
Stefano Buttinoni, presbitero della diocesi ambrosiana, assistente ecclesiastico AGESCI (zona BriMiNo), responsabile della Caritas di Monza per la disabilità, è fondatore del canale YouTube DinDonCafé su cui è stato intervistato dal redattore di SettimanaNews Giordano Cavallari nel contesto del dibattito sul post-teismo. Qui una sintesi scritta dell’intervista verbale.
Per capire l’evoluzione teologica, è necessario partire dall’intimità. Interrogato sul modo in cui si rivolge a Dio, don Stefano ha subito evidenziato una profonda maturazione personale, che ha trovato una sintesi in un cammino spirituale che ha messo in luce “cinque tappe di ingresso nella preghiera” come prologo indispensabile per fuggire schematismi vuoti e ripetitivi, per entrare in una relazione profonda con il mistero di Dio in Cristo.
La svolta non è avvenuta nell’acquisizione di nuove formule, ma nel passaggio dalla separazione alla fusione nella preghiera. Se il quarto passo è il riconoscimento di un “Tu di fronte a me, io di fronte a te” – un rapporto personale, ma ancora distaccato –, il quinto e conclusivo è l’ingresso nel “Tu in me, io in te”.
Questa non è una ricerca di un’esperienza mistica elitaria, ma la scoperta che Dio stesso, attraverso l’Incarnazione, “non vuole la separazione dall’uomo e non l’ha mai cercata”. È la tensione verso un’“identità piena” in cui, come nel matrimonio, i due diventano “uno spirito solo e una sola carne”. La preghiera, dunque, diventa l’esperienza concreta della consapevolezza di essere avvolti da una relazione che annulla le distanze formali.
L’antropomorfismo necessario e quello pericoloso
La visione trinitaria è la chiave per affrontare la questione dell’antropomorfismo. Secondo don Stefano, l’errore non è l’uso dei termini tradizionali (Padre, Re o Signore), ma l’antropomorfismo che snatura il Vangelo.
Il tratto antropomorfo di Dio è Cristo. Gesù stesso ha detto: «Chi vede me vede il padre». Se sentiamo il bisogno di un abbraccio, è Cristo che ce lo dà, come il padre della parabola del figliol prodigo. L’errore fatale, invece, è quello di “antropoformizzare il Padre” facendolo diventare un “super genitore” con la barba: un monarca terrestre o un decano celeste. Queste sono “immagini un po’ leggere, un po’ spicce, da immaginetta”.
La questione si fa drammatica quando queste immagini sfociano in una teologia del merito: un Dio che premia e punisce a seconda delle nostre azioni. Questa è “un’immagine patriarcale, un’immagine spaventosa” che, come aveva già denunciato Joseph Ratzinger, ha rovinato la fede di molte persone.
La logica del merito crolla di fronte al mistero centrale: Cristo “non è sceso dalla croce… e non ha punito nessuno per il peccato più grave che si possa fare a Dio, cioè ucciderlo”. L’amore di Dio si rivela, in quell’atto, totalmente incondizionato e “sconfinato”, un amore che supera i confini della mente umana e di qualsiasi dottrina del risarcimento e della “soddisfazione”.
Il Post-teismo e la crisi del Dio-funzionale
È in questo contesto di crisi del “Dio del merito” e del “Dio Super Genitore” che si inserisce la necessità di un termine come Post-teismo.
Don Stefano mette in guardia da un riduzionismo che vorrebbe liquidare un dibattito complesso con una semplice etichetta. Non si può definire con precisione un fenomeno che è ancora in atto, ma si può individuarne l’intenzione: il Post-teismo è la fase che cerca di rispondere a una “maggiore età del mondo”, una maturità spirituale che non si accontenta del “Dio magico”, il risolutore di problemi.
L’intuizione teologica di Dietrich Bonhoeffer sul God of Gaps – il Dio tappabuchi o della distanza – è cruciale: Dio non è la prolunga dell’uomo, che interviene solo dove l’ignoranza umana lascia un vuoto. La fede adulta, al contrario, “libera Dio dal magico e Dio dal funzionale”. Noi chiediamo a Dio di fare la pace, quando facciamo la guerra; questa, per don Stefano, è una forma di “infantilismo spirituale”.
La cautela sul Trans-teismo e l’àncora in Cristo
Sulla questione del Trans-Teismo, don Stefano esprime forti riserve. Se il Post-teismo è un metodo di pulizia, il Trans-teismo, con la sua ricerca di una trascendenza ontologica e metafisica, rischia la spersonalizzazione di Dio.
“L’immagine di Dio è Cristo e non c’è un’altra mediazione”. La fede cristiana non può permettersi un’astrazione che fa perdere la carne e la concretezza di Gesù, l’uomo “sudato e stanco del viaggio che si siede al pozzo a parlare con una donna a mezzogiorno”. La fede deve essere essa stessa incarnata. Il punto di riferimento, il “De Deum”, è il Cristo del Vangelo: nel tentativo, mai pienamente compiuto, di incrociare il Gesù storico con il Cristo della fede.
Il paradigma pastorale: camminare insieme, senza lasciare indietro nessuno
La riflessione teologica trova il suo banco di prova più difficile nella pastorale ordinaria, specialmente con i giovani.
Don Stefano rifiuta l’atteggiamento di chi accusa i giovani di essere lontani: “L’errore non è stato quello di non parlare con i giovani in assoluto, ma è quello di dimostrarsi ai giovani come i detentori delle risposte alle loro domande”.
Il vero problema della Chiesa è l’arroccamento sulle posizioni e il dare risposte preconfezionate a domande profonde. Di fronte alle domande, il pastore deve agire come faceva il card. Martini: a una domanda importante si risponde con «una domanda ancora più importante», non con una risposta banalizzante e avvilente del cammino compiuto per arrivare a quella domanda.
La sfida
Per don Stefano, il metodo è quello di Gesù a Emmaus: “ha camminato per 11 km in direzione ostinatamente contraria, però è stato con loro”. Il compito è accompagnare l’altro alla sua velocità, anche quando è più lento.
Questo richiede un cambio di paradigma: non più una Chiesa istituzione gerarchica che fornisce “pillole di salvezza” – anche se dottrinalmente le ha e sono chiare! – ma una Chiesa che offre compagnia e uno stare vicino alla vicenda personale. È la teologia che si fa metodo pastorale nel farsi carne.
Bisogna avere il coraggio, ad esempio, di reinterpretare i segni della fede: una statua della Madonna di Lourdes non è un idolo da strofinare, ma il simbolo della carità vissuta nei volontari e nell’accompagnamento.
Soprattutto, non si può lasciare indietro chi ancora si sente a casa in un Dio patriarcale, ma bisogna accompagnarlo con pazienza, senza giudizio, perché anche la fede della vedova povera con le due monetine gettate nello scandaloso tesoro del tempio merita il plauso di Cristo.
In conclusione, la Rivoluzione del Sacro è la ricerca di una fede che sia liberante, onesta sul piano intellettuale, incarnata nel mistero di Cristo e capace di camminare con carità nella storia dei singoli, accettando che la verità si sveli nel tempo e nell’esperienza comunitaria.






“L’intuizione teologica di Dietrich Bonhoeffer sul God of Gaps – il Dio tappabuchi o della distanza – è cruciale: Dio non è la prolunga dell’uomo, che interviene solo dove l’ignoranza umana lascia un vuoto.”
Giusto, ma con tutta la buona volontà del mondo si tratta di una affermazione che ha quasi 80 anni, mi pare metabolizzata da tempo..
Anzi, forse la successiva reazione tradizionalista è una risposta alle teologie radicali degli anni ’60, ’70. Non è facile vivere la religione come un teologo in campo di concentramento, forse non è nemmeno necessario..
A proposito del Dio magico: io credo che il naturale cammino del pensiero teologico non possa che cercare il significato profondo delle cose, al di là della realtà di un fenomeno apparente.
Se Dio non è un tappabuchi, ma la descrizione di quella Verità di cui percepiamo La Presenza nella stessa realtà fenomenica, quale Legge, quale miracolo, alla base della Vita?
Da qui, il necessario contatto con le scienze che in alcuni casi sta percependo e cercando di comprendere e non solo negare o ridurre o separare quel Mistero dell’Essere..
La nostra religione ha la presunzione di dirsi “incarnata”. E se non è una storiella per una umanità credulona e vogliamo che possa ancora dare Vita, la strada non è cercare il Dio nella carne?
Perché Gesù Cristo, perché Uomo e Dio? Quale significato profondo nel Cristianesimo?
Quale “magia” fa sì che da un seme nasca proprio quel fiore, con quella forma, e poi quel frutto?
E in quel Seme che muore nella nuda terra , ma che poi si trasforma, non è già inscritta quella capacità redentiva che chiamiamo Resurrezione e a cui quasi ci vergogniamo di credere?
Il necessario cammino teologico drve elrvareblo sguardo, cercando Dio in tutte le cose.
Oltre il tempio, il Sacro è nel cuore della stessa Vita..
La religione non deve aver paura di perdere il controllo, può ancora dare tanto, ma se si chiude, poi ci sarà sempre chi per superarla dividerà il Sacro dal profano, l’uomo dal divino, riducendo la Verità al proprio orizzonte o al proprio ombelico..