
Il coro delle monache a Goldestein (Photo by Joe Klamar / AFP)
Un caso di ribellione di tre anziane suore all’invito a lasciare il loro monastero austriaco di Goldenstein sta tracimando nei media tedeschi e internazionali, BBC e CNN compresi: video, podcast, articoli, libri e oltre 260.000 follower. Con qualche riscontro anche in Italia. Un gesto di resistenza e di disobbedienza si è trasformato in una «serie televisiva» suggerendo la domanda se le suore da «vittime» non siano state trasformate in «comparse».
Il ruolo performante dei media in questo come in eventi similari si accompagna alla questione molto seria del restringersi fino alla scomparsa della presenza della vita consacrata in vaste aree europee.
Una chiusura problematica
Anzitutto i fatti. Le suore, Bernadette (88 anni), Regina (86) e Rita (81), appartengono alle suore agostiniane che hanno gestito da molti decenni una scuola cattolica nel castello di Goldenstein (Salisburgo, Austria). Fra le piccole allieve anche la futura attrice Romy Schneider.
La contrazione dei numeri delle monache ha motivato la chiusura della comunità nel 2022. La proprietà dell’immobile passa all’arcidiocesi di Salisburgo e al monastero dei Canonici regolari agostiniani austriaci di Reichersberg, che assicurano la custodia dell’edificio e la cura delle suore presenti, fino a quando la loro salute permette loro di essere autonome.
L’età e il ricovero ospedaliero di una di esse suggeriscono al priore del monastero di collocare le suore in una residenza della Caritas non lontana, dotata di assistenza sanitaria. Viene esclusa l’ipotesi di un altro monastero agostiniano che avrebbe richiesto uno spostamento all’estero. Ma le monache, tornate a essere tre, escono dalla casa di riposo e, con l’aiuto di un fabbro, cambiano le chiavi di accesso allo stabile e, in settembre, tornano a vivere a Goldenstein.

Il rientro delle monache a Goldenstein
A questo punto il racconto si divarica. Le suore affermano o lasciano narrare che sono state costrette al ricovero in casa di riposo senza essere state informate in precedenza e trovano un significativo sostegno in un gruppo di residenti che assicura loro assistenza.
Attraverso i social, che le suore cominciano ad utilizzare col sostegno dei volontari, il curioso conflitto intra-ecclesiale allarga il consenso, le dispute e l’interesse. I video delle suore che pregano, cucinano, incontrano le persone… si moltiplicano, mettendo in difficoltà le ragioni del priore, Markus Grasl.
Come responsabile dell’immobile e superiore delle monache, in ragione di una nomina vaticana di commissario apostolico comune in questi frangenti, assicura che il dialogo precedente c’è stato, che lo spostamento non era costringente, che le visitava ogni settimana per assicurarsi che tutto procedesse bene.
Del resto, in precedenza, era stato proposto loro di intervenire sull’edificio per togliere le barriere architettoniche e permettere loro una permanenza più lunga, ottenendo un rifiuto. Nel momento in cui sembrava che la capacità di autogestione venisse meno, allora, secondo i patti, aveva accompagnato le monache alla nuova residenza.
Simpatizzanti e burattinai
Nel frattempo i sostenitori assicurano alle «resistenti» il vitto, l’assistenza sanitaria, le competenze mediali, la garanzia giuridica (avvocati) e il consenso ambientale. Dai responsabili ecclesiali vengono avvertiti che l’uscita delle monache dal quadro giuridico canonico avrebbe comportato per loro l’eventuale responsabilità in caso di cadute, di imprevisti o possibili peggioramenti di salute.
Trattandosi di vicende interne all’ordine, il vescovo locale, Franz Lackner (presidente della conferenza episcopale), non è abilitato a intervenire, ma si dichiara disposto ad aiutare se richiesto. Il vicario diocesano per la vita religiosa, Gottfried Laireiter, invita le due parti al dialogo anche ricorrendo a mediazioni ritenute affidabili.
Il conflitto, che non ha risvolti di opposti orientamenti ecclesiali o tentazioni scismatiche, sembra andare a composizione con la proposta del priore di accettare la rinnovata presenza delle monache a Goldenstein, riportando tutto alla normalità della vita consacrata: la clausura, una guida spirituale, la piena assistenza medico-sanitaria e l’intervento per togliere le barrire architettoniche dell’edificio.
Ma anche con la richiesta di uscire dal circo mediatico, di rinunciare alla presenza degli avvocati e di impegnarsi nel momento di una progressiva invalidità ad accettare soluzioni esterne di cura. Le suore, sostenute dal loro avvocato, rifiutano perché la soluzione proposta costituisce un «obbligo di silenzio», limita la relazione con i sostenitori, è stata elaborata senza il loro parere e non dà garanzie certe della loro permanenza.
A questo punto, il priore Grasl si appella al Dicastero vaticano, dove però arriva anche una lettera delle suore che lo accusano di non aver dialogato con loro e chiedono la sua sostituzione.
Il compimento
La baruffa monastica non è così rara. È noto il caso spagnolo delle suore di Belorado (peraltro più grave per le implicazioni giuridiche ed ecclesiali) e delle monache di Maiorca, quello italiano del monastero di Ravello, o svizzero del monastero di Wonnenstein. Episodi che fanno emergere una questione importante: la scomparsa della vita consacrata in Occidente. La vicenda Goldenstein aggiunge l’imprevisto ruolo dei media.
La crisi numerica colpisce le circa 1.300 congregazioni e ordini femminili di diritto pontificio (come, del resto, anche le famiglie religiose maschili), ma soprattutto le congregazioni di diritto diocesano che, in ragione delle circa 2.900 diocesi, sono più numerose e non tutte censite a livello centrale. Quelle dislocate nel quadrante occidentale ma anche quelle degli altri continenti legate ai singoli vescovi hanno un tempo di vita più breve rispetto a quello delle congregazioni di dimensione internazionale e conoscono ora una stagione molto difficile.
Quali sono i segnali di quello che viene chiamato il «compimento»? Il numero esiguo dei sodali, l’assenza di strutture di formazione e di formatori, la difficoltà di trovare superiori e figure apicali (economi, superiori, supervisori…), gravi dissesti finanziari, insuperabili fratture interne… Conferenze episcopali e rappresentanti dei religiosi e religiose a livello nazionale si stanno muovendo.
Vengono elaborate linee-guida in cui si coinvolgono sia i vescovi sia i religiosi/e, si preparano gruppi di intervento per affrontare i singoli casi, si propone un aiuto di direzione economica e pastorale esterno alle comunità non più in grado di darselo da soli, si mettono in opera visitatori e commissari pontifici. Si creano, cioè, le condizioni perché la fine non avvenga per caso e non trascini con sé forme sgradevoli di aggressioni da parte di interessi patrimoniali esterni. Emblematico è il caso Olanda dove, su circa 170 congregazioni e monasteri, si prevede che, nel prossimo futuro, ne sopravviveranno solo una trentina (cf. qui su SettimanaNews).
Suor Regina Pröls, consulente della Conferenza dei religiosi e delle religiose tedeschi, ricorda come molte congregazioni in chiusura abbiano affidato ad altri Istituti o gruppi di credenti le proprie istituzioni, ma sottolinea che questo può avvenire solo sulla base di una fiducia reciproca fra sodali e figure esterne. Succede così che donne sposate, formate per questo scopo, possano dirigere comunità femminili di consacrate, organizzando i momenti di preghiera, la spesa, la posta e le attività amministrative.

Le monache nella cappella del monastero (Photo by Joe Klamar / AFP)
Nel caso di un conflitto ostinato, come a Goldenstein, le cose si fanno molto più difficili. Ci sono di mezzo il rispetto dei voti religiosi e la possibilità di colloqui diretti fra le parti. Suor Katherina Drouvé, abadessa a Ruedesheim, è fra le consulenti-consigliere nel caso di chiusura di monasteri e conventi. Ricorda le domande comuni delle religiose davanti all’evenienza: «Come ci manterremo in futuro? Come ci prenderemo cura delle nostre sorelle più anziane? Cosa accadrà sul piano finanziario e legale? Chi guiderà la nostra comunità?». Ricorda con saggezza: «Quando ci lasciamo andare e cediamo il controllo, abbiamo più tempo per il nostro carisma religioso».
Il carisma non è una proprietà
Al fondo della questione vi è il dono carismatico. Appartiene al fondatore e alla famiglia religiosa da lui promossa? Il carisma è certo legato al fondatore e al gruppo iniziale, ma «appartiene» alla Chiesa. In essa si genera, cresce e si diffonde. Nel momento in cui l’istituzione che l’ha interpretato volge al compimento, il dono carismatico resta nella Chiesa e continua ad alimentarne la vita, magari sotto altre forme e famiglie religiose.
Un nodo spirituale e teologico illustrato da p. Luigi Nava (Vita consacrata n. 3, 2024):
«Ogni progetto fondazionale racchiude in sé la promessa di Dio […]. Il tempo della promessa segna la nostra storia, in esso esprimiamo la gratitudine del cammino compiuto. In un percorso di compimento ci sentiamo debitori del dono da Lui elargito; e, in prospettiva, rimettiamo alla Sua disponibilità il nostro dono. Sta qui la grazia del distacco: non siamo padroni del dono, non lo siamo mai stati e il dono stesso ci consente la libertà di restituirlo al Signore. Il compimento, dunque, racchiude in sé la promessa di Dio, il dono della sua fedeltà nonostante e oltre l’esaurirsi dei nostri limiti».
Giovanni Paolo II così si esprimeva nel 1994:
«Ciò detto, è necessario tuttavia precisare che nessuna forma particolare di vita consacrata ha certezza di una durata perpetua. Le singole comunità religiose possono spegnersi. Storicamente si constata che alcune sono di fatto scomparse, come del resto sono tramontate anche certe Chiese particolari […] La garanzia di durata perpetua sino alla fine del mondo, che è stata data alla Chiesa nel suo insieme, non è necessariamente accordata ai singoli istituti religiosi».
I “media” fra impegno e pigrizia
Il caso Goldenstein fa emergere con forza il ruolo che i media possono avere oggi quando lo spegnersi di una comunità o di una famiglia religiosa avviene in contesto conflittuale.
In un’intervista all’agenzia APA, la nuova presidente della Conferenza austriaca degli ordini religiosi si è detta preoccupata e sorpresa dall’enfasi mediale sollevata dal caso con la presentazione di un rapporto superiore-monache largamente approssimato e falsificato. Suor Christine Rod, segretaria della stessa conferenza ammette: «Viviamo in un’epoca di messa in scena mediatica che prospera nell’esagerare il conflitto e l’unilateralità».
Al ruolo dei media allude anche il canonista Daniel Tipi: «Mi chiedo quanto di tutta questa operazione sia stata davvero un’iniziativa delle suore e quanto sia venuto dall’esterno. Senza tale supporto probabilmente le suore non sarebbero state in grado di riuscirci o forse non avrebbero nemmeno presa in seria considerazione l’idea».
A un ceto punto, il priore Markus Grasl è ricorso a un’agenzia di comunicazione. Il responsabile di questa, Harald Schifft, annota:
«Trovo piuttosto sconcertante che il monastero, il chiostro, si stiano trasformando in un “parco giochi”, con rappresentanti dei media che vanno e vengono in continuazione. In questa situazione così tesa, non c’è alcuna possibilità di arrivare ad argomentazioni ragionevoli e di essere ascoltati. Allo stato attuale, un colloquio personale è inutile. Abbiamo bisogno della pace e della tranquillità necessarie, lontano dai riflettori dei media, per poterci riavvicinare. Al momento tuttavia il conflitto si sta diffondendo sempre di più attraverso i media».
I media che sanno rivestire ruoli di grande rilevanza, come nel caso della denuncia degli abusi, si adattano talora alla pigrizia di schemi desueti (istituzione forti contro individui deboli), rinunciando allo scavo e alla ricerca. Ma anche le istituzioni ecclesiali si rivelano impreparate e fragili, incapaci di cavalcare l’onda mediatica e ripiegate in un sussiego infecondo.






Povere sorelle: lasciarle vivere dove han sempre vissuto è la miglior opera di carità che si possa loro fare. Quanto all’azione mediatica si sa che risponde a logiche commerciali di vendita del prodotto quotidiano e ciò oggi si raggiunge soltanto con l’enfasi e lo scoop.
Per la vita religiosa in estinzione dobbiamo farcene una ragione: ormai in chiesa vengono solo pochi vecchi ed è molto difficile che da questa categoria di fedeli nascano nuove giovani vocazioni.