
Con la vicenda dei piani di guerra condivisi forse per errore con un giornalista dell’Atlanic sembra di essere tornati alla fase in qualche modo spensierata della prima amministrazione Trump, quando un presidente inesperto e una compagine improbabile di personaggi marginali era alle prese con la gestione del potere vero con esiti spesso comici, di solito poco rilevanti. Quasi mai pericolosi.
Invece l’amministrazione Trump II è un’altra cosa, potete scegliere l’aggettivo che volete, esternare il grado di preoccupazione proporzionale alla vostra distanza dalle idee che il capo della Casa Bianca professa. Ma è sicuramente molto più efficace.
L’incidente dei piani di guerra, insomma, non è più la regola, ma l’eccezione.
Vediamo quindi questa eccezione. Il giornalista Jeffrey Goldberg dell’Atlantic viene aggiunto per errore – o almeno questa è la versione che abbiamo – a una chat di gruppo sulla App Signal con dentro alcuni esponenti di prima fila dell’amministrazione Trump, incluso il vice-presidente JD Vance e il consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Walz.
In quella chat, il 15 marzo, il segretario alla Difesa Pete Hegseth condivide dei piani di attacco americano ai ribelli Houthi in Yemen, un attacco che poi sembra esserci stato. A commento, Vance lamenta che proteggere gli interessi commerciali europei nell’area dai pirati Houthi è in contraddizione con la linea del presidente – e la sua personale – sull’Europa.
Molti dei commenti si concentrano sul fatto che con la rivelazione di informazioni così sensibili il segretario alla Difesa Hegseth ha messo a rischio l’operazione e le vite dei soldati americani coinvolti.
Ma il punto è soprattutto politico: nella campagna elettorale 2016 Trump chiedeva di chiudere in galera la sfidante Hillary Clinton perché aveva usato un server privato di email per alcune sue comunicazioni. Non per aver condiviso informazioni sensibili, attenzione, ma soltanto per aver usato un canale non protetto come quelli che i vertici del governo federale devono usare per legge.
La App Signal, per quanto ritenuta da molti utenti più sicura di WhatsApp, non è il tipo di strumento che i vertici del governo possono usare per discutere questioni sensibili. Come dimostra il fatto che hanno coinvolto un giornalista per sbaglio.
Secondo alcuni giuristi, quello che ha fatto Hegseth configura una violazione dell’Espionage Act, la legge contestata al fondatore di Wikileaks Julian Assange che, dopo oltre un decennio di fuga e carcere, ha patteggiato per aver fatto qualcosa di molto simile. Ha aiutato un impiegato del governo, nello specifico della Cia, a far uscire informazioni classificate e passarle ai giornalisti.
Questa vicenda, però, invece di essere diventata un problema epocale per l’amministrazione Trump, è stata superata con una semplice alzata di spalle. Trump ha risposto ai giornalisti che non sapeva di cosa stessero parlando, Hegseth è in viaggio in Asia e ha solo detto di non aver condiviso piani di guerra, punto e fine della discussione. Avanti con la prossima polemica.
Perché questa è la seconda amministrazione Trump, non la prima.
Il dilettantismo come metodo
- Mattia Ferraresi è un giornalista, firma di Domani e scrive per il New York Times e altre testate americane. La narrazione di questa seconda amministrazione Trump oscilla tra l’enfasi sul dilettantismo e quella sul colpo di Stato perfettamente organizzato. Qual è quella corretta?
Queste due dimensioni non si escludono, anzi, il dilettantismo che l’amministrazione sta mostrando, bisogna tener presente, è rivendicato come una grande virtù. L’amministrazione Trump sta cercando di smantellare quella che ama chiamare la classe manageriale, secondo un’espressione dell’intellettuale conservatore James Burnham, proprio attraverso strumenti diversi dalle competenze e dalle credenziali del vecchio mondo.
Quindi, in un certo senso, il grande cambiamento che dovrebbe avvenire nelle strutture fondamentali dello Stato avviene proprio applicando forme nuove di competenze, che sono appunto il dilettantismo e l’abilità pratica dei suoi protagonisti, e che differiscono sostanzialmente dal vecchio mondo delle competenze e delle credenziali che è proprio ciò che si vuole smantellare.
- Quali sono le differenze fondamentali rispetto alla prima amministrazione? Anche allora c’era molta enfasi sul caos alla Casa Bianca, raccontato nei libri di Michael Wolff o di Bob Woodward.
Il primo mandato di Trump era un reality show in cui ogni settimana qualcuno dei protagonisti finiva in nomination e veniva poi buttato fuori a seconda degli umori del presidente. In questa seconda amministrazione c’è una differenza fondamentale e il suo nome è Elon Musk. Lui e il suo DOGE hanno dato una forma più chiara e stabile al tentativo che l’amministrazione sta facendo.
Questo non elimina tutta la volatilità tipica del metodo trumpiano, però gli dà un orizzonte strutturale. Su Elon Musk si possono dire, si sono dette e si diranno tantissime cose negative. È più difficile dire che non sia una persona che ha mostrato nella sua carriera di poter perseguire con grandissimi mezzi e grandissima abilità pratica gli scopi che si prefigge.
- Quanto è serio lo scontro con i giudici e dove può portare? È davvero lo spartiacque per la transizione da democrazia a qualcos’altro?
Sì, io penso che lo scontro con i giudici sia la dimensione decisiva del tentativo di Trump di cambiare veramente qualcosa di strutturale e profondo nell’ordinamento dello Stato. Lo è perché nello scontro legale l’amministrazione sta esibendo una certa interpretazione del ruolo del potere esecutivo.
Questa interpretazione, che è piuttosto oscura anche fra i costituzionalisti e abbastanza datata, sostiene che il potere esecutivo è interamente nelle mani del presidente e non della presidenza, che è invece un’istituzione articolata composta da vari soggetti, ad esempio le agenzie federali, dotati di un loro grado di indipendenza. L’amministrazione Trump sta affermando esplicitamente che il potere esecutivo è tutto nelle mani del presidente, adottando un tipo di interpretazione piuttosto monarchica del dettato costituzionale.
Ecco, il grande scontro che vediamo con i giudici è proprio questo, è l’affermazione di una certa interpretazione del potere esecutivo che inevitabilmente si scontra con le resistenze dei giudici, i quali interpretano in modo diverso la divisione dei poteri. Per questo credo che dentro questo scontro si possa leggere qualcosa di veramente significativo e importante.
Contro tutti i nemici
Il New York Times ha spiegato ai suoi lettori che è molto difficile raccontare la seconda amministrazione Trump, perché bisogna separare il livello delle dichiarazioni – le bugie, le provocazioni, le manipolazioni – da quello dei fatti, delle azioni di policy, delle azioni concrete che avvengono soprattutto tramite ordini esecutivi del presidente, cioè senza passare dal Congresso. Ed è il secondo livello che richiede più attenzione, perché già le prime azioni della nuova amministrazione dimostrano che questa volta «Trump non si limita a occupare il ruolo di presidente, ma vuole ottenere cambiamenti profondi mentre allo stesso tempo persegue i suoi nemici percepiti».
Al momento l’amministrazione Trump ha dimostrato di saper colpire in modo molto efficace diverse categorie di nemici, grazie anche alla capacità di colpirne uno per educarli tutti senza innescare la solidarietà di chi è stato risparmiato.
I più semplici da rimettere al loro posto sono stati i giornalisti. I grandi gruppi che hanno un editore interessato a non essere nel mirino della Casa Bianca si sono allineati subito. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon e proprietario del Washington Post, non soltanto ha cambiato la linea e la natura del suo giornale per frenarlo da prendere le stesse posizioni anti-trumpiane di otto anni fa, ma ha di fatto comprato la benevolenza di Donald Trump e della moglie Melania.
Bezos ha fatto comprare al servizio streaming di Amazon, Prime Video, le stagioni del reality show di Trump The Apprentice, e un documentario sulla vita di Melania che da solo costa 40 milioni di dollari, 28 dei quali andranno direttamente nelle tasche della first lady.
L’agenzia di stampa Associated Press è stata esclusa dai briefing della Casa Bianca perché chiama il Golfo del Messico Golfo del Messico, invece che aderire alla geografia trumpiana che lo considera Golfo d’America.
Con questo clima, quasi tutti si moderano, anche i non allineati. Perfino il New York Times ha dovuto rassicurare i lettori che non si è ammorbidito, mentre invece la percezione generale è che non sia così battagliero come nella prima amministrazione.
Anche rimettere al loro posto gli avvocati si è rivelato abbastanza facile. Invece che scontrarsi ogni volta con i giudici, Trump ha trovato più efficiente far capire ai grandi studi legali che non devono per alcuna ragione sostenere chi fa causa all’amministrazione, o assumerne i nemici.
In questo caso Trump ne ha colpiti alcuni per educarli tutti: il caso più clamoroso è quello dello studio legale Paul Weiss. Mark Pomeranz è un avvocato dello studio Paul Weiss che nel 2021 ha assistito il procuratore di Manhattan che ha indagato sulle finanze di Trump e i suoi problemi fiscali, costringendolo a rivelare documenti che voleva tenere riservati. Dopo quella vicenda, Pomeranz è andato a lavorare per Paul Weiss.
Ora è il momento della vedetta: con un ordine esecutivo, Trump ha bloccato le credenziali di sicurezza di tutti gli avvocati di Paul Weiss e ha vietato a tutte le agenzie federali di avere contratti con quello studio legale specializzato in complesse operazioni finanziarie. Tempo qualche giorno e il capo di Paul Weiss, Brad Karp, ha capitolato: ha rinunciato alle politiche di assunzione che favoriscono le minoranze, contestate dall’amministrazione come discriminatorie, e ha accettato di dare servizi gratuiti all’amministrazione per l’equivalente di 40 milioni di dollari.
In un documento interno, Brad Karp ha sostenuto di non avere scelta perché gli studi legali concorrenti invece che dargli solidarietà cercavano di rubargli i clienti approfittando del momento sfavorevole. Forse Trump pensava che avrebbe avuto più problemi a piegare le Università, storici bastioni del pensiero liberale, ma anche su quel fronte ha già sfondato ogni resistenza in meno di due mesi.
Qui il bersaglio grosso era Columbia, l’Università progressista di New York, per mesi occupata dagli studenti filo-palestinesi che invocavano il boicottaggio di Israele per la guerra a Gaza. Quel movimento di protesta ha fatto sicuramente più danni ai Democratici allora al potere che a Trump, ma Columbia è un simbolo.
L’amministrazione Biden aveva violato un tabù e usato il controllo dei fondi federali per condizionare il comportamento delle università, in quel caso per garantire protezione alle vittime di violenze e alle minoranze. Una intollerabile «ossessione DEI», cioè per diversity, equity and inclusion, secondo i Repubblicani che ora fanno leva su quel precedente per ottenere comportamenti opposti.
Columbia ha una dotazione di quasi 15 miliardi di dollari, ma ha accettato tutte le richieste dell’amministrazione Trump soltanto per iniziare la discussione su 400 milioni di dollari di fondi federali per la ricerca che il governo ha congelato. Dopo poche settimane di pressione, Columbia ha deciso di rivedere le sue politiche sull’inclusione e di assicurare una supervisione al dipartimento di studi sul Medio Oriente che di fatto assicuri una linea favorevole a Israele e intransigente con il terrorismo di matrice palestinese.
La libertà di ricerca e di insegnamento che le Università americane – ricche, potenti e progressiste – hanno sempre vantato ed esibito, ora è condizionata alla benevolenza dell’amministrazione Trump.
Siamo soltanto a due mesi dall’inizio del nuovo quadriennio di Trump. Difficile dire come la società americana ne uscirà, di sicuro la mancanza di ogni resistenza che Trump sta incontrando nell’imporre i suoi progetti e nel colpire i suoi nemici indica che le colpe per i risultati di quello che ci attende andranno distribuite equamente.
Tra il presidente, il suo mondo e quelli che hanno accettato compromessi inaccettabili, magari sperando di guadagnare qualcosa dalle disgrazie dei concorrenti.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 26 marzo 2025







Da dove nasce l’attuale trasformazione radicale della forna di governo americana che scivola inesorabilmente verso una forma di dittatura? le sempre più frequenti deroghe all’iniziativa legislativa congressuale, che ammettono l’adozione dei decreti presidenziali, oltre che delle regulations. Tale degenerazione sta alterando irrimediabilmente un principio – quello del checks and balances – attraverso il quale l’ordinamento costituzionale statunitense si è mosso fin dai suoi primi passi, delegittimando così la funzione istituzionale del Congresso quale luogo della rappresentanza, già incredibilmente variegata, degli Stati Uniti d’America.