Gli indirizzi CEI sull’insegnamento della religione

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Foto di Illia Horokhovsky su Unsplash.

A 35 anni dall’ultimo, la CEI approverà un nuovo atto d’indirizzo riguardo l’IRC. In attesa di conoscerlo, si possono formulare solo auspici e speranze – dato che è stato elaborato quasi completamente all’interno degli ambiti CEI, senza una interlocuzione sinodale con quella parte del popolo di Dio interessata in prima persona: i giovani e le giovani che frequentano le scuole italiane, da un lato, e gli insegnanti di religione cattolica, dall’altro.

Dal 17 al 20 novembre si terrà ad Assisi l’81ª assemblea generale della CEI. Secondo l’ordine del giorno che è stato comunicato (cf. qui), è prevista l’approvazione del documento “L’insegnamento della religione cattolica: laboratorio di cultura e dialogo”.

Il titolo è promettente, soprattutto se pensiamo alle recenti delusioni a proposito del mondo della scuola causate dal documento di sintesi del cammino sinodale (cf. qui e qui). Mi chiedo, però, se tale approvazione (che vedrà una vera discussione in assemblea?) giunga al termine di un percorso veramente sinodale.

È vero che di solito questi testi vengono esaminati solo dalle conferenze episcopali regionali e dagli organismi CEI interessati. Ma è anche vero che un documento d’indirizzo dall’oggetto estremamente complesso e coinvolgente qualche milione di italiani (giovani e adulti), uscendo a ben 34 anni di distanza dall’ultimo analogo, avrebbe di certo meritato una riflessione più ampia e condivisa con i diretti interessati.

In attesa di conoscerlo, dato che siamo ancora nell’anno giubilare della speranza, vorrei esprimere tre speranze.

La speranza educativa e teologico-culturale

La prima riguarda la specificità educativa e culturale dell’IRC – che è anche ciò che ne garantisce la laicità. Spero che essa venga ribadita ad ogni piè sospinto, a partire da quella culturale, purtroppo sempre facilmente dimenticata o incompresa (innanzitutto nei suoi aspetti di inculturazione e di mediazione teologica) rispetto a quella educativa (a sua volta spesso ridotta a mera trasmissione di valori).

Così come spero risulti chiaro che la scuola, dalle cui finalità l’IRC non può discostarsi, è caratterizzata da un’autonomia rispetto al territorio che, pur nell’auspicata collaborazione, resta ultima e decisiva. Gli insegnanti e l’istituto scolastico sono e dovrebbero restare coloro che decidono o meglio fanno discerninimento, senza alcuna pressione, della qualità e della bontà di qualsiasi proposta che dall’esterno voglia inserirsi nelle aule scolastiche.

Purtroppo, da tante segnalazioni ricevute, si comprende che è ancora attuale la necessità di bloccare sul nascere qualsiasi equivoco “pastoralista” o “catechizzante” riguardo l’impegno degli IdR nella comunità ecclesiale o il loro ruolo di mediatori (culturali e testimoniali) tra quest’ultima e il mondo scuola.

Equivoco che, seppur ammantato sotto parole come valorizzazione, rischia di concretizzare l’impegno e il ruolo in questione secondo modalità e obiettivi tali da non rispettare la specificità educativo-culturale dell’IRC.

La speranza dialogica ed ecumenico-interreligiosa

La seconda speranza consiste nell’auspicio che l’apertura e la dialogicità intrinseca all’IRC non venga solo evocata genericamente, ma sia esplicitata puntualmente nella sua dimensione interna – di pluralismo ecclesiale – e in quella esterna – di dialogo ecumenico, interreligioso, interculturale e con il mondo secolarizzato.

L’eventuale assenza di ogni riferimento specifico a tali dimensioni, magari privilegiando solo quelle dell’unità e della comunione, oppure un riferimento soltanto generico a futuri aggiornamenti metodologici e di contenuto, costituirebbe un’occasione persa (forse per colpa grave) in un contesto sempre più multiculturale, sia per la crescente presenza in Italia di stranieri (o cittadini) appartenenti ad altre religioni, sia per la crescente polarizzazione e conflittualità dentro e fuori la Chiesa.

La stessa secolarizzazione o indifferenza religiosa è ormai in ritirata rispetto alle nuove forme di religioso e di spiritualità che emergono e a quello che già dieci anni fa definivo (qui) opinionismo. Nel caso tutto ciò non fosse stato colto, si rischierebbe di ridurre parole bellissime come dialogo e confronto (con i mondi della cultura odierna che abitano la scuola) a mere bandierine di “buonismo dolciastro” da sventolare sì, ma senza alcuna ricaduta pratica innovativa. Giustificando chi afferma, secondo me esagerando, che l’IRC attuale sarebbe del tutto carente da questo punto di vista.

Anche per questo spero che, nei percorsi formativi, si osi qualche passo in più in termini di ospitalità e scambio di doni tra “Chiese sorelle” e “religioni parenti” – oltre alle encomiabili schede su ebraismo e islamismo di recente prodotte – affinché l’IRC si approfondisca sempre di più nelle sue potenzialità (già reali) di disciplina aperta al dialogo interconfessionale, interreligioso e interculturale (vedi qui).

La speranza della parresia in tema di crisi

La terza e ultima speranza è affidata alla virtù della parresia: che gli aspetti critici – di crisi – e di difficoltà che emergono dentro e intorno all’IRC e alla scuola non vengano nascosti come la polvere sotto il tappeto, ma siano almeno nominati in modo preciso e adeguato:

  1. una burocratizzazione imposta e indesiderata con la quale, di certo, non si collude quasi fosse una sorta di comfort zone, ma che anzi divora voracemente la didattica mattutina e i tempi pomeridiani di studio e di riposo con iniziative di aggiornamento, orientamento, pcto/scuola-lavoro sempre calate dall’alto e spesso rispondenti ad interessi ormai palesemente economici, quando invece bisognerebbe “puntare molto” su forme laboratoriali tra pari dove viga, finché è possibile, la condivisione gratuita delle scoperte personali in termini di nuovi linguaggi, nuove inculturazioni (o mediazioni teologiche) del kerygma, nuove buone pratiche;
  2. l’esplosione del conflitto tra conoscenze (spesso ridotte a nozionismi non significativi) e competenze (ormai intese solo in senso economicista e non personalista), che lascia sul campo i “cadaveri” del passato (ridotto a inutile ferrovecchio), del futuro (ridotto a prestazione sempre performante) e del presente (illeggibile nei suoi segni dei tempi e perciò solo consumabile);
  3. una deriva paternalista riassunta dall’affermazione dilagante della categoria pedagogica dell’accompagnamento, in quanto tale incapace di essere presenza discreta (perché troppo vicina, quasi invasiva) e al contempo decisiva (perché troppo elusiva o troppo collusiva);
  4. la sottovalutazione dell’impatto devastante che social e IA stanno avendo a livello neurologico e quindi di capacità di pensare dei giovani, non contenibile certo da generici inviti ad una gestione più etica dei presunti mezzi (che tali non sono) tecnologici;
  5. il disagio esistenziale giovanile e la crisi “anoressica” delle domande di senso alla quale non si può più rispondere con la riproposizione del “pannicello caldo” delle risposte precotte o riverniciate, soprattutto senza analisi delle cause strutturali/“oikonomiche” di tale crisi e senza consapevolezza di ciò che stanno operando nella psiche profonda dei nostri giovani le grandi esperienze di morte sottese agli eventi della pandemia e della terza guerra mondiale a pezzi;
  6. il grande bluff schizofrenico della pseudo-disciplina “Educazione civica”, con cui lo Stato ci chiede, ad esempio, di insegnare il dialogo con tutti, tutti, tutti mentre, nel frattempo, in nome di enti sovranazionali, non fa nulla per non condurre a odiarsi tra di loro molti di questi tutti.

Di tale profonda crisi spero si sia dato adeguato rendiconto nel testo della CEI, onde evitare che la cosiddetta “doppia appartenenza” (Stato-Chiesa) o la “tuttologia” (in termini didattici, relazionali, giuridici e pedagogici) richiesta agli IdR non finisca per produrre o accelerare, soprattutto in quelli più giudiziosi – ossia il 99,9% – un precoce burnout. Quando invece sarebbe necessario e possibile un graduale miglioramento di molti di questi punti, anche solo guardando alle esperienze più riuscite nel contesto europeo.

Molte parole pochi fatti

Alla luce di questa triplice speranza, rischierebbe di farmi disperare il leggere l’ennesima rassicurazione formale di una vicinanza e di un sostegno, anche pieni di gratitudine, da parte della comunità ecclesiale, a partire dalla gerarchia, per poi non vedere realizzato alcun intervento migliorativo degli oneri (in eccesso ormai rispetto agli onori) e della marginalità o debolezza (sempre maggiore di fatto e di diritto) connessi all’IRC.

Anche perché dal 2012 (anno della nota sentenza del TAR del Molise – ndr) al 2022 abbiamo dovuto difenderci da leggi (sulla c.d. “Buona Scuola” e sui concorsi per IdR), orientamenti giurisprudenziali (sulla libertà di scelta e sulla valutazione) e ignoranza o disapplicazione pratica quotidiana della normativa (sull’IRC), per evitare o correggere i quali nulla è stato fatto – al di fuori del popolo degli insegnanti di religione – se non da poche persone tra i vescovi, i presbiteri, gli studiosi, i sindacalisti e i giornalisti.

Con la conseguenza che, mutuando le parole di Fabrizio De André, se poi “la passione o la dedizione svanisce e la qualità non rimane”, la responsabilità di ciò non potrà essere attribuita a persone che non vogliono essere più così ingenue e idealiste da giocare ancora al gioco degli eroi, con le loro postume medaglie alla memoria. Ma, eventualmente, così astute e realiste da voler essere dichiarate, con tutti i “benefit” del caso, sante subito.

D’altronde, oggi, solo la santità (subito però!) potrebbe funzionare quale orizzonte per l’auspicato – anche dal cammino sinodale italiano (§ 53, lett.b) – rilancio della vocazione educativa alla professione dell’insegnamento…

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6 Commenti

  1. Giuseppe 17 novembre 2025
    • Gregorio 17 novembre 2025
  2. Fabio Cittadini 15 novembre 2025
    • Gregorio 17 novembre 2025
  3. 68ina felice 15 novembre 2025
    • Maria Cristina 16 novembre 2025

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