
«Pace, che ti succhiai la prima volta dal petto bianco di mia madre» (Ignazio Buttitta)
Le parole del cantastorie siciliano Ignazio Buttitta (1899-1997), consegnate ai versi di Un seculu di storia (settembre 1970), sanno di un sapore antico, che diviene imminente e futuro.
All’inizio di questo nuovo anno, mentre la guerra segna ancora in molte parti del mondo il ritmo pianeta Terra e i conflitti armati attraversano continenti e coscienze di vecchi e nuovi continenti, per la Chiesa cattolica il primo giorno dell’anno è da decenni giorno di riflessione e di preghiera per la pace, per volontà profetica di Paolo VI. È un tempo in cui la comunità cristiana è chiamata a sostare, ad ascoltare, a interrogarsi.
Quando le guerre si moltiplicano in tutti gli angoli del pianeta e la violenza rischia di diventare abituale, la pace non è un tema tra gli altri: è la domanda decisiva, quella che interroga il cuore dell’uomo e il destino della storia.
Per questo, tornare alla poesia, alla filosofia, alla coscienza non significa allontanarsi dalla realtà, ma scendere là dove la realtà nasce: nel desiderio umano originario, in quel punto fragile e vero in cui l’uomo, prima di imparare a difendersi, ha imparato ad affidarsi.
La pace prima della parola
Ignazio Buttitta non parlava della pace come di un progetto politico, né come di un’utopia morale. La sua intuizione era più radicale: la pace precede la parola, precede la scelta, precede perfino la coscienza riflessa. È un’esperienza originaria, corporea, ricevuta prima ancora di essere compresa. La pace, dice il poeta, si impara al seno materno: un’immagine che disarma.Questa immagine non è sentimentale. È antropologica. Dice che il cuore dell’essere umano, fin dal primo vagito, desidera pace perché desidera fiducia, protezione, accoglienza. Prima di conoscere il conflitto, l’essere umano conosce una relazione che non minaccia.
La pace non nasce dal patto, ma dalla fiducia originaria; non dall’equilibrio delle forze, ma dalla relazione asimmetrica tra chi accoglie e chi è accolto. Prima di essere costruita, la pace è sperimentata come dono.
Qui la poesia non fugge dalla storia: ne svela il tradimento. Questo sguardo non ignora la complessità dei conflitti, né assolve le responsabilità storiche e politiche; ma ricorda che nessuna analisi delle cause è sufficiente, se non si interroga il cuore umano da cui ogni violenza prende forma.
Ogni guerra, prima di esplodere nei territori, nasce quando questa disposizione originaria alla pace viene soffocata, deformata, educata all’ostilità.
Ogni nascita è promessa
La filosofia del Novecento, dopo aver attraversato l’abisso, è tornata su questa soglia.
Hannah Arendt, riflettendo sulle rovine morali e politiche dell’Europa dopo le grandi catastrofi del secolo scorso, individuava nella natalità – e non nella mortalità – la categoria decisiva per pensare il futuro. Ogni essere umano che nasce, introduce nel mondo qualcosa di radicalmente nuovo, imprevedibile, non deducibile dal passato.
La pace, in questa prospettiva, non è la semplice gestione del conflitto, ma la possibilità che il nuovo non venga soffocato. Dove domina la paura, il nuovo è percepito come minaccia; dove c’è pace, il nuovo può essere accolto.
Buttitta e Arendt, poesia popolare e coscienza filosofica comune, senza sapersi, si incontrano qui: la pace nasce dove l’essere umano non è costretto a difendersi dall’altro fin dall’inizio, dove il mondo non è vissuto come ostile, ma come abitabile. Questo non è un sogno: è un criterio per giudicare il presente.
Se Arendt pensa la pace a partire dall’inizio, un altro pensatore di cultura ebraica, Emmanuel Lévinas la pensa a partire dall’incontro. Per il filosofo aduso al testo della Bibbia, la pace non nasce dall’ordine imposto, ma dalla responsabilità per il volto dell’altro. Il volto non è un’idea, ma una presenza concreta che, come un bambino o, meglio, un neonato, interpella, disarma, comanda senza violenza: non uccidere. «La pace – scrive Lévinas – non è la calma dell’identico, ma l’accoglienza dell’alterità».
Qui la pace cessa di essere un’astrazione e diventa un atto etico reale. Non si dà pace dove l’altro è ridotto a numero, a funzione, a nemico, a problema. La pace nasce quando l’altro è riconosciuto come altro-da-me, e proprio per questo inviolabile.
Ancora una volta, Buttitta ritorna qui come un’eco profonda: la pace succhiata al seno è il primo volto riconosciuto, il primo “altro” che non fa paura. Lévinas non idealizza la realtà: la inchioda alla responsabilità.
La guerra comincia dentro
Poesia e filosofia convergono così, ancora una volta, su un punto decisivo: la pace ha il suo primo campo di battaglia nella coscienza. Non esiste pace esterna senza una pace possibile all’interno dell’uomo. Il Concilio Vaticano II lo affermava con parole che oggi suonano drammaticamente attuali: «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio e la sua voce risuona nell’intimo» (Gaudium et spes, 16).
Quando la coscienza psicologica e morale viene manipolata, anestetizzata, addestrata all’odio…, la guerra è già cominciata, anche se le armi, tradizionali o innovative, non hanno ancora parlato. In questo senso, la pace non è neutrale: è una scelta morale prima che politica. La pace non la si può dare come la dà il mondo. Qui il cristianesimo non aggiunge qualcosa alla poesia o alla filosofia: le precede e le porta a verità.
Fin dall’inizio, il Vangelo annuncia una pace che nasce dal cuore e non dall’ordine imposto. Gesù lo dice senza ambiguità: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo» (Gv 14,27). La pace di Cristo non nasce dalla vittoria sull’altro, ma dalla rottura in radice del meccanismo della violenza. È una pace che non si impone, ma si offre; non si difende eliminando, ma assumendo. Non elimina il conflitto con la forza, ma lo attraversa con l’amore. È una pace che passa dalla croce: dall’assunzione del male senza restituirlo.
Qui la natalità di Arendt diventa Incarnazione, e il volto di Lévinas diventa volto del Crocifisso: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei più piccoli…» (Mt 25,40). La pace cristiana nasce quando l’altro non è solo un volto umano, ma un luogo in cui Dio interpella la coscienza. Non è un caso che Paolo VI abbia voluto consacrare il 1° gennaio alla Giornata mondiale della pace. Non come rito formale, ma come giudizio sull’anno che si apre. La pace non è il frutto spontaneo del progresso, né il sottoprodotto della crescita economica. È una responsabilità affidata.
E proprio in questo primo giorno del 2026, papa Leone XIV consegna alla Chiesa e al mondo una parola che risuona con forza profetica inaudita. Il suo messaggio per la 59ª Giornata mondiale della pace porta come titolo le stesse parole con cui si è presentato al mondo sette mesi fa, la sera della sua elezione: «La pace sia con tutti voi: verso una pace disarmata e disarmante».
Non è un saluto di circostanza. È una dichiarazione di intenti, un programma teologico e politico insieme, un messaggio di dottrina sociale.
Leone XIV riprende la parola del Risorto – «Pace a voi» (Gv 20,26) – e la fa risuonare in un tempo di «destabilizzazione planetaria», quando il mondo sembra aver dimenticato che la pace non è un’utopia, ma una realtà che «esiste, vuole abitarci, ha il mite potere di illuminare e allargare l’intelligenza, resiste alla violenza e la vince».
La follia del riarmo
Il papa non elude la drammaticità del presente. Denuncia con dati incontrovertibili la follia in atto: «Nel corso del 2024 le spese militari a livello mondiale sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale».
Non è una cifra astratta. È la scelta consapevole di sottrarre risorse alla vita per destinarle alla morte. È una decisione morale prima ancora che economica. È un giudizio sull’uomo, su ciò che si ritiene degno di essere difeso e su ciò che si accetta di sacrificare.
Leone XIV smaschera un tradimento più profondo: «Invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza». Qui il papa tocca il cuore della questione: la manipolazione della coscienza.
Quando la paura diventa metodo di governo, quando la minaccia viene alimentata per giustificare l’aumento degli armamenti, quando l’educazione stessa si piega alla logica della guerra, allora la pace non è più possibile, perché è stata tradita alla radice. Il pontefice non si limita a descrivere, ma giudica. E il suo giudizio è tagliente: «Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze». È una logica «contrappositiva» che va «molto al di là del principio di legittima difesa» e che, lungi dal garantire la sicurezza, genera una spirale di sfiducia e di terrore reciproco.
La deterrenza nucleare, presentata come garanzia di equilibrio, è in realtà – scrive Leone XIV – «l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza». Non è realismo. È disperazione mascherata da calcolo strategico.
E allora il papa rilancia con radicalità evangelica la parola di Gesù: «Rimetti la spada nel fodero» (Mt 26,52). La pace di Cristo, ricorda Leone XIV, «è disarmata, perché disarmata fu la sua lotta». Non è debolezza. È la forza di chi non ha bisogno di eliminare l’altro per affermare sé stesso. È la mitezza del Risorto che, pur avendo vinto la morte, non impone la sua vittoria, ma offre la sua pace.
Qui il messaggio del papa si salda perfettamente con la riflessione di Lévinas: il volto dell’altro disarma, perché comanda senza violenza. E si salda, mi pare, con Buttitta: la pace è fiducia originaria, non calcolo strategico.
Solo dalla pace, la pace
Di fronte alla retorica del «si vis pacem, para bellum», come era formulato nel mondo tardo-antico da Vegezio – se vuoi la pace, prepara la guerra –, Leone XIV oppone una verità teologica e antropologica insieme: solo muovendo dalla pace si può garantire la pace.
La logica della deterrenza non produce sicurezza, ma alimenta la spirale della violenza. Il papa chiede, perciò, ai responsabili politici «la ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti». È «la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale», purtroppo «smentita da sempre più frequenti violazioni di accordi faticosamente raggiunti».
Leone XIV non propone un pacifismo ingenuo. Propone un disarmo integrale: del cuore, delle strutture, delle narrazioni. Chiede di smascherare le «narrazioni prive di speranza», quelle che presentano la guerra come inevitabile e la pace come utopia. Perché «il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante».
E invece il papa rilancia la speranza, non la virtù soltanto umana, ma quella teologale, la cui origine è dall’alto: «In un tempo di destabilizzazione e di conflitti, occorre motivare e sostenere ogni iniziativa spirituale, culturale e politica che tenga viva la speranza, contrastando il diffondersi di atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana».
Nulla è ineluttabile. La storia non è governata da forze cieche. Le scelte umane contano. E proprio per questo la pace è responsabilità, non sogno.
Il messaggio di Leone XIV, pur essendo firmato da un papa, non si rivolge solo ai credenti. È parola profetica per tutta l’umanità. Richiama ogni uomo e ogni donna alla responsabilità originaria: riconoscere nell’altro un volto, non un bersaglio; una persona, non una minaccia; un fratello, non un nemico.
È lo stesso richiamo che attraversa la poesia di Buttitta, la filosofia di Arendt e Lévinas, la dottrina del Concilio, il Vangelo di Cristo.
La pace nasce dalla fiducia, non dalla paura. Dalla relazione, non dal dominio. Dal riconoscimento dell’altro, non dalla sua eliminazione.
Oggi, in un mondo che giustifica la guerra come necessaria, anzi inevitabile, che abitua le coscienze all’inaccettabile, che trasforma l’altro in bersaglio o in scarto, parlare di pace è un atto profetico.
Profetico perché contraddice la logica dominante. Profetico perché smaschera le menzogne utili. Profetico perché ricorda che l’uomo non è nato per la guerra.
La pace non è garantita da nessun trattato. È affidata alla coscienza, alle relazioni, al modo in cui il volto dell’altro viene riconosciuto o negato.
La pace non è il premio della storia riuscita. È il criterio che giudica una storia fallita quando l’uomo ha dimenticato di essere uomo.
«Pace, che tutto dai e niente vuoi, abbraccia il mondo e copri d’ali di colombe il cielo di ogni terra» (Ignazio Buttitta).





