
Foto ANSA/Ettore Ferrari
C’è un tema che attraversa tutta la legislatura, anzi che viene da ancora più lontano: la tensione tra Giorgia Meloni e Sergio Mattarella. Che non è soltanto una questione di personalismi, di individualità, ma tra il perimetro di azione di due poteri: quello esecutivo, che tende a espandersi, e quello di garanzia, che deve arginare quell’espansione.
In fondo, quello che rende diversa l’esperienza di Fratelli d’Italia al potere rispetto ad altre destre classificate un tempo come estreme diventate ora quasi egemoni non sono tanto le convinzioni profonde dei leader del partito, quanto il fatto che quelle idee vengano declinate all’interno del perimetro di una visione liberale della democrazia, con garanzie, limiti, regole.
Ed è il Quirinale, soprattutto, a garantire che quelle garanzie, limiti e regole siano rispettati.
Questa tensione di fondo tra due visioni della democrazia – quella di Giorgia Meloni che considera un modello gli Stati Uniti di Donald Trump e l’Ungheria di Viktor Orbán – e quella di Mattarella che vuole l’Italia alternativa a quella degenerazione dell’Occidente, è esplosa all’improvviso.
La scintilla
L’innesco è un retroscena del quotidiano La Verità. Lo firma Ignazio Mangrano. Un tipo di articolo che è un grande classico del giornalismo politico: la conversazione orecchiata in uno dei tanti ristoranti del potere romano.
Il giornalista ascolta il consigliere del Quirinale per la Difesa, Francesco Saverio Garofani, che discute di politica con un interlocutore. Garofani dice che Meloni è destinata al Quirinale, «in quell’area non c’è nessuno in agguato».
Dopo le elezioni 2027, la premier potrebbe farsi eleggere capo dello Stato alla scadenza del mandato di Mattarella, a meno che il voto tra due anni non riservi qualche sorpresa. Per questo, è l’auspicio di Garofani, servirebbe «una grande lista civica nazionale». Garofani dice che crede «nella provvidenza» e che servirebbe «un intervento più deciso di Romano Prodi».
Queste considerazioni personali diventano, nella titolazione del quotidiano La Verità in prima pagina, «Il piano del Colle per fermare la Meloni». Il direttore Maurizio Belpietro si avventura a prevedere che per innescare la resistenza alla destra servirebbe la vittoria dei «no» al referendum sulla Giustizia in primavera o «una crisi finanziaria».
Il titolo è quantomeno esagerato e contraddetto dallo stesso retroscena pubblicato nelle pagine interne: non c’è alcun piano per fermare Meloni, ci sono delle considerazioni in libertà di un collaboratore di Mattarella che è un ex parlamentare del Partito democratico, tra i fondatori del quotidiano della Margherita Europa di cui è stato vicedirettore.
Insomma, un ex giornalista politico che ora lavora al Quirinale, con un profilo analogo ad altri collaboratori di Mattarella, dal portavoce Giovanni Grasso a Giovanni Astori. Si immagina che ciascuno di loro, in privato, possa avere le sue opinioni ed esternarle senza che questo impegni Mattarella e men che meno riveli un grande complotto.
Ma i retroscena si nutrono di illazioni ed enfasi e le prime pagine dei quotidiani grondano esagerazione. In questo caso però succede una cosa strana. Uno degli esponenti più vicini a Giorgia Meloni, il capogruppo di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, chiede al Quirinale una «smentita senza indugio» di quanto riportato da La Verità. Smentita che mai potrebbe arrivare, perché certo la presidenza della Repubblica non può commentare parole carpite a un singolo consigliere nel suo privato.
Comunque, la reazione del Colle arriva e – fatto ancora più degno di nota – è durissima, non conciliante, netta:
«Al Quirinale si registra stupore per la dichiarazione del capogruppo alla Camera del partito di maggioranza relativa che sembra dar credito a un ennesimo attacco alla presidenza della Repubblica costruito sconfinando nel ridicolo».
Parole di una durezza non ovvia, in risposta a un parlamentare che anche formalmente parla a nome del partito guidato dalla presidente del Consiglio.
Anche l’intervento – tardivo – del sottosegretario a palazzo Chigi Giovanbattista Fazzolari, tra l’altro portavoce de facto della premier, è solo all’apparenza conciliatorio:
«Nè FdI né tanto meno Palazzo Chigi hanno mai dubitato della lealtà istituzionale del presidente Mattarella con il quale il governo ha sempre interloquito con totale spirito di collaborazione, non da ultimo sugli importanti dossier internazionali, dall’Ucraina al Medio Oriente.
Infatti Bignami non si è in alcun modo riferito al Quirinale né si è rivolto in modo irrispettoso al presidente della Repubblica ma ha semplicemente fatto notare che sarebbe stata opportuna una smentita del consigliere Garofani per le affermazioni a lui attribuite dal quotidiano La Verità.
Smentita che avrebbero risolto sul nascere ogni tipo di polemica».
Una conferma con molte più parole della linea Bignami: se Mattarella non ha niente da nascondere, doveva smentire, la polemica è colpa sua.
Lo scenario
Vale la pena quindi ragionare sul merito della questione. Nel retroscena de La Verità il consigliere di Mattarella Garofani evoca uno scenario di cui tutti discutono nei palazzi romani da mesi (ne avevo scritto anche io su Appunti).
Praticamente in ogni scenario immaginabile con la legge elettorale attuale, il centrosinistra non può vincere, nel senso che non può aggiudicarsi una maggioranza di collegi uninominali sufficienti a controllare la Camera e il Senato.
Con una coalizione abbastanza larga, però, potrebbe aggiudicarsene molti al Sud che nel 2022 aveva perso per effetto della rottura tra il Pd di Enrico Letta e i Cinque Stelle di Giuseppe Conte.
Come dice Garofani, soltanto una coalizione molto larga potrebbe essere vagamente competitiva, nel senso che potrebbe far perdere la destra, anche senza riuscire a vincere. Il campo largo attuale, che è molto sbilanciato a sinistra e al centro può contare soltanto su Matteo Renzi e la sua Casa riformista, è quasi spacciato.
Per questo da mesi Romano Prodi e altri – come l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate Ernesto Maria Ruffini – lavorano a progetti di nuovi contenitori capaci di trattenere anche un po’ di voto moderato nel perimetro della coalizione.
Sia che Giorgia Meloni stravinca, sia che si arrivi a un Parlamento ingovernabile e a un governo transitorio, l’elezione del capo dello Stato a inizio 2029 diventerebbe il secondo tempo della partita.
Una Meloni fortissima, confermata dopo un’intera legislatura al potere, potrebbe essere tentata dall’ottenere in modo indiretto quello che non ha avuto dal Parlamento, cioè una riforma costituzionale che preveda l’elezione diretta del presidente della Repubblica.
Gli italiani le confermano una larga maggioranza parlamentare, dove si immagina che Fratelli d’Italia si espanda a danno di Lega e Forza Italia, e poi deputati e senatori agiscono come i grandi elettori del sistema americano e la portano al Quirinale.
Anche nello scenario di paralisi, l’ipotesi Quirinale per Meloni resta percorribile: immaginiamo uno scenario tipo 2013, con un chiaro vincitore delle elezioni – Fratelli d’Italia – che non riesce però a formare una maggioranza e Mattarella che si vede costretto a incaricare qualche figura istituzionale o tecnica di governare pro-tempore, magari senza neppure passare un voto di fiducia.
Nel 2013 non c’era un leader con una popolarità comparabile a quella di Meloni e neppure un vincitore così netto, Pier Luigi Bersani a capo del PD che aveva la maggioranza relativa si è ritirato in buon ordine dopo aver fallito i negoziati con gli altri partiti.
Meloni accetterebbe mai di essere messa da parte? Mattarella diventerebbe l’inevitabile parafulmine della tensione. Ed è comprensibile che già ora i suoi collaboratori guardino con una certa apprensione al futuro.
La tensione
Anche senza perdersi negli scenari, quanto visto fin qui basta e avanza a spiegare quali sono i problemi tra Giorgia Meloni e il suo mondo con il Quirinale. Intanto, il partito di Fratelli d’Italia è nato nel 2012 proprio come scissione dalla maggioranza larga a sostegno del governo Monti che includeva il centrodestra dell’epoca.
Nella narrazione di Meloni, la regia del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per salvare il Paese dalla bancarotta causata dalle politiche economiche del governo Berlusconi era una specie di esproprio di democrazia. Anche se lei stessa votò la fiducia al governo Monti nel 2011, per poi uscire dalla maggioranza un anno dopo.
Nel 2018 Meloni è arrivata a suggerire la messa in Stato d’accusa per alto tradimento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, eletto due anni prima, che aveva esercitato la sua prerogativa costituzionale di negoziare la scelta dei ministri assieme al presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte.
Mattarella non ha approvato l’indicazione dell’economista Paolo Savona per il ministero dell’Economia. Per quel ministero, ha poi spiegato Mattarella, «ho chiesto l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoriuscita dell’Italia dall’euro».
Poi il governo Conte si è fatto, con Savona agli Affari europei invece che al Tesoro, ma intanto Meloni si era accodata alla Lega e a pezzi dei Cinque Stelle negli attacchi a Mattarella, «troppo influenzato dagli interessi delle nazioni straniere».
Mattarella può forse perdonare, ma certo non dimentica.
Soprattutto, il presidente della Repubblica deve aver ben chiaro che tutta la strategia del governo è volta a ridimensionare il ruolo di garanzia del Quirinale, a prescindere da chi ricopra la carica di capo dello Stato.
La riforma costituzionale della Giustizia smembra in due il Consiglio superiore della magistratura che è presieduto dal capo dello Stato e gli sottrae la competenza sui provvedimenti disciplinari, affidati a un’Alta corte apposita. E così si indebolisce il ruolo del presidente della Repubblica come garante di una magistratura compatta e indipendente, potere autonomo rispetto al governo.
La riforma del premierato, versione annacquata di quella abbandonata del presidenzialismo, limita la capacità di azione del capo dello Stato nelle situazioni di crisi, di fatto gli impedisce di costruire esecutivi con maggioranze diverse da quella che ha espresso il governo dimissionario.
L’obiettivo dichiarato è impedire governi tecnici che, negli ultimi trent’anni, hanno coinciso sia con momenti drammatici nella vita del Paese sia con l’espansione massima della fisarmonica dei poteri presidenziali.
Visto che difficilmente la riforma del premierato sarà approvata in questa legislatura, la destra di Giorgia Meloni sta ragionando anche su una legge elettorale proporzionale pensata per mettere in difficoltà l’opposizione che richieda alle coalizioni di indicare il candidato premier, così da far litigare Elly Schlein e Giuseppe Conte già prima del voto. Anche questa mossa avrebbe l’effetto di vincolare il capo dello Stato nell’indicazione del presidente del Consiglio.
Perché questa ansia di contenere il potere del presidente della Repubblica ed espandere quello già straripante dell’esecutivo?
Perché in questi anni si è creata una tensione irrisolvibile tra due modi di intendere la democrazia: Meloni predica e pratica una democrazia maggioritaria, nella quale solo le decisioni di chi ha il consenso del popolo devono essere applicate, travolgendo le resistenze di burocrazie, tribunali e istituzioni internazionali.
Mattarella, la cui figura è per disegno costituzionale trasversale e consensuale, difende un’altra idea di democrazia: separazione dei poteri, saldo ancoraggio ai valori e al progetto dell’Unione europea, resistenza all’avanzata di quei tecno-oligarchi alla Elon Musk ai quali la destra è sempre pronta a sottomettersi, chiarezza nelle alleanze.
Lo scontro tra palazzo Chigi e Quirinale non è tra caratteri e personalità, ma tra due traiettorie divergenti per il Paese. E forse è un bene che cominci a essere esplicito.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 19 novembre 2025







Chi si meraviglia forse non sa che la Meloni a 13 anni si iscrisse al Movimento Sociale Italiano, erede diretto della Repubblica Sociale di Salo’:i suoi fondatori, infatti, erano tutti “repubblichini”; e in questo partito ha fatto la sua carriera, avendo come punto di riferimento Almirante, assorbendo tutti i suoi “valori” . Come può essere in sintonia con un politico davvero democratico come il Presidente della Repubblica?
La Meloni ha interesse, ora, a mostrarsi moderata ma, quando potrà, tirerà fuori la sua vera natura
Meglio che lo scontro diventi di dominio pubblico piuttosto delle solite furfanterie tartufesche della sinistra. Almeno si combatte ad armi pari.
Certo. Serve a farci capire con chi abbiamo a che fare e che livello di pericolo corriamo con questa destra.
Certamente, come abbiamo saputo con chi avevamo a che fare dopo che i 101 hanno affossato Prodi. Lo sapevamo e lo sappiamo ma li sosteniamo a viso aperto mentre loro sono andati mascherati. Sinistra innocente e inoffensiva…
Il suo odio per la sinistra è almeno pari al mio per la destra :))))
Non odio nessuno ma la sinistra l’ho votata sempre ma non per odio verso la destra ma per convinzione, ma, come ho già avuto modo di dire la sinistra mi ha tradito e deluso molto e alle prossime elezioni mi troverò in estremo imbarazzo perché la scelta sarà più difficile di sempre. L’obiettività più che l’ideologia fanatica, dovrebbe guidare le nostre scelte. La sua “puzzetta” di superiorità le impedisce di vedere le magagne dove ci sono.
“Meglio vivere senza prospettive sotto la sinistra che farsi venire il nervoso tutti i giorni sotto la destra.”
Annie Ernaux premio Nobel per la letteratura 2022.