
Si è aperto oggi, venerdì 7 novembre, alle ore 16 ad Albino (BG), il Convegno «La solitudine dell’Europa: le Chiese e l’Unione», due giorni di incontro e riflessione che la redazione di SettimanaNews organizza per confrontarsi con i suoi lettori e collaboratori. La prima sessione, aperta dalla meditazione biblica di Elsa Antoniazzi, è proseguita con gli interventi di Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del Corriere della Sera («Le sfide della Unione Europea») e di mons. Mariano Crociata, vescovo di Latina e presidente della COMECE («Le Chiese e l’Unione Europea: consensi e dissensi»). Riprendiamo qui l’introduzione ai lavori.
(1) Il titolo del nostro seminario (La solitudine dell’Europa) è in parallelo con quello dell’articolo che lo presentava (Il futuro è l’Europa). Da un lato un contesto di isolamento mai sperimentato dalla fondazione dell’Unione e dall’altro l’evidenza che il futuro deve avere il nome di Europa.
(2) L’equilibrio internazionale che ha retto per ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dopo il crollo del muro (1989) sta andando in frantumi. È in atto una ridefinizione dell’egemonia mondiale. Se non vogliamo rassegnarci al ruolo di periferia ininfluente e accettare come inevitabile la consunzione delle istituzioni internazionali il futuro possibile si chiama Europa. I singoli Stati europei (Italia compresa) non sono in grado di avere da soli una voce significativa e una parola efficace sui futuri equilibri.
(3) L’aggressione militare russa all’Ucraina, pur non essendo la prima in questi decenni, è la guerra che ha sepolto la diffusa convinzione di un futuro inevitabile di pace nel continente. Questo senza ignorare le responsabilità diffuse nei paesi e istituzioni europee, l’indirizzo nazionalistico dell’attuale amministrazione americana e la candidatura all’egemonia della Cina. Esse spostano la direzione dell’economia dal mercato alla politica sostituendo alle regole condivise la potenza militare, alla collaborazione il contrasto, al diritto la forza, alla pace la minaccia della guerra. In tale quadro possiamo collocare il contributo di testimonianza di una prestigiosa figura come il prof. Michael Pillsbury sul recente incontro fra il presidente cinese Xi Jinping e quello Americano Donald Trump.
(4) L’Unione Europea è travolta da un triplice shock: militare, economico e ideologico. Militare, per il conflitto che si è aperto e non è ancora concluso, il quale sta imponendo, con tutta l’inquietudine che conosciamo, il tema del riarmo. Economico, perché la disinvolta attribuzione dei dazi dell’amministrazione americana ha rimesso in discussione il “libero mercato”. Ideologico, perché la democrazia liberale è sottoposta a forzature che ne snaturano l’identità fino alla teorizzazione di forme di democrazia illiberali.
(5) Il cambiamento ha reso evidente le fragilità dell’impresa politica e istituzionale europea, già provata da decenni in cui gli interessi degli Stati hanno lentamente ripreso i loro spazi e la delega di sovranità si è fermata. Restano fragili i grandi progetti comuni, l’urgenza di una politica estera condivisa e i compiti di una difesa militare. Tanto più che alcuni Stati come l’Ungheria di Viktor Orban si oppongono a ogni passo in avanti nella pretesa di avere i vantaggi dell’Unione senza assumere i conseguenti impegni. Un indirizzo politico interpretato da molte altre forze politiche come la Lega Nord in Italia, l’Alternative für Deutschland in Germania o il Rassemblement National in Francia. Non basta più la pur preziosa opera di regolamentazione di Bruxelles se si evita di affrontare la questione più difficile e cioè l’integrazione politica dei Paesi dell’Unione.
(6) Oltre al ritardo tecnologico vi sono molte altre emergenze dall’industrializzazione ai processi formativi fino a quelle di cui poco si parla come il declino demografico che sta togliendo futuro al paese e all’Europa, assieme a molte fragilità di funzionamento delle istituzioni comunitaria: dallo scarso sovvenzionamento da parte degli stati, alla devastante concorrenza fra essi sul tema fiscale fino alla necessità dell’unanimità delle decisioni oggi diventata del tutto incomprensibile. Più in generale vi è un problema di consenso delle popolazioni al progetto europeo. Al di là delle singole criticità come le aree periferiche, la mancanza di coperture medica, l’assenza di trasporti efficienti, il modesto livello delle scuole ecc., vi è la domanda dei valori di riferimento dell’impresa e di una «visione» capace di motivare l’impegno e trainare i cuori.
(7) Si apre qui il compito delle Chiese cristiane che senza sposare e identificarsi nell’impresa storico civile dell’Unione non possono ignorare l’imperativo dell’incarnazione e la loro responsabilità storica. L’annuncio del Regno e la testimonianza dell’amore di Dio sono oltre le vicende storiche, ma le attraversano e le animano, partecipando allo sforzo comune di salvaguardare l’umano e i suoi valori.
(8) Semplificando, nei confronti dell’Unione vi è una sostanziale continuità di sostegno da parte della Chiesa cattolica e poi delle Chiese riformate e anglicane. Più frastagliato il rapporto con le Chiese ortodosse. La tradizione ellenica, pur gravata dalla resistenza del monachesimo, è chiaramente a favore dell’unificazione del continente. Diverso l’attuale corso delle Chiese ortodosse slave (russa, bielorussa, bulgara e serba) convergenti in un giudizio critico dell’intero Occidente che rende difficile l’auspicata testimonianza cristiana comune.
(9) Tornando alla Chiesa cattolica, va registrata la diffidenza se non la contrarietà degli episcopati dell’area di Visegrad (Ungheria, Cechia, Polonia, Slovacchia e alcuni paesi balcanici). Essi accusano Bruxelles, non sempre a torto, di volere imporre «diritti» (dall’aborto alle convivenze omosessuali al cambiamento di sesso) che le popolazioni locali non capiscono, usando le piattaforme giuridiche occidentali per annullare le identità e le tradizioni locali. Una posizione spesso condivisa anche del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE) che si contrappone parzialmente alla COMECE (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea).
Ciò che divide le due posizioni è il possibile superamento della neo-cristianità sull’onda del magistero di Francesco. Rispetto al rapporto con gli Stati e i legislatori il superamento da favorire è quello del paradigma dei «valori non negoziabili». Il riferimento obbligante non sono il magistero e la legge naturale quanto il Vangelo e i «segni dei tempi». Una posizione che permetterebbe di evitare uno «stato di confessione» davanti a legislazioni comunitarie non condivisibili. Una dissonanza anche significativa non toglie la responsabilità ecclesiale nel sostegno al percorso comune in Europa.
(10) L’Unione Europea è nata nel crogiolo del dopoguerra e con l’imperativo della pace, ma attorno ad essa sono stati riconosciuti altri valori fondamentali che il Trattato recepisce. Fra questi: la democrazia, la libertà, l’indipendenza, la sovranità, la prosperità, l’equità. Troppo spesso è stata ridotta a mercato, alla moneta e a un insieme di regole tecniche impedendo di arrivare ad alimentare il cuore dei cittadini, ad aprire una visione capace di motivare e sostenere lo sforzo. Nel quadro di una recepita a-confessionalità e autonomia rispetto a pretese di indirizzo delle religioni, l’Unione vive spesso una laicità ideologica, geograficamente limitata e culturalmente asfittica. La spinta che le Chiese possono condividere è il passaggio da una laicità ideologica a una laicità aperta.
(11) Concluderei con la preghiera per l’Europa formulata dal card. Martini vent’anni fa, nel 2005, in un clima più favorevole dell’attuale, ma sempre attuale.
Padre dell’umanità. Signore della storia
guarda questo continente europeo
al quale tu hai inviato tanti filosofi, legislatori e saggi,
precursori della fede nel tuo Figlio morto e risorto.
Guarda questi popoli evangelizzati da Pietro e Paolo,
dai profeti, dai monaci, dai santi;
guarda queste regioni bagnate dal sangue dei martiri
e toccate dalla voce dei Riformatori.
Guarda i popoli uniti da tanti legami,
ma anche divisi, nel tempo, dall’odio e dalla guerra.
Donaci di lavorare per una Europa dello Spirito
fondata non soltanto sugli accordi economici,
ma anche sui valori umani ed eterni.
Una Europa capace di riconciliazioni etniche ed ecumeniche,
pronta ad accogliere lo straniero, rispettosa di ogni dignità.
Donaci di assumere con fiducia il nostro dovere
di suscitare e promuovere un’ intesa tra i popoli
che assicuri per tutti i continenti,
la giustizia e il pane, la libertà e la pace.






Le ambizioni lodevolmente descritte in questo articolo non possono semplicemente più essere perseguite nell’ambito delle regole istituzionali esistenti oggi. Bisogna ripartire dalla costruzione di partiti transnazionali europeisti, e cercare di ottenere per loro spazio (c’era stata l’idea di allocare i seggi “perduti” dalla Gran Bretagna a un collegio elettorale europeo, ma neppure quell’idea è decollata). Bisogna lanciare delle cooperazioni avanzate nell’ambito dei trattati, possibilmente intorno a questioni veramente politiche, come gli esteri e la difesa. Ma tutto questo porterà a progressi marginali con grande dispendio di tempo ed energie. Di tempo non ce n’è più. L’ideale sarebbe un nuovo trattato tra un nuovo gruppo fondatore. Ma manca il comune sentire e il senso di missione da compiere che caratterizzava i cattolici germanofoni Schuman Adenauer e De Gasperi. Nella costruzione europea che abbiamo ereditato ha prevalso invece l’astuzia da sensale di Jean Monnet.
I valori non negoziabili sono stati riformulati da Dignitas infinita e più in generale dall’ecologia integrale. Non è necessario accantonarli.