
Ogni esperienza di vita, ogni passo nel cammino della fede, ci pone di fronte a un mistero che ci precede e ci circonda. C’è un punto di origine che dà senso a ciò che viviamo: non nelle nostre idee o nelle nostre capacità, ma nella Presenza che si manifesta e che accoglie la nostra fragilità. È da questo incontro, silenzioso eppure radicale, che prende forma ogni riflessione sul ministero presbiterale.
Confessare Gesù come vero Dio e vero uomo non significa semplicemente ripetere una formula dottrinale, ma riconoscere la radice ontologica e affettiva della nostra fede. In Lui si compie l’incontro tra il divino e l’umano, tra l’invisibile e la carne della storia. Il ministero presbiterale nasce da questa realtà: dalla partecipazione sacramentale a un mistero che precede ogni nostra azione e la fonda. In Cristo, Dio non solo si è comunicato all’uomo, ma ha assunto il volto dell’uomo, restituendo alla nostra fragilità la dignità di luogo teologico. L’incarnazione, quindi, non è una cornice della fede, ma la sua sostanza.
Viviamo in un tempo in cui la cultura, le scienze, le arti e le tecnologie producono una pluralità di linguaggi e di visioni del mondo, spesso in contrasto tra loro. Questo pluralismo non è una minaccia, ma un invito a rendere la teologia viva e concreta, capace di entrare in dialogo con le persone e con la realtà, senza ridursi a esercizio accademico o a pura formalità[1].
La teologia, intesa come riflessione sulla fede, non si limita a descrivere verità astratte: diventa esperienza, prassi, compagnia con l’altro, nella consapevolezza che ogni uomo porta con sé una storia, un dolore, una speranza[2]. È in questo terreno concreto che i presbiteri sono chiamati a incarnare il Vangelo, tessendo relazioni che rispettino la libertà e la dignità di ciascuno, e sostenendo gli uomini nel loro cammino senza sostituirsi a loro.
In tale orizzonte, la centralità di Cristo diventa il fondamento di ogni azione pastorale. La fede cristiana non è un ideale astratto né una mera dottrina da trasmettere, ma un evento storico e personale, un’esperienza di incontro con il Dio vivente che trasforma l’uomo e la comunità. La riflessione che segue intende proporre una lettura organica di questa esperienza, sviluppata in cinque nuclei principali: Nicea e la nostra fede: il volto di Cristo nel tempo; cristologia e antropologia: l’unità che salva l’umano; il rischio di un cristianesimo senza Cristo; la centralità di Cristo nella vita del presbitero; e, infine, orientamenti pastorali: vivere la compagnia del Risorto.
Come presbiteri, siamo chiamati a farne la trama della nostra esistenza: vivere il Vangelo nella concretezza delle relazioni, riconoscendo nella storia e nei volti che incontriamo il luogo della rivelazione. È lì, nell’incontro quotidiano con le persone e nelle situazioni più ordinarie eppure cariche di mistero, che il nostro ministero trova il senso più autentico.
Nicea e la nostra fede: il volto di Cristo nel tempo
A 1700 anni dal Concilio di Nicea (325), la confessione di Cristo «consustanziale al Padre» non appartiene solo al linguaggio dei concili, ma rimane una sorgente viva di discernimento ecclesiale. Allora la Chiesa, uscita dalle persecuzioni e immersa in un nuovo rapporto con la società, fu costretta a dire con chiarezza chi fosse Gesù. Non bastava riconoscere la sua grandezza: bisognava confessarne la divinità. Ario, nel tentativo di salvaguardare la trascendenza di Dio, negava che il Figlio fosse eterno come il Padre. La sua posizione appariva razionale, ma svuotava la fede della sua potenza salvifica. Se Cristo non è Dio, la redenzione è impossibile; se non è uomo, la nostra carne resta esclusa dalla comunione.
Nicea rispose con un termine nuovo – homoousios, consustanziale – che non spiegava il mistero, ma lo custodiva. In quella parola si decise la possibilità stessa della fede: solo Dio salva, e solo l’umanità di Cristo può salvare gli uomini. Sant’Atanasio, che ne fu il più tenace difensore, ne colse la profondità: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio»[3]. In Cristo, Dio attraversa la nostra carne, e la carne diventa luogo della gloria. Non si tratta di una formula, ma di una verità esperienziale che fonda la speranza.
Eppure, come ricorda Giuseppe Ruggieri, ogni dogma rischia di trasformarsi in “parola di pietra” se non viene continuamente rigenerato dalla vita del credente e della comunità[4]. Il mistero di Cristo non è un’equazione ontologica, ma una relazione vivente: l’incontro tra il Dio che si dona e l’uomo che accoglie. Dietro quella formula, infatti, c’è un volto: Gesù di Nazareth, che non ha lasciato definizioni ma relazioni, non ha consegnato concetti ma gesti, incontri, sguardi.
Anche oggi, come allora, la Chiesa si trova davanti a un nuovo arianesimo: quello che riduce Gesù a un maestro di umanità o a un simbolo religioso universale. Un Cristo che ispira, ma non salva; che consola, ma non trasforma. Tornare a Nicea, dunque, significa recuperare la verità della sua carne e della sua croce come luogo in cui Dio si rivela e l’uomo si compie.
Cristologia e antropologia: l’unità che salva l’umano
Dire che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo è affermare che l’umano non è estraneo a Dio, ma la sua via prediletta. In Lui, ogni frammento di esistenza umana – gioia, fatica, solitudine, desiderio – è assunto e redento. Come ricorda Karl Rahner, «l’incarnazione è la definitiva autocomunicazione di Dio»[5]: in Cristo, Dio non ha solo parlato, ma ha condiviso l’esistenza umana fino al limite della morte. Per questo la cristologia è la radice di ogni antropologia cristiana: non si può dire chi è l’uomo senza dire chi è Cristo.
Nel suo essere Dio e uomo, Gesù unifica due dimensioni che spesso noi separiamo: la trascendenza e la storia, la grazia e la libertà, la comunione e la differenza. Egli mostra che l’uomo trova sé stesso solo nell’apertura all’altro, nella relazione. Viviamo, però, in una cultura che frammenta l’umano.
L’epoca post-metafisica – segnata dal pluralismo dei linguaggi e delle visioni – ha dissolto ogni pretesa di totalità. Eppure, proprio in questo contesto, il mistero cristologico si rivela sorprendentemente attuale: in Cristo, Dio si è espresso nel linguaggio della carne, riconciliando l’incommensurabile e il finito. Come osserva Ruggieri, la fede non impone un linguaggio universale, ma testimonia una forma di vita capace di dialogare con ogni alterità[6]. L’incarnazione, infatti, è la grammatica del dialogo: Dio entra nel nostro linguaggio per trasfigurarne i limiti. Ecco perché la proclamazione di Cristo come vero Dio e vero uomo fonda la visione cristiana dell’uomo e della comunità.
L’essere umano non è un frammento isolato dell’universo, ma un volto unico, aperto alla relazione con Dio e con gli altri. La persona è il riflesso di quella relazione eterna che costituisce la vita trinitaria, e che Cristo ha reso visibile nella sua esistenza storica. Ogni gesto di Gesù – l’abbraccio ai bambini, il perdono al peccatore, la compassione per i malati – diventa così rivelazione non solo di Dio, ma anche dell’uomo nella sua verità più profonda. E per noi, come presbiteri uniti in un unico presbiterio, ciò diventa criterio pastorale: non ci è affidata un’astrazione, ma la carne concreta delle persone.
La forza del cristianesimo sta proprio nel suo nucleo originario: il Figlio di Dio che, facendosi uomo, ha accolto in sé ogni differenza e ogni lontananza. È questo lo “scambio” di cui parla san Paolo («Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore», 2Cor 5,21): Cristo ha assunto persino ciò che sembrava più distante da Dio, per trasformarlo in luogo di comunione.
Così la fede cristologica diventa anche metodo di dialogo. I credenti, riconciliati in Cristo sono chiamati ad aprirsi all’altro non per assimilare o sottomettere, ma per accogliere. La verità non si difende ergendo muri, ma si comunica come relazione. In questo senso, l’unità della persona di Cristo diventa la chiave di un’antropologia capace di ospitare la differenza, di dialogare senza annullare, di custodire la dignità di ogni voce[7].
Il dogma di Nicea, dunque, non è un pezzo da museo, ma un invito ad abitare la storia con uno sguardo diverso. Ci ricorda che la fede cristiana non vive di mezze misure: o Cristo è tutto, o non è nulla. E ci costringe a chiederci, come presbiteri e come presbiterio, se oggi la nostra predicazione, la nostra catechesi e la nostra pastorale custodiscono questa centralità di Cristo o se, magari senza accorgercene, lo lasciano sullo sfondo. Tornare a Nicea, “smontarlo” e riascoltarlo, significa allora ritrovare il cuore: un Dio che non ha avuto paura della nostra carne e un uomo, Gesù, che proprio perché Dio è diventato per tutti via, verità e vita[8].
Per questo, la missione del presbitero non è quella di sovrapporre un sistema religioso alla vita, ma di custodire spazi in cui l’umanità possa incontrare Dio senza cessare di essere sé stessa. La pastorale diventa così esercizio di incarnazione: ascolto, ospitalità, relazione.
Il rischio di un cristianesimo senza Cristo
La storia recente mostra un pericolo sempre più sottile: quello di un cristianesimo umanista, che esalta i valori ma smarrisce la fede. Si parla di fraternità, di pace, di giustizia, ma senza Cristo. Ne nasce una religione civile senza evento salvifico, dove la Chiesa rischia di essere percepita come agenzia etica o centro di servizi sociali. Johann Baptist Metz ha analizzato con lucidità questa deriva, ricordando che la fede cristiana vive di tre dinamiche inseparabili: memoria, narrazione e solidarietà[9].
- La memoria custodisce la Pasqua, l’evento che fonda la speranza;
- la narrazione rinnova la fede rendendola contemporanea;
- la solidarietà la traduce in prassi storica.
Senza memoria, la fede diventa moralismo; senza narrazione, ideologia; senza solidarietà, spiritualismo sterile. In questa linea, Giuseppe Guglielmi osserva che la vita della Chiesa non si comprende a partire dalle sue opere, ma dal suo essere evento di comunione, spazio in cui la grazia diventa storia[10].
In questa prospettiva, la solidarietà non è un gesto filantropico o unidirezionale, ma un movimento che guarda al passato e al futuro, alle vittime e agli ultimi, recuperando la tensione apocalittica che proietta il presente verso il compimento messianico. La fede, così, non si riduce né a fatto privato né a compromesso sociale, ma diventa impegno vivo che orienta la storia e chiede responsabilità concreta, dentro la comunità e per la comunità.
Ruggieri raccoglie questa lezione e insiste su un punto decisivo: la fede cristiana è compagnia, non dominio sull’altro. Il primato appartiene al fatto cristiano, all’evento storico della rivelazione in Gesù, che precede ogni costruzione antropologica e la fonda. Per questo, la teologia – anche quando ripercorre le dispute apologetiche del passato – non è esercizio archeologico, ma ricerca di come l’evento di Cristo possa diventare oggi parola viva e trasformatrice. L’uomo contemporaneo, segnato dalla frammentazione e dalla perdita di riferimenti comuni, non chiede una filosofia religiosa, ma cerca di poter credere che la vita abbia ancora un senso, che l’amore sia possibile, che la speranza non sia un’illusione.
È qui che la Chiesa può testimoniare che questo senso ha preso volto in Cristo, l’Uomo nel quale ogni frammento umano trova casa.
Non si tratta di stabilire quale filosofia o quale sapere sia “degno” di dialogare con la fede, ma di verificare se nella fede stessa esista la capacità di aprirsi all’altro. E questa capacità non nasce da un artificio intellettuale, ma dall’evento stesso dell’incarnazione: Dio non ha escluso nulla del nostro umano, e quindi anche la Chiesa con i suoi pastori, non può escludere nulla di ciò che appartiene alla vicenda umana.
La centralità di Cristo nella vita del presbitero
Il presbitero, configurato sacramentalmente a Cristo capo e pastore, non è anzitutto un individuo isolato investito di poteri sacri, ma membro vivo di un corpo più grande: il presbiterio, che nella comunione con il vescovo e in mezzo al popolo santo di Dio diventa segno della presenza del Risorto. L’identità sacerdotale non nasce dalla somma delle funzioni esercitate, ma dalla relazione vitale con Cristo e dall’inserimento ecclesiale di tale relazione. Senza Cristo, il presbitero rischia di ridursi a funzionario del sacro o a operatore sociale; con Cristo, e in comunione con i fratelli, diventa sacramento vivente della sua presenza, compagno e testimone di speranza.
La pastorale, allora, non si misura dal numero delle iniziative, ma dalla capacità di rendere Cristo presente: nella predicazione che apre il cuore al Vangelo, nella celebrazione dei sacramenti che rende visibile la grazia, nella carità quotidiana che si traduce in gesti concreti di vicinanza e cura. Come ricordava Henri de Lubac, «la Chiesa non ha altra vita se non quella che riceve da Cristo»[11]; e tale vita, ricevuta, non si esaurisce nel singolo ministro, ma si irradia nella comunione ecclesiale, generando comunità capaci di speranza e di fraternità.
La risurrezione del Signore inaugura un tempo nuovo: non l’attesa passiva della parusia, ma un presente da abitare come missione. È il tempo della compagnia: non della conquista né del proselitismo, ma del camminare insieme, con pazienza e rispetto, accogliendo le differenze senza annullarle. Lo Spirito guida la Chiesa a essere metafora vivente della riconciliazione, testimone di un amore che non si impone ma si offre, che non domina ma accompagna, che non uniforma ma armonizza.
Qui si radica la duplice fedeltà del presbitero: fedeltà all’evento rigeneratore della croce, che plasma continuamente la sua vita, e fedeltà alla storia concreta degli uomini, con le sue speranze e ferite, le sue domande e contraddizioni. La sequela di Cristo non si gioca in un progetto astratto o in un ideale etico-politico predefinito, ma in incontri concreti: con i poveri, i sofferenti, i lontani, i cercatori di senso. Ogni gesto pastorale diventa così un frammento di quella compagnia che Cristo ha promesso di non far mai mancare: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
In questo cammino, la perseveranza – l’hypomoné – si rivela come stile spirituale ed ecclesiale: restare sotto il peso della storia senza fuggirla, portare il carico delle diversità senza rassegnazione, sostenere la distanza dell’altro come spazio in cui la speranza si fa più forte. Non è rassegnazione, ma fiducia: la certezza che proprio nell’attesa, nel camminare insieme e nel non abbandonare nessuno, si manifesta la potenza del Risorto.
Il presbitero, allora, non è un solitario che rappresenta Cristo per delega, ma un fratello che, insieme ad altri fratelli, diventa trasparenza della sua presenza. La sua vita, unita a quella degli altri presbiteri e immersa nella comunione ecclesiale, diventa segno credibile che Cristo continua a camminare con il suo popolo, trasformando la fatica quotidiana in testimonianza e l’attesa in speranza operosa.
Orientamenti pastorali: vivere la compagnia del Risorto
Dalla riflessione teologica emergono alcune coordinate per la vita pastorale.
Anzitutto, la centralità di Cristo: ogni azione ecclesiale trova senso solo se conduce a Lui. Senza questa prospettiva, la pastorale si riduce a organizzazione.
Secondo, la fraternità presbiterale: nessun prete può vivere da solo. La comunione tra presbiteri e con il vescovo è testimonianza viva dell’unità della Chiesa.
Terzo, l’apertura missionaria: non come attivismo, ma come sguardo evangelico sulla storia. La missione non consiste nel “fare di più”, ma nel “vivere meglio”, lasciando che lo Spirito apra strade nuove nella concretezza dei territori.
Infine, la speranza: una speranza operosa, che sa sostare accanto alle attese e alle ferite del popolo, credendo che il Regno cresce anche nel silenzio e nell’invisibilità.
Il presbitero che vive così diventa icona di Cristo presente: la sua vita si fa Vangelo narrato, eucaristia celebrata, carità condivisa.
La speranza che si fa compagnia
Dalla riflessione emerge con chiarezza che il ministero presbiterale non può essere ridotto a funzioni, doveri o prestazioni rituali: esso trova il suo senso e la sua efficacia nella relazione vitale con Cristo e nella capacità di rendere presente la sua misericordia e la sua giustizia nella storia. Ogni azione pastorale, ogni parola pronunciata, ogni gesto compiuto, diventa occasione per testimoniare il mistero della salvezza, per incarnare l’amore di Dio in contesti concreti, spesso segnati dall’incertezza, dalla fragilità e dalla sofferenza umana.
La centralità del Risorto orienta la pastorale, invita alla compagnia e al dialogo con l’altro, apre a gesti concreti di solidarietà e di riconciliazione, e sostiene la speranza laddove la società e la cultura contemporanea tenderebbero a frammentare la vita delle persone e delle comunità. Proprio in questa prospettiva, il ministero presbiterale non è mai espressione isolata: esso nasce dalla Chiesa e rimane radicato nella comunione, tanto con il vescovo quanto con il presbiterio e con l’intero popolo di Dio. La grazia sacramentale, infatti, plasma i presbiteri come membra vive di un unico corpo, chiamati a condividere non solo la missione, ma anche la fraternità che la rende credibile.
Il presbitero, configurato a Cristo capo e pastore, è chiamato a una duplice fedeltà: alla testimonianza del mistero della salvezza e all’impegno fattivo nella storia. Questa duplice fedeltà implica che la vita sacerdotale non si limiti all’accoglienza di ideali o principi astratti, ma sappia tradurre la fede in esperienze concrete, trasformative e relazionali. In questa tensione, la pastorale diventa incarnazione del logos della fede: non una dottrina da trasmettere acriticamente, ma un cammino vivo che dialoga con la diversità, accoglie l’altro senza annullarlo, sostiene la differenza senza uniformare e genera comunione senza cancellare la peculiarità dei singoli.
L’esperienza di Cristo come presenza viva ispira il presbitero a coltivare la memoria della fede, a narrare la storia della salvezza e a farne occasione di solidarietà concreta, come ricordano le riflessioni di Ruggieri, Guglielmi e Metz. La memoria e la narrazione diventano strumenti per sostenere la speranza e la resilienza delle comunità, mentre la solidarietà si manifesta come prassi concreta, radicata nell’evento pasquale e orientata al futuro messianico. In tal modo, il ministero sacerdotale diventa un esercizio di compagnia: un accompagnamento che non si limita a gestire bisogni o problemi, ma si fa presenza misericordiosa e attenta, capace di valorizzare l’altro nella sua specificità e di sostenere la sua autonomia di fronte a Dio.
In ultima istanza, la vita presbiterale è un continuo esercizio di hypomoné e speranza: un cammino di paziente attesa e di impegno responsabile, che consente di abitare la storia come luogo di incontro con Dio e di accompagnamento degli uomini. Essa implica la capacità di portare il peso della diversità, del conflitto, delle incomprensioni e delle tensioni sociali senza cedere alla rassegnazione, restando fedeli alla chiamata di Cristo. Ogni gesto pastorale, ogni scelta etica, ogni parola di consolazione o di incoraggiamento, diventa occasione di testimonianza e di presenza viva del Cristo che continua a camminare con la sua Chiesa, sostenendo i presbiteri nella loro missione e offrendo al mondo una testimonianza di amore che non si esaurisce nei programmi, ma vive nella relazione quotidiana con le persone.
[1] G. Guglielmi, Fare teologia dentro la storia. Il contributo di Giuseppe Ruggieri, Rubbettino, 2018.
[2] G. Ruggieri, Chiamati alla verità. Saggi sulla responsabilità della fede e della teologia, Jaca Book, Milano 1975.
[3] Sant’Atanasio di Alessandria, De Incarnatione Verbi, 54,3
[4] G. Ruggieri, La compagnia della fede, Marietti, Casale Monferrato 1980.
[5] K. Rahner, Scritti teologici, Milano 1969.
[6] G. Ruggieri, La verità crocifissa, Cittadella, Assisi 2018.
[7] G. Guglielmi, Fare teologia dentro la storia, pag. 55.
[8] G. Guglielmi, Fare teologia dentro la storia, pag. 38.
[9] J.B. Metz, Memoria passionis. Una teologia della storia, Queriniana, Brescia 1978.
[10] Cf. G. Guglielmi, Fare teologia dentro la storia, pag. 148.
[11] Henry de Lubac, in Paradosso e mistero della Chiesa Jaca Book, 1997.






Potrei aggiungere un altro orientamento pastorale.. che è proprio di Cristo Gesù.. annunciare il Regno di Dio.
” Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà.. Eccolo qui.. oppure Eccolo là.. perché il Regno di Dio è in mezzo a voi ! ”
Avete mai pensato che si possano ripetere oggi queste parole?
Egregio Fabrizio Mastrofini,
ringrazio sinceramente per la lettura attenta e per le domande poste, che toccano questioni centrali del linguaggio e dell’esperienza ecclesiale.
Quando scrivo che «il presbitero, configurato sacramentalmente a Cristo capo e pastore, non è un individuo isolato investito di poteri sacri, ma membro vivo di un corpo più grande», non intendo delineare una figura astratta o idealizzata del presbitero. Al contrario, desidero
ricordare che il ministero presbiterale nasce e vive dentro il Popolo di Dio, non sopra di esso né al suo margine.
Tutti noi, presbiteri e laici, siamo Popolo di Dio per la stessa dignità battesimale. Non esiste una “classe sacerdotale” distinta dal resto della Chiesa: il presbitero non è “il” rappresentante del Risorto invece del popolo, ma con il popolo e dentro il popolo. Il sacramento dell’Ordine non colloca fuori dal corpo ecclesiale, ma dentro di esso, a servizio della comunione e della missione comune. È questo che intendevo dire quando affermavo che il presbitero è parte viva del presbiterio e del Popolo santo di Dio.
Parlare di “Popolo santo” non è idealizzare la comunità, ma usare il linguaggio biblico e conciliare: la santità, nella Scrittura, non designa la perfezione morale ma l’appartenenza a Dio. È un modo per dire che ogni battezzato, nella sua storia concreta, è portatore della presenza del Risorto.
Quanto alla parte storica, è vero: il Concilio di Nicea è un evento complesso, e le sue vicende – dall’arianesimo alle successive revisioni dottrinali – meritano letture storiche articolate. Ma la prospettiva dell’articolo non era quella dello storico, bensì di una non esaustiva lettura teologica che, a partire da quell’evento, cerca di comprendere il senso attuale della fede in Cristo vero Dio e vero uomo. Non era dunque mio intento offrire una sintesi completa delle decisioni conciliari, né affrontare temi importanti come le diaconesse o il canone 8, che meriterebbero riflessioni proprie.
Il riferimento a Nicea voleva piuttosto suggerire una domanda: che cosa significa oggi confessare Cristo come il Vivente, capace di unire in sé divino e umano, trascendenza e storia?
E come questa fede può rinnovare il modo di vivere il ministero e la comunione ecclesiale?
In questo senso, il linguaggio teologico – pur esigente – non vuole astrarre dalla realtà, ma offrirle profondità. Parlare di Cristo come centro del ministero non è autoesaltazione clericale, ma riconoscere che nessuno, da solo, può essere segno del Vangelo: solo insieme, come Popolo di Dio, possiamo riflettere il volto del Risorto.
Se un testo suscita domande, allora la teologia ha fatto il suo mestiere: quello di aprire spazi di confronto e di ricerca nella fede.
La divisione tra il clero e il “laicato” che ha preso il via dalla Chiesa Imperialista durato 17 secoli, dove il sacerdozio ha sostituito il presbiterato è stata deleteria per il cristianesimo. Il CVII ha dato un impulso al rinnovamento e alla riforma ecclesiale che con papa Francesco è stato rimarcato, ma come possiamo constatare (senza giudizio ma con onestà intellettuale) bisogna osservare che la mentalità Imperialista anche se storicamente terminata non è per niente finita e questo articolo lo mette in evidenza: abbiamo il corpo sacerdotale e il corpo del popolo santo (?) Insomma una lotta corpo a corpo. Nell’articolo manca un punto che è e diventerà sempre più cruciale: la comunità di vita nella quale il presbitero esercita un ministero insieme ad altri “ministri”, è così che il presbitero sarebbe inserito normalmente nel popolo di Dio e non un funzionario del sacro. Comunque in un articolo di Chiesa è già importante notare che il termine “presbitero” viene apprezzato più del termine “sacerdote”. Buona giornata.
Chiedo alla redazione: come mai questo testo? Prendo una frase: “Il presbitero, configurato sacramentalmente a Cristo capo e pastore, non è anzitutto un individuo isolato investito di poteri sacri, ma membro vivo di un corpo più grande: il presbiterio, che nella comunione con il vescovo e in mezzo al popolo santo di Dio diventa segno della presenza del Risorto”. Ma che vuol dire in italiano corrente? Esprime una idealizzazione fuori dalla realtà. E fa capire il vero problema del sacerdozio e dei sacerdoti: considerarsi di più, vedere se stessi come guide, sentirsi ispirati chissà come e non fare mai autocritica o chiedersi che senso abbia il loro comportamento: “popolo santo”, ma quando mai… E’ una visione dogmatica, statica, irreale. La descrizione di Nicea che fa l’articolista è stantia. Parla di Ario, ma ha mai letto il saggio di Simonetti? La ‘crisi ariana’ nasce da un equivoco e la vicenda storica lo dimostra (prima estromesso, poi riammesso…con il tutto ‘inquinato’ dall’ingerenza dell’imperatore…). Poi non dimentichiamo che il Credo recitato oggi a Messa è quello Niceno-Costantinopolitano, cioè rivisto 50 anni dopo Nicea. Dunque i dettami di un Concilio si possono rivedere e aggiornare. E poi a Nicea si è detto molto di più, e qui nell’articolo si tace sulle diaconesse, e sui divorziati risposati del canone 8. Insomma un articolo lungo e fuori tempo. La domanda è per la redazione: a che serve?