Nelle crisi dell’Africa: dalla Tanzania al Sudan

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Proteste post-elettorali in Tanzania (LaPresse).

Version française ci-dessous.

Il continente africano è scosso da una serie di crisi regionali di carattere sempre più preoccupante. Dagli scontri seguiti all’esito ufficiale delle elezioni in Tanzania e Camerun, passando per le tensioni politiche e civili in Costa d’Avorio, fino alla drammatica situazione umanitaria del Sudan con violenze mirate contro la popolazione civile e pulizie etniche.

Tanzania: da oasi di pace a escalation di violenze post-elettorali

A lungo considerata un esempio di stabilità nell’Africa orientale, la Tanzania sta attraversando oggi una crisi preoccupante che sconvolge sia i suoi cittadini che la comunità internazionale. In un Paese in cui la coesione sociale, il dialogo e la tranquillità politica erano la norma, le violenze che attualmente scuotono grandi città come Dar es Salaam e Mwanza sollevano profonde interrogazioni. Secondo una stima del partito di opposizione Chadema, da mercoledì circa 700 persone avrebbero perso la vita, una cifra allarmante che testimonia la gravità della situazione.

Al centro di questa crisi c’è la contestazione dei risultati delle recenti elezioni presidenziali e legislative. L’opposizione denuncia irregolarità, intimidazioni degli elettori e una trasparenza limitata del processo elettorale. L’annuncio della vittoria del partito al potere ha immediatamente scatenato massicce manifestazioni, trasformando alcune strade in veri e propri campi di battaglia. Sono state erette barricate, incendiati edifici amministrativi, mentre le forze di sicurezza hanno risposto con una repressione giudicata sproporzionata.

Il bilancio umano, ancora provvisorio, continua ad aggravarsi: morti per arma da fuoco, feriti gravi, arresti di massa, sparizioni inquietanti. Gli ospedali sono sovraffollati e molte famiglie sono ancora alla ricerca dei propri cari. Le testimonianze che parlano di violenze da parte della polizia e di esecuzioni sommarie alimentano la rabbia popolare e il timore di una rivolta generalizzata.

Questa deriva fa parte di una tendenza purtroppo sempre più frequente nel continente: la banalizzazione della violenza durante le elezioni. Il voto, che dovrebbe essere un momento di costruzione democratica, troppo spesso diventa un terreno di scontro in cui si intrecciano questioni politiche, interessi economici e fratture sociali. Questo fenomeno rivela una profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni elettorali e un ricorso troppo rapido alla forza.

Di fronte a questa situazione, la comunità internazionale rimane per ora relativamente silenziosa. Tuttavia, alcune voci si levano per chiedere una mediazione urgente e indagini indipendenti. Come ha dimostrato la storia recente, l’inazione può aggravare le tensioni, portare alla radicalizzazione e lasciare ferite profonde nella memoria collettiva.

Per ritrovare la via della pace, la Tanzania dovrà puntare sul dialogo, la trasparenza e il rispetto delle libertà fondamentali. La sua tradizione di convivenza rimane una risorsa preziosa, ma deve essere difesa e rinnovata.

Il Paese non è condannato a precipitare nel caos, ma il tempo stringe per evitare che questa crisi lasci conseguenze durature. Il mondo osserva con preoccupazione un Paese un tempo modello, oggi in preda a una violenza che dovrà essere soffocata prima che diventi irreversibile.

Camerun: violenze post-elettorali dopo la proclamazione di Paul Biya per un settimo mandato

Il Camerun è immerso in una nuova crisi politica dopo le elezioni presidenziali del 12 ottobre. Lunedì scorso, la Corte costituzionale ha proclamato Paul Biya vincitore per un settimo mandato consecutivo, con il 53% dei voti. A 94 anni, il capo dello Stato rimane così al potere dopo oltre quarant’anni di regno. Tuttavia, lungi dal calmare gli animi, questo annuncio ha aggravato un clima già teso da diversi giorni. Infatti, la violenza era già iniziata prima della pubblicazione ufficiale dei risultati, alimentata da voci di frode e dal timore di un risultato contestato.

In diversi quartieri di Douala, Yaoundé e Bafoussam, sono state segnalate scene di scontri già durante l’attesa del verdetto. Le forze di sicurezza, dispiegate in massa intorno ad alcuni luoghi strategici, hanno disperso i raduni spontanei con gas lacrimogeni. Sono state erette barricate e sono scoppiati scontri tra giovani manifestanti e poliziotti, a testimonianza di una rabbia popolare latente. I primi incidenti hanno rapidamente dato il tono, lasciando presagire una contestazione più ampia dopo la proclamazione.

La situazione è ulteriormente peggiorata quando l’oppositore Issa Tchiroma, uno dei principali sfidanti alle elezioni, ha categoricamente respinto i risultati definendoli «falsificati». Egli accusa la Corte costituzionale di aver convalidato un processo elettorale viziato da irregolarità. Questa presa di posizione ha mobilitato ulteriormente i suoi sostenitori, convinti di essere stati privati della vittoria. Nelle strade la tensione è aumentata, causando arresti e diversi feriti, anche se è difficile verificare il bilancio delle vittime.

Le autorità giustificano i loro interventi con la necessità di mantenere l’ordine pubblico. Denunciano una strumentalizzazione politica che, secondo loro, mira a destabilizzare il Paese. L’opposizione, invece, parla di repressione brutale e derive autoritarie, accusando il potere in carica di soffocare ogni forma di contestazione legittima.

La società civile camerunese, sempre più preoccupata, così come diversi osservatori internazionali, invitano alla moderazione e chiedono l’apertura urgente di un dialogo credibile. Al di là della scadenza elettorale, queste violenze rivelano tensioni più profonde: senso di confisca del potere, crisi anglofona ancora irrisolta, disoccupazione giovanile massiccia, perdita di fiducia nelle istituzioni e stanchezza democratica generalizzata.

Mentre il governo afferma che i risultati riflettono la volontà popolare, le proteste persistenti e le accuse di frode alimentano un clima di sospetto duraturo. Molti temono ora un’escalation difficile da controllare se non vengono rapidamente messi in atto meccanismi di mediazione e concertazione.

A lungo considerato un polo di stabilità nell’Africa centrale, il Camerun si trova oggi a un bivio. Solo un dialogo inclusivo, trasparente e responsabile potrà placare le tensioni, ripristinare la fiducia ed evitare che questa crisi post-elettorale si trasformi in una frattura nazionale duratura.

Costa d’Avorio: e se la democrazia non fosse fatta per l’Africa?

In Costa d’Avorio, l’annuncio della vittoria di Alassane Ouattara al termine delle elezioni presidenziali tenutesi domenica scorsa riaccende il dibattito sul futuro democratico del Paese. Questo quarto mandato, contestato da una parte dell’opposizione, solleva profonde interrogazioni sull’alternanza politica e il rispetto delle istituzioni.

Mentre i sostenitori del capo dello Stato mettono in evidenza i progressi economici e la ritrovata stabilità, i suoi oppositori denunciano una deriva autoritaria e una sottile manipolazione dei testi costituzionali. L’atmosfera tesa che ha preceduto le elezioni, così come le sporadiche mobilitazioni osservate in diverse città, testimoniano una frattura persistente all’interno della società ivoriana.

Purtroppo, questo scenario è tutt’altro che isolato in Africa. In diversi paesi, i presidenti si aggrappano al potere modificando le costituzioni o aggirando i limiti dei mandati, indebolendo così l’essenza stessa della democrazia. Le tensioni post-elettorali, le violenze, la sfiducia popolare e la politicizzazione etnica diventano quindi conseguenze quasi naturali di queste crisi ricorrenti. Di fronte a queste realtà, alcuni arrivano a porre una domanda provocatoria: la democrazia è davvero adatta alle realtà africane?

I sostenitori di questa tesi evocano le strutture sociali tradizionali basate sull’autorità del capo, il consenso comunitario e la coesione tribale. Secondo loro, il multipartitismo esacerba le rivalità identitarie e incoraggia la divisione. Tuttavia, questo argomento nasconde il vero problema: non è la democrazia a fallire, ma la sua cattiva applicazione. La corruzione, la debolezza dei contrappesi, la strumentalizzazione della giustizia, l’assenza di educazione civica e la mancanza di trasparenza distolgono questo modello dal suo scopo.

Tuttavia, abbandonare la democrazia sarebbe un errore. La sfida non è rifiutarla, ma ripensarla e adattarla. Il rafforzamento delle istituzioni, la rigorosa limitazione dei mandati, l’indipendenza della giustizia, la formazione dei cittadini e i partiti politici portatori di progetti concreti sono percorsi indispensabili. I paesi che hanno cercato di instaurare una governance sostenibile lo hanno capito: la stabilità non può essere costruita sulla personalizzazione del potere.

In Costa d’Avorio, come altrove, il quarto mandato di Alassane Ouattara potrebbe essere l’occasione per un dibattito approfondito sul futuro politico del Paese. Il continente africano merita una democrazia che gli assomigli: ambiziosa, responsabile e rispettosa dell’alternanza. Perché se oggi la democrazia vacilla, il suo fallimento non è una fatalità, ma un appello urgente a reinventarla.

Sudan: El-Fasher cuore di un massacro silenzioso

La città di El-Fasher, ultimo bastione strategico della regione del Darfur ancora fino a poco tempo fa controllato dall’esercito sudanese, è oggi teatro di atrocità di portata allarmante. Da quando la città è stata riconquistata dalle Forze di sostegno rapido (FSR), le testimonianze, le immagini satellitari e i rapporti delle organizzazioni umanitarie convergono nel dipingere un quadro di violenza sistematica, mirata e metodicamente organizzata contro i civili.

Secondo i ricercatori dell’Università di Yale, la situazione è così grave da poter essere osservata dallo spazio. Grazie a un lavoro meticoloso, gli specialisti sono stati in grado di tracciare via satellite le zone di violenze attribuite alle FSR, identificando così edifici incendiati, interi quartieri devastati e luoghi precisi di esecuzioni. Uno di quelli più scioccanti è un reparto maternità dove, secondo le loro stime, sarebbero state uccise 460 persone. Questo luogo, dove i più vulnerabili cercavano rifugio nella speranza di trovare protezione, è diventato un simbolo agghiacciante della brutalità che si abbatte sulla città.

Dall’inizio della scorsa settimana, che ha segnato l’intensificarsi dei combattimenti, più di 36.000 civili sono fuggiti da El-Fasher, cercando disperatamente un passaggio verso zone meno esposte o verso i confini vicini. Donne, bambini e anziani camminano per ore, a volte senza cibo né acqua, esposti ai gruppi armati, alle malattie e al caos. I corridoi umanitari rimangono in gran parte inaccessibili, ostacolati dai combattimenti e dai blocchi stradali.

Di fronte alla portata della tragedia, la voce morale della Chiesa si è levata. Durante l’Angelus di domenica 2 novembre, papa Leone XIV è tornato sui massacri di El-Fasher, esprimendo il suo “profondo dolore” e invitando la comunità internazionale a “non distogliere lo sguardo da questo dramma umano”. Ha invitato i responsabili politici a “lavorare senza indugio per l’apertura di corridoi umanitari sicuri” e ha affidato le vittime “alla misericordia di Dio”. Le sue parole risuonano come un appello urgente alla coscienza collettiva.

Questa nuova tragedia si inserisce in un conflitto più ampio che devasta il Sudan dall’aprile 2023, contrapponendo l’esercito nazionale alle FSR in una lotta di potere dalle conseguenze drammatiche. Il Darfur, già segnato dalle violenze degli anni 2000, sembra essere ricaduto in un ciclo di pulizia etnica e massacri mirati. Le ONG denunciano un crollo totale dello Stato e la crescente indifferenza della comunità internazionale.

Sul campo, gli ospedali ancora in piedi sono sovraffollati, i feriti si accumulano e i medicinali scarseggiano. I medici testimoniano scene insostenibili: amputazioni improvvisate, bambini denutriti, feriti che muoiono per mancanza di cure elementari. L’accesso all’acqua potabile diventa un’ulteriore emergenza, mentre le infrastrutture essenziali vengono prese di mira.

Per molti osservatori El-Fasher sta diventando il simbolo del naufragio umanitario sudanese. La domanda ricorre: fino a quando la comunità internazionale rimarrà spettatrice? Mentre la popolazione civile continua a fuggire, pregando di sopravvivere un giorno in più, El-Fasher incarna la tragedia di un paese lacerato, abbandonato ai suoi aguzzini. La storia giudicherà. Per ora, sono gli innocenti a pagare, in un silenzio che risuona come una condanna.


Dans les crises africaines : de la Tanzanie au Soudan

Le continent africain est secoué par une série de crises régionales de plus en plus préoccupantes. Des affrontements qui ont suivi les résultats officiels des élections en Tanzanie et au Cameroun, en passant par les tensions politiques et civiles en Côte d’Ivoire, jusqu’à la situation humanitaire dramatique au Soudan, avec des violences ciblées contre la population civile et des nettoyages ethniques.

Tanzanie : d’un havre de paix à l’escalade des violences post-électorales

Longtemps considérée comme un exemple de stabilité en Afrique de l’Est, la Tanzanie traverse aujourd’hui une crise inquiétante qui choque autant ses citoyens que la communauté internationale. Dans un pays où la cohésion sociale, le dialogue et la tranquillité politique formaient la norme, les violences qui secouent actuellement de grandes villes comme Dar es-Salaam et Mwanza interrogent profondément. Selon une estimation du parti d’opposition Chadema, environ 700 personnes auraient perdu la vie depuis mercredi, un chiffre alarmant qui témoigne de la gravité de la situation.

Au cœur de cette crise se trouve la contestation des résultats du récent scrutin présidentiel et législatif. L’opposition dénonce des irrégularités, des intimidations d’électeurs et une transparence limitée du processus électoral. L’annonce de la victoire du parti au pouvoir a aussitôt déclenché des manifestations massives, transformant certaines rues en véritables champs d’affrontement. Des barricades ont été érigées, des bâtiments administratifs incendiés, tandis que les forces de sécurité ont répondu par une répression jugée disproportionnée.

Le bilan humain, encore provisoire, ne cesse de s’alourdir : morts par balles, blessés graves, arrestations massives, disparitions inquiétantes. Les hôpitaux sont débordés et de nombreuses familles recherchent encore des proches. Les témoignages évoquant des violences policières et des exécutions sommaires renforcent la colère populaire et la peur d’un embrasement généralisé.

Cette dérive s’inscrit dans une tendance malheureusement de plus en plus fréquente sur le continent : la banalisation de la violence lors des élections. Le vote, censé être un moment de construction démocratique, devient trop souvent un terrain de confrontation où s’entremêlent enjeux politiques, intérêts économiques et fractures sociales. Ce phénomène révèle un profond déficit de confiance envers les institutions électorales ainsi qu’un recours trop rapide à la force.

Face à cette situation, la communauté internationale demeure pour l’instant relativement silencieuse. Plusieurs voix s’élèvent toutefois pour réclamer une médiation urgente et des enquêtes indépendantes. Car l’histoire récente l’a montré : l’inaction peut aggraver les tensions, conduire à des radicalisations et laisser des blessures profondes dans la mémoire collective.

Pour retrouver la voie de la paix, la Tanzanie devra miser sur le dialogue, la transparence et le respect des libertés fondamentales. Sa tradition de vivre-ensemble demeure un atout précieux, mais elle doit être défendue et renouvelée. Le pays n’est pas condamné à basculer dans le chaos, mais le temps presse pour éviter que cette crise ne laisse des séquelles durables. Le monde observe, inquiet, un pays autrefois modèle, aujourd’hui en proie à une violence qu’il va falloir étouffer avant qu’elle ne devienne irréversible.

Cameroun : violences post-électorales après la proclamation de Paul Biya pour un septième mandat

Le Cameroun est plongé dans une nouvelle crise politique depuis l’élection présidentielle du 12 octobre. Lundi dernier, la Cour constitutionnelle a proclamé Paul Biya vainqueur pour un septième mandat consécutif, avec 53 % des suffrages. À 94 ans, le chef de l’État se maintient ainsi au pouvoir après plus de quarante ans de règne. Cependant, loin de calmer les esprits, cette annonce a aggravé un climat déjà tendu depuis plusieurs jours. En effet, la violence avait déjà commencé avant la publication officielle des résultats, alimentée par des rumeurs de fraude et la crainte d’un résultat contesté.

Dans plusieurs quartiers de Douala, Yaoundé et Bafoussam, des scènes d’affrontements ont été signalées dès l’attente du verdict. Les forces de sécurité, massivement déployées autour de certains lieux stratégiques, ont dispersé des regroupements spontanés à coups de gaz lacrymogènes. Des barricades ont été dressées, et des heurts entre jeunes manifestants et policiers ont éclaté, traduisant une colère populaire latente. Les premiers incidents ont rapidement donné le ton, laissant présager une contestation plus large après la proclamation.

La situation s’est encore détériorée lorsque l’opposant Issa Tchiroma, l’un des principaux challengers du scrutin, a catégoriquement rejeté les résultats, les qualifiant de « falsifiés ». Il accuse la Cour constitutionnelle d’avoir validé un processus électoral entaché d’irrégularités. Cette prise de position a mobilisé davantage ses partisans, convaincus d’avoir été privés de leur victoire. Dans les rues, la tension est montée d’un cran, faisant place à des arrestations et à plusieurs blessés, même si les bilans demeurent difficiles à vérifier.

Les autorités justifient leurs interventions par la nécessité de maintenir l’ordre public. Elles dénoncent une instrumentalisation politique visant, selon elles, à déstabiliser le pays. L’opposition, en revanche, parle de répression brutale et de dérives autoritaires, accusant le pouvoir en place de museler toute forme de contestation légitime.

La société civile camerounaise, de plus en plus inquiète, ainsi que plusieurs observateurs internationaux, appellent à la retenue et demandent l’ouverture urgente d’un dialogue crédible. Au-delà de l’échéance électorale, ces violences révèlent des tensions plus profondes : sentiment de confiscation du pouvoir, crise anglophone toujours non résolue, chômage massif des jeunes, perte de confiance dans les institutions et fatigue démocratique généralisée.

Alors que le gouvernement affirme que les résultats reflètent la volonté populaire, la contestation persistante et la revendication de fraude alimentent un climat de suspicion durable. Beaucoup redoutent désormais une escalade difficile à maîtriser si des mécanismes de médiation et de concertation ne sont pas rapidement mis en place.

Longtemps considéré comme un pôle de stabilité en Afrique centrale, le Cameroun se trouve aujourd’hui à la croisée des chemins. Seul un dialogue inclusif, transparent et responsable pourra permettre d’apaiser les tensions, restaurer la confiance et éviter que cette crise post-électorale ne se transforme en fracture nationale durable.

Côte d’Ivoire : et si la démocratie n’était pas faite pour l’Afrique ?

En Côte d’Ivoire, l’annonce de la victoire d’Alassane Ouattara à l’issue des élections présidentielles qui se sont tenues dimanche dernier ravive le débat sur l’avenir démocratique du pays. Ce quatrième mandat, contesté par une partie de l’opposition, soulève des interrogations profondes sur l’alternance politique et le respect des institutions. Si les partisans du chef de l’État mettent en avant les progrès économiques et la stabilité retrouvée, ses opposants dénoncent une dérive autoritaire et une manipulation subtile des textes constitutionnels. L’atmosphère tendue qui a précédé le scrutin, ainsi que les mobilisations sporadiques observées dans plusieurs villes, témoignent d’une fracture persistante au sein de la société ivoirienne.

Ce scénario reste malheureusement loin d’être isolé en Afrique. Dans plusieurs pays, des présidents s’accrochent au pouvoir en révisant les Constitutions ou en contournant les limitations de mandats, fragilisant ainsi l’essence même de la démocratie. Les tensions post-électorales, les violences, la défiance populaire et la politisation ethnique deviennent alors des conséquences presque naturelles de ces crises récurrentes. Face à ces réalités, certains vont jusqu’à poser une question provocante : la démocratie est-elle réellement adaptée aux réalités africaines ?

Les défenseurs de cette thèse évoquent des structures sociales traditionnelles fondées sur l’autorité du chef, le consensus communautaire et la cohésion tribale. Selon eux, le multipartisme exacerbe des rivalités identitaires et encourage la division. Pourtant, cet argument occulte le vrai problème : ce n’est pas la démocratie qui échoue, mais sa mauvaise application. Corruption, faiblesse des contre-pouvoirs, instrumentalisation de la justice, absence d’éducation civique et manque de transparence détournent ce modèle de sa finalité.

Pourtant, jeter la démocratie serait une erreur. L’enjeu n’est pas de la rejeter, mais de la repenser et de l’adapter. Renforcement des institutions, limitation stricte des mandats, justice indépendante, formation citoyenne et partis politiques porteurs de projets concrets sont des pistes indispensables. Les pays qui ont tenté d’asseoir une gouvernance durable l’ont compris : la stabilité ne peut être bâtie sur la personnalisation du pouvoir.

En Côte d’Ivoire, comme ailleurs, le quatrième mandat d’Alassane Ouattara pourrait être l’occasion d’un débat profond sur le futur politique du pays. Le continent africain mérite une démocratie qui lui ressemble : ambitieuse, responsable et respectueuse de l’alternance. Car si la démocratie chancelle aujourd’hui, son échec n’est pas une fatalité, mais un appel urgent à la réinventer.

El-Fasher : au cœur d’un massacre silencieux

La ville d’El-Fasher, dernier bastion stratégique de la région du Darfour encore tenu jusqu’à récemment par l’armée soudanaise, est aujourd’hui le théâtre d’atrocités d’une ampleur alarmante. Depuis la reprise de la ville par les Forces de soutien rapide (FSR), les témoignages, images satellitaires et rapports des organisations humanitaires convergent pour dresser un tableau d’une violence systématique, ciblée et méthodiquement organisée contre les civils.

Selon des chercheurs de l’université de Yale, la situation est suffisamment grave pour être observée depuis l’espace. Grâce à un travail minutieux, les spécialistes ont pu tracer par satellites les zones d’exactions attribuées aux FSR, identifiant ainsi des bâtiments incendiés, des quartiers entiers dévastés et des sites précis d’exécutions. L’un des lieux les plus choquants est une maternité où, d’après leurs estimations, 460 personnes auraient été tuées. Cette scène, où les plus vulnérables se réfugiaient dans l’espoir de protection, est devenue un symbole glaçant de la brutalité qui s’abat sur la ville.

Depuis le début de la semaine passée qui a marqué l’intensification des combats, plus de 36 000 civils ont fui El-Fasher, cherchant désespérément un passage vers des zones moins exposées ou vers les frontières voisines. Femmes, enfants et vieillards marchent pendant des heures, parfois sans nourriture ni eau, exposés aux groupes armés, à la maladie et au chaos. Les couloirs humanitaires, eux, restent largement inaccessibles, entravés par les combats et les barrages.

Face à l’ampleur de la tragédie, la voix morale de l’Église s’est élevée. Au moment de l’Angelus de ce dimanche 2 novembre, le pape Léon XIV est revenu sur les massacres d’El-Fasher, exprimant sa “profonde douleur” et appelant la communauté internationale à “ne pas détourner le regard de ce drame humain”. Il a invité les responsables politiques à “œuvrer sans tarder à l’ouverture de voies humanitaires sûres” et a confié les victimes “à la miséricorde de Dieu”. Ses paroles résonnent comme un appel urgent à la conscience collective.

Cette nouvelle tragédie s’inscrit dans un conflit plus large qui ravage le Soudan depuis avril 2023, opposant l’armée nationale aux FSR dans une lutte de pouvoir aux conséquences dramatiques. Le Darfour, déjà marqué par les violences des années 2000, semble replongé dans un cycle de nettoyage ethnique et de massacres ciblés. Les ONG dénoncent un effondrement complet de l’État et l’indifférence croissante de la communauté internationale.

Sur le terrain, les hôpitaux encore debout sont débordés, les blessés s’entassent et les médicaments viennent à manquer. Des médecins témoignent de scènes insoutenables : amputations improvisées, enfants dénutris, blessés mourant faute de soins élémentaires. L’accès à l’eau potable devient une urgence supplémentaire, tandis que les infrastructures essentielles sont prises pour cibles.

Pour de nombreux observateurs, El-Fasher est en passe de devenir un symbole du naufrage humanitaire soudanais. La question ressurgit : jusqu’à quand la communauté internationale restera-t-elle spectatrice ? Tandis que les populations civiles continuent de fuir, priant pour survivre un jour de plus, El-Fasher incarne la tragédie d’un pays déchiré, abandonné à ses bourreaux. L’histoire jugera. Pour l’instant, ce sont les innocents qui paient, dans un silence qui résonne comme une condamnation.

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2 Commenti

  1. Guido 4 novembre 2025
    • Guido 11 novembre 2025

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