le truppe israeliane, senza lasciare Gaza.

Alle giustificazioni di Israele per i massacri non crede più nessuno, ma questa inutile strage conferma che i palestinesi di Gaza rimangono prigionieri di un esercito occupante.

Trump non ha imposto la pace con la forza, ma ha impostato una pace che consente di usare la forza senza lo stigma della guerra.

I calcoli di Hamas

Vale per Israele come per Hamas che ha lanciato quella che il Wall Street Journal definisce «una mini-guerra civile contro potenziali rivali palestinesi». Dozzine di persone del clan Dogmush sarebbero state uccise in esecuzioni pubbliche.

Non solo. Israele e gli Stati Uniti hanno di fatto accettato che Hamas continui a governare Gaza con i suoi metodi finché non ci sarà questo fantomatico gruppo di tecnocrati palestinesi supervisionato dal «Consiglio della Pace» guidato da Trump in persona.

Inoltre, Hamas non ha formalmente preso l’impegno a consegnare le armi. E sarà interessante vedere chi potrà verificare che smantelli i tunnel che hanno permesso al gruppo terroristico di sopravvivere in due anni di guerra e di continuare a minacciare Israele.

Hamas conta di usare la pace per conservare la propria forza, così come per anni ha usato le sofferenze e la rabbia dei palestinesi per proporsi come riferimento politico al posto della più moderata Autorità nazionale palestinese.

Scrive Matthew Levitt su Foreign Affairs:

Sebbene i leader di Hamas avessero inizialmente intenzione di respingere il piano di cessate il fuoco proposto da Trump, alla fine hanno accettato l’accordo, seppur con alcune riserve. Ora il movimento punta a garantirsi un ruolo nella struttura di governo di Gaza nel dopoguerra e a ricostruire la propria capacità di impedire con la forza che altri attori diventino il potere dominante nella Striscia.

Hamas ha già dispiegato i propri combattenti nelle aree da cui l’esercito israeliano si è ritirato, facendoli vestire per lo più in abiti civili, ribattezzandoli «Forze di Sicurezza di Gaza», e cercando al contempo di riaffermare il proprio controllo e di regolare i conti con clan e tribù che si erano opposti al gruppo.

Nel frattempo, i leader di Hamas e di altre organizzazioni armate palestinesi presenti a Gaza hanno diffuso una dichiarazione congiunta in cui esprimono la loro «assoluta opposizione a qualsiasi forma di tutela straniera» sulla Striscia, nonostante il piano di Trump preveda esplicitamente la creazione di una forza internazionale temporanea di stabilizzazione incaricata di addestrare e sostenere forze di polizia palestinesi selezionate a Gaza.

La rinascita di Netanyahu

Ma anche Israele conta di usare la forza attraverso la pace: controllerà ancora metà di Gaza, e ha spostato tutto l’onere di mantenere la tregua su Hamas. È soltanto Hamas che si deve disarmare, ed è soltanto Hamas che ha impegni da rispettare: ha già violato il primo, non ha riconsegnato tutti i cadaveri degli ostaggi israeliani morti a Gaza.

In questo rapporto squilibrato, Israele si sente legittimato in qualunque momento a riprendere la violenza, come si intuisce dal fatto che proprio per la mancata restituzione di quei corpi sta già limitando l’afflusso di aiuti dal valico di Rafah.

Il premier Benjamin Netanyahu, poi, è passato in pochi giorni da sospetto criminale internazionale a nuovo padre fondatore del Paese, prima umiliato da Donald Trump che lo costringe a scusarsi con il Qatar per aver bombardato un vertice di Hamas, e poi celebrato davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano.

Trump ha addirittura chiesto il perdono per Netanyahu: non morale, per i 70.000 morti di Gaza, ma giudiziario, per evitargli il processo per corruzione.

Così Netanyahu, dopo aver tentato di smantellare la Corte suprema per fermare i giudici, dopo aver fallito nel proteggere Israele dall’attacco del 7 ottobre e dopo due anni di massacri a Gaza, può ora seriamente sperare di ricandidarsi e rimanere al potere, o almeno a piede libero, anche alle elezioni politiche del 2026.

Anche Netanyahu sembra aderire alla dottrina della forza attraverso la pace: la guerra lo stava logorando, la pace può servirgli a recuperare consenso. Il prezzo da pagare è stato accettare di umiliarsi – come tanti altri leader prima di lui – per assecondare le ambizioni e gli umori di Trump.

Quindi il piano di pace è da buttare? No, ma conferma semplicemente che Trump, a differenza di Joe Biden, aveva la possibilità di fermare il conflitto dall’inizio, perché soltanto un presidente Repubblicano può arginare Israele senza conseguenze politiche serie al Congresso, visto che i Democratici non lo attaccano con la stessa virulenza di quanto accadrebbe a parti invertite.

Trump non è intervenuto per fermare lo sterminio dei palestinesi, ma soltanto quando Netanyahu ha fatto l’errore di colpire il Qatar, cioè l’ambiguo Stato petrolifero che pochi mesi fa ha sancito il legame con il presidente degli Stati Uniti regalandogli un Boeing da 400 milioni di dollari.

Trump è intervenuto non per portare la pace attraverso la forza, ma perché ha capito che in questo momento non c’era più chiara esibizione di forza che imporre la pace a chi non la voleva.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 15 ottobre 2025

 

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2 Commenti

  1. Siriana 19 ottobre 2025
  2. Mariagrazia Gazzato 18 ottobre 2025

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