
Alessandro Rosina è professore ordinario di Demografia e Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e coordinatore scientifico dell’Osservatorio permanente sulle nuove generazioni promosso dall’Istituto G. Toniolo in collaborazione con Fondazione Cariplo. Ha appena pubblicato per Chiarelettere un libro su un tema cruciale: le implicazioni sociali della crisi demografica. Il libro si chiama La scomparsa dei giovani. Le 10 mappe che spiegano il declino demografico dell’Italia. Ha accettato di scrivere per Appunti un pezzo per presentarne le tesi.
Nelle società tradizionali del passato i giovani erano la parte più consistente della popolazione. La transizione demografica, nella sua prima fase, ha reso ancora più numerose le nuove generazioni grazie alla riduzione della mortalità in età infantile e giovanile; in fase avanzata tende invece a far prevalere la popolazione anziana, perché i guadagni di sopravvivenza si spostano nelle età più mature e perché si riduce la fecondità.
L’Italia, insieme al resto del mondo occidentale, ha vissuto la sua fase di maggior spinta alla crescita – favorita dal passaggio dall’economia agricola a quella industriale e dall’abbondante presenza di giovani – nei primi decenni del secondo dopoguerra. Una fase di riempimento materiale e simbolico che ha creato una società con accesso aperto al benessere di massa.
La fase con impatto più favorevole della demografia sull’economia è nota come «dividendo demografico». Corrisponde alla situazione in cui la base demografica si restringe, ma le generazioni più consistenti sono ancora in piena età lavorativa.
Si perde tale dividendo nel momento in cui le coorti nate quando il tasso di fecondità era sensibilmente superiore ai due figli per donna entrano in età anziana e sono sostituite in età adulta da quelle successive, nate quando si è scesi attorno o sotto la soglia di equilibrio generazionale.

Il caso Italia
Tutti i Paesi nella fase più avanzata della transizione demografica si trovano in una condizione nuova, che impone la necessità di ripensare il modello di sviluppo con una popolazione che non cresce e si va sbilanciando verso le età più mature.
L’Italia, però, si è scoperta più fragile nel gestire questo passaggio storico con la conseguenza che la transizione si è trasformata in crisi demografica: meno degli altri Paesi, ciò che non funzionava del secolo precedente è diventato spazio strategico per il nuovo, cogliendo le opportunità delle sfide dei cambiamenti di questo secolo.
Lo svuotamento della popolazione al centro dell’età lavorativa può efficacemente essere misurato dal confronto tra gli attuali 45-49enni, che nel 2050 saranno in età anziana, con i 20-24enni di oggi, che nel 2050 avranno 45-49 anni.
I dati sono i seguenti: oggi i 20-24enni sono meno di 3 milioni, i 45-49enni sono circa 4,2 milioni. Secondo lo scenario mediano delle previsioni Istat gli attuali 20-24 saliranno, grazie ai flussi migratori, a poco meno di 3,5 milioni quando nel 2050 avranno 45-49 anni. L’immigrazione potrà, pertanto, limitare in parte la perdita di popolazione in età lavorativa.
Va inoltre considerato che le generazioni demograficamente più consistenti, quelle che attualmente hanno dai 50 anni in su, arriveranno a 75 anni e oltre nel prossimo quarto di secolo. Questo farà sì che l’età demograficamente più popolosa sarà quella dei 75enni: secondo le previsioni saranno oltre 800 mila, mentre sotto i 65 anni la popolazione in ogni singola età sarà inferiore a 700 mila; sotto i 35 anni si scenderà a meno di 600 mila e sotto i 25 anni non si arriverà a 450 mila.
Questo svuotamento sotto i 75 anni e, in particolare, nelle età lavorative centrali, sarà più accentuato in Italia rispetto ai paesi con i quali ci confrontiamo. Il rapporto tra 20-24enni e 45-49enni è pari al 95 per cento in Francia e attorno al 90 per cento in Germania; la media dell’Unione europea è sopra il 75 per cento, mentre è del 67 per cento in Italia.
I dati Istat indicano una popolazione nel 2025 tra i 25 e i 34 anni attorno a circa 6,3 milioni di individui, pari al 10,6 per cento della popolazione totale. Negli ultimi vent’anni questa fascia è diminuita di 2,3 milioni, passando dagli oltre 8,6 milioni del 2004 (quando rappresentava quasi il 15 per cento della popolazione totale) ai livelli attuali. Mai, nella storia recente del nostro paese, la popolazione in ingresso nella vita adulta è stata così numericamente esigua.
Gli occupati nella stessa fascia d’età, come mostrano i dati del Rapporto CNEL Demografia e Forza lavoro, sono scesi da oltre 6 milioni a circa 4,2 milioni. In termini relativi, la quota dei giovani-adulti tra i lavoratori è diminuita dal 27,1 per cento al 17,8 per cento.
Una riduzione che evidenzia non solo il calo quantitativo delle nuove generazioni – più marcato rispetto alla media europea – ma rivela anche l’incapacità del paese di adottare strategie efficaci per compensare la contrazione demografica con miglior ingresso e peso nel mondo del lavoro.
L’indicatore che misura il rapporto tra anziani e popolazione in età attiva, chiamato “indice di dipendenza anziani”, è tra quelli che stanno ricevendo più attenzione da parte delle economie mature avanzate.
Se tale rapporto aumenta significa che nella bilancia demografica il peso si sposta dal piatto dell’età in cui si fa crescere l’economia (e si fa funzionare il sistema di welfare) a quello dell’età in cui maggiormente si assorbono risorse pubbliche per salute, assistenza e pensioni.
Se fino agli anni più recenti ad alimentare la crescita dell’indice di dipendenza degli anziani è stato soprattutto l’aumento del numeratore (le persone di 65 anni e oltre), da qualche anno a contribuire alla spinta verso l’alto è sempre più la riduzione del denominatore (le persone in età da lavoro). Aumenta, insomma, l’azione del degiovanimento (riduzione dei giovani) rispetto a quella dell’invecchiamento in senso proprio (aumento degli anziani).
L’Ue-27 deve prepararsi a rendere sostenibile un rapporto tra gli over 65 e la fascia 20-64 che arriverà a superare il 50 per cento nel 2045. Il tasso di dipendenza degli anziani è già attualmente oltre il 40 per cento per l’Italia e, secondo le previsioni Eurostat, rimarrà sopra la media europea assestandosi attorno al 66 per cento nel 2070.
Se si mette direttamente in relazione chi è in pensione con chi lavora («indice di dipendenza economica»), il carico risulta superiore al 60 per cento in Italia ed è in assoluto il peggiore in Europa (la media UE è inferiore di 15 punti percentuali), con la prospettiva di arrivare all’80 per cento nel 2070 (il valore più alto con Grecia e Portogallo).
Si tratta di un dato che condannerebbe il nostro Paese a una condizione di svantaggio competitivo rispetto agli altri paesi con cui ci confrontiamo, con un maggior vincolo alla crescita e alla sostenibilità del sistema di welfare pubblico.
A fronte delle dinamiche sin qui descritte, che stanno portando, appunto, a un inedito indebolimento della forza lavoro potenziale, diventa strategico l’uso efficiente della popolazione in età attiva.
Va soprattutto riconosciuto che gli squilibri quantitativi e qualitativi si rafforzano reciprocamente, creando un circolo vizioso.
Da un lato, la riduzione numerica delle giovani generazioni limita la capacità di finanziare il sistema di welfare pubblico, farlo funzionare con adeguato personale, rispondere ai fabbisogni delle imprese.
Dall’altro, il basso investimento nella qualità dei percorsi formativi e professionali delle nuove generazioni indebolisce ulteriormente la loro capacità di contribuire ai processi di innovazione e sviluppo, oltre che la possibilità di realizzare i propri progetti di vita e mettere le basi di una solida lunga vita attiva.
Questo quadro, se non affrontato, rischia di compromettere la capacità dell’Italia di attrarre e trattenere giovani talenti, aggravando ulteriormente il degiovanimento del paese e gli squilibri demografici.
La stessa immigrazione, fondamentale per compensare la difficoltà di trovare manodopera in molti settori, produce effetti positivi su produttività e natalità se si investe in integrazione, in politiche abitative e misure di conciliazione.
Non ci sono soluzioni facili
Non manca oggi chi pensa che tali squilibri possano trovare meccanicamente risposta con l’automazione e l’intelligenza artificiale. Resta il fatto che Giappone, Corea del Sud e la stessa Cina, pur investendo molto più dell’Italia su formazione e innovazione sono fortemente preoccupati per la loro crisi demografica.
È molto più verosimile che, se si va verso il quadro qui sopra delineato, siano piuttosto i giovani, indipendentemente dalla nascita, a riallocarsi nei Paesi meno sbilanciati nel rapporto tra generazioni, in grado di fornire un sistema di welfare più solido, con maggiori prospettive di valorizzazione delle competenze avanzate nei settori più innovativi e dinamici.
Detto in altre parole, se non si mettono in campo politiche trasformative, in grado di dare nuova direzione al Paese, la prospettiva non è la deriva della nave Italia – senza più margini di manovra e quindi ingovernabile – ma l’affondamento per lo sbilanciamento del carico che la rende instabile e sempre più esposta al rischio di rovesciarsi alla prima tempesta esterna. Nel momento del «si salvi chi può» i pochi giovani rimasti potranno andarsene.
Il destino peggiore è quello degli anziani. Un paese senza anziani ha difficoltà a funzionare perché manca l’esperienza, ma un paese senza giovani semplicemente collassa.
Occorre acquisire solidamente la consapevolezza che si può vivere dignitosamente nelle fasi più avanzate solo se si possono attraversare bene tutte le età della vita e se rimane solido il rapporto tra generazioni. Proprio da questa considerazione è necessario partire per la costruzione di uno scenario alternativo, sostenibile e coerente con i processi di cambiamento di questo secolo.
Entrare nella seconda metà del XXI secolo con un Paese che non subisce passivamente l’inerzia demografica negativa ma nel quale le scelte, l’impegno e la formazione portano a un miglioramento della qualità di vita e lavorativa che riduce l’impatto negativo degli squilibri demografici attuali e futuri (rendendo più sostenibile il rapporto tra generazioni), è ancora possibile.
Non è attualmente lo scenario più probabile, ma è anche vero che la possibilità che si realizzi dipende dalle scelte individuali e collettive dei cittadini italiani, non da eventi esterni.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 10 novembre 2025







In una situazione come quella descritta non c’è da stupirsi se in Italia i giovani sono meno degli anziani e la denatalità è in calo: se i giovani non hanno prospettive occupazionali stabili e concrete, è ovvio che non possono mettere su famiglia, sarebbe da incoscienti. Non dimentichiamo, poi, che molti ragazzi lasciano l’Italia per stabilirsi in Paesi che garantiscono loro opportunità migliori, è giusto così. In un quadro del genere non vedo cosa c’entri l’aborto, che comunque resta giustamente un diritto della donna.
Chissà come avranno fatto nel dopoguerra con tutto da ricostruire…
In ogni caso è un fenomeno destinato a durare a lungo perchè ogni anno diminuisce il numero delle donne in età fertile non solo l’indice di riproduzione per donna.
Ad oggi “solo una persona su 15 in Italia è adolescente (gli over 65 sono uno su 4)”
Direi che il commento di Una donna ha toccato il nocciolo della questione.
Proprio perchè quello del dopoguerra era un mondo da ricostruire, con un futuro da immaginare, che bisognava fare figli. Un periodo segnato anche da forti cambiamenti sociali e tecnologici, con tutte le nuove opportunità che una ricostruzione comportava. Indiscutibili i sacrifici, ma almeno il contesto permetteva di raccoglierne i frutti. Basti pensare alla ripresa economica successiva alla Peste Nera: popolazione dimezzata, posti di lavoro vuoti, eredità lasciate ai sopravvissuti, con conseguente riassetto demografico, salari aumentati e la nascita di un intero nuovo sistema capitalistico. I problemi arrivano quando tale mondo si satura, la corsa rallenta o si ferma, e non c’è più molto futuro da immaginare. Un esempio è il Giappone, con la sua ripresa, modernizzazione, boom economico post-1945 che portò a una bolla di sviluppo che, alla fine, scoppiò con tutte le conseguenze del caso di cui soffrono ancora oggi i giovani giapponesi. Oggi la classe media è praticamente inesistente, chissà perchè. Oggi è gia tanto arrivare a fine mese, e vivere da soli è praticamente impossibile, già in coppia si fa fatica, anche solo ottenere una casa. Sicuramente l’epoca dei baby pensionati, delle seconde case, delle feste fuori e delle vacanze di due, tre settimane, dei vestiti firmati è finita. Almeno in Italia, sebbene anche all’estero non sia tutto rosa e fiori, neanche la Germania è più la stessa. Ma tant’è…
La transizione demografica avviene con il miglioramento delle condizioni di vita, in tutti i paesi. Anche gli immigrati infatti tendono ad adeguarsi allo stile di vita del paese ospitante.
L’aborto è una tragedia sia che sia legale o illegale, sempre. Non penalizzare le donne è stata una legge di civiltà. La denatalità è causata da molti fattori, prima di tutto dalla crisi della famiglia che in questi decenni ha fatto molti danni.
E soprattutto le crisi economiche e l’incapacità politica di limitarne gli esiti nefasti. Una politica che guarda al proprio interesse ed al potere fine a se stesso, ha cambiato il volto della società rendendola sempre più fragile.
Lei scrive “Non penalizzare le donne è stata una legge di civiltà” dimenticando che la metà (circa) dei nascituri che vengono soppressi sono di sesso femminile.
Anche prima della legge era così, dopo la legge almeno non c’era più il rischio per una donna di finire in carcere. Ma soprattutto di non finire preda della “mammane” che spesso le mettevano a rischio della vita. Non calcoliamo le donne che sono morte per pratiche abortive illegali? Non discuto sul fatto che lei possa non essere d’accordo sull’aborto ma nessuna donna abortisce con “leggerezza” e, mi scusi, da uomo credo le riesca più difficile immedesimarsi in una donna che abortisce e capire quanto sia difficile e dolorosa questa scelta. Che spetta sempre e comunque a lei con tutte le conseguenze del caso.
Anche chi tenta di rapinare un banca corre il rischio di rimaneci secco. Ed è giusto così, anche cristianamente parlando.
Certo, secondo la logica che vuole che le donne subiscano sempre e non debbano mai ribellarsi neppure quando si ritrovano incinta di delinquenti che le hanno stuprate o di uomini che pensano di usare il corpo delle donne a proprio piacimento tanto ci devono sempre pensare loro a “proteggersi” da spermatozoi vaganti. Oppure cedere al ricatto che molti uomini fanno alle compagne, quello che se non sono sempre disponibili tutto finisce, perché è la donna che si deve tutelare, eventualmente, l’uomo deve essere libero di “esprimere” la passionalità senza riserve.
Vengono in mente le parole di Padre Pio: “L’aborto non è soltanto omicidio, ma pure suicidio” gli domandarono “Perché suicidio?” P. Pio rispose: “Capiresti questo suicidio della razza umana, se, con l’occhio della ragione vedessi ‘la bellezza e la gioia’ della terra popolata di vecchi e spopolata di bambini: bruciata come un deserto. Se riflettessi allora sì che capiresti la duplice gravità dell’aborto: con l’aborto si mutila sempre anche la vita dei genitori”»
Insomma…. Molto discutibile quello che lei scrive. Se l’aborto fosse illegale e ci fosse la medesima assenza di speranza che oggi è presente i Italia non cambierebbe nulla. Non si farebbero figli comunque. Il problema non è l’aborto (questione che lei solleva strumentalmente) ma l’assenza di speranza nel futuro e l’appiattimento dei giovani sul presente. La colpa è anche della chiesa che sposando il capitalismo (come disse Pasolini) ha perso credibilità e non riesce più a trasmettere speranza nel futuro perché è parte del problema e non la soluzione.
Sono d’accordo con lei riguardo l’assenza di speranza per il futuro. Tuttavia che la depenalizzazione dell’aborto abbia fatto mancare all’Italia circa 6 milioni di cittadini é un fatto. E inoltre, proprio la depenalizzazione dell’aborto, ha contribuito a creare quella “cultura di morte” che no
fa altro che alimentare una evidente “assenza di speranza”
Ma per quanto l’aborto possa aver peggiorato una situazione comunque destinata all’esaurimento ritengo comunque che lei non voglia centrare il problema portando la questione su una tematica importante ma che qui suona ideologica e fuorviante. Il male di vivere non si sconfigge abolendo la legge sull’aborto. Anzi se mi permette tornare agli aborti clandestini mi pare fin peggio.
Facciamo che l’aborto ha reso più facile non accettare quel figlio imprevisto che magari i nostri genitori hanno cresciuto anche se non era programmato. Siamo arrivati ad un tasso di riproduzione di 1,18 per donna, non serve fare 3 o 4 figli per aumentare la media, basterebbe quel fratellino in più che in molte coppie manca. (metto le mani avanti, ho avuto un solo figlio pure io, non lo dico per recriminare, mi sembra pura statistica.)
Comunque l’aborto sta agli anni ’60 come l’eutanasia starà ai prossimi decenni, di fatto sono politiche demografiche, perchè avere una società di grandi anziani non sarà una passeggiata…
Poi amen, ogni tempo ha le sue.