
In questi mesi si dibatte su “rapido e rapito” per la teologia su varie pagine e blog. Offro un piccolo contributo a partire dagli Atti degli Apostoli e dall’epistolario paolino, che sono gli unici nel Nuovo Testamento ‒ ad eccezione di Ap 12,5 ‒ che includono nel loro vocabolario questi lemmi.
Dopo l’Ascensione
Dall’Ascensione, l’azione divina si presenta come una dinamica combinata tra il Padre e il Figlio che intervengono in pienezza attraverso lo Spirito Santo. Questa combinazione è evidente in tutta la narrazione degli Atti, dove lo Spirito diventa il motore dell’annuncio, delle missioni e delle trasformazioni, ma sempre in profonda unità con il disegno del Padre e l’autorità del Figlio.
In questo nuovo contesto degli Atti, troviamo almeno due volte il participio passato, un “passivo divino”, “rapito”, che appare in contesti di estasi o di ascensione: ha una base nel greco biblico ed è legata al verbo “harpázō” (ἁρπάζω), che significa “afferrare”, “portare via” o “rapire”.
L’etimologia di rapire e rapido è strettamente collegata. Entrambi derivano dal verbo latino “rapĕre”, che significa “afferrare”, “trascinare via”, o “portare con sé con forza o velocità”.
Rapire conserva più fortemente l’idea originaria di “afferrare” o “portare via” qualcuno o qualcosa, spesso con un senso emotivo o spirituale, come nel caso dei rapimenti mistici o nel significato contemporaneo di “essere rapiti dalla bellezza”.
Rapido, invece, richiama l’idea di movimento, come qualcosa che viene trascinato o afferrato con impeto. L’elemento di forza e immediatezza insito nel verbo latino è centrale anche nel concetto di rapidità: un’azione che avviene con prontezza, quasi un “trasporto” dinamico.
Questa comune radice etimologica sottolinea un aspetto non solo fisico, ma anche simbolico e affettivo: essere “rapidi” o “rapiti” implica un movimento verso qualcosa che coinvolge e trascina. In ambiti teologici o spirituali, come abbiamo visto, questa connessione si arricchisce ulteriormente, poiché il “rapire” diventa una forma di trasporto verso la dimensione divina.
Una prima occorrenza è negli Atti degli Apostoli (At 8,39), dove Filippo, dopo aver battezzato l’eunuco etiope, viene “rapito” dallo Spirito del Signore. Il termine greco usato è “ἡρπάσθη” (hērpásthē), participio aoristo passivo di “harpázō”, che indica un’azione rapida e decisiva compiuta dallo Spirito. Filippo non agisce di sua volontà; viene afferrato e portato via divinamente.
Una seconda occorrenza è in Atti 22,17, dove Paolo racconta una visione avuta mentre pregava nel tempio di Gerusalemme. Il testo greco include il verbo “genomenou” (γενόμενου), che indica che Paolo “entrò in estasi” o fu in uno stato di “ekstasis” (ἔκστασις). Qui, la parola e “kstasis” si avvicina al concetto di essere “rapito” in senso spirituale o mentale, ma non è legata al verbo “harpázō” usato in altri contesti di rapimento fisico o trasporto. Piuttosto, descrive uno stato di stupore o meraviglia, in cui Paolo viene immerso nella presenza divina.
“Rapito e rapido” nelle lettere paoline
Il termine “rapito” torna anche nelle lettere paoline. Il primo testo è in 2Cor 12,2-4, dove Paolo descrive la propria esperienza mistica di essere “rapito fino al terzo cielo”. Anche qui troviamo il verbo “ἁρπάζω” usato nella forma “ἡρπάγη” (hērpágē), che è sempre un participio aoristo passivo, ma con lo stesso significato di “essere portato via rapidamente” o “essere afferrato”. L’azione divina rapisce Paolo in una realtà spirituale superiore.
Il secondo testo è 2Cor 12,2, dove Paolo parla di una persona (tradizionalmente interpretata come lui stesso) “rapita fino al terzo cielo”. Il verbo greco qui è “ἁρπάζω” (harpázō), nella forma passiva “ἡρπάγη” (hērpágē). Questo è lo stesso verbo che troviamo in altri contesti di rapimento fisico e spirituale, come in At 8,39 con Filippo. Qui indica un’azione esterna e divina che porta Paolo in una realtà trascendente.
Per dare un senso unitario alle quattro ricorrenze possiamo riconoscere un tema centrale che lega queste esperienze: l’azione divina che rapisce o trasporta l’essere umano, portandolo a vivere un incontro diretto e trasformativo con la realtà divina. Sebbene ci siano sfumature diverse in ciascuna ricorrenza, la radice comune è l’iniziativa di Dio che agisce con forza e prontezza per immergere l’individuo in una dimensione di rivelazione o missione.
Questa unità tematica si basa sulla “prontezza di Dio” nel cogliere il momento per rivelarsi e coinvolgere l’uomo in una missione o in una visione. Queste esperienze di rapimento non sono mai fini a sé stesse: portano l’individuo a un livello più profondo di comprensione, a una chiamata, o a una testimonianza.
Anche qui si può dire che, negli Atti, l’Ascensione segna il punto di svolta: il Risorto entra nella pienezza della comunione con il Padre, insediandosi “nel grembo di Dio”. Da quel momento, la “prontezza di Dio” si presenta come una dinamica “rapida”, in cui il Padre e il Figlio agiscono in pienezza in un’azione combinata attraverso lo Spirito Santo. Questa combinazione è evidente in tutta la narrazione degli Atti, dove lo Spirito diventa il motore dell’annuncio, delle missioni e delle trasformazioni, ma sempre in profonda unità con il disegno del Padre e l’autorità del Figlio.
L’Ascensione, dunque, non segna una separazione, ma un completamento: Gesù non è più fisicamente presente, ma la sua azione si dilata nello spazio e nel tempo grazie allo Spirito Santo. Nei discepoli troviamo non solo il prolungamento dell’opera di Cristo, ma anche la maturazione di quella comunione tra Dio e l’umanità che ora raggiunge una nuova profondità.
La chiamata di Paolo sulla via di Damasco (At 9,1-19) è spesso riletta nelle sue lettere come un’esperienza mistica e trasformativa. Sebbene il termine “rapimento” non sia direttamente utilizzato per descrivere questo evento, alcune riletture paoline si avvicinano a questa idea, sottolineando l’intervento divino e il suo carattere trascendente.
Nella lettera ai Filippesi 3,12, Paolo parla di essere stato “afferrato” da Cristo Gesù: il verbo greco usato qui è “κατέλαβεν” (katalaben), che significa “afferrare con forza”. Sebbene non sia il termine “harpázō” (rapire), trasmette l’idea di un’azione divina che lo prende e lo trasporta in una nuova dimensione di vita. Questo linguaggio suggerisce che Paolo percepisse la sua chiamata come un evento potente e sovrannaturale.
In Galati 1,15-16, Paolo riflette sulla sua chiamata come un momento di rivelazione diretta del Figlio di Dio, descrivendola come parte del piano eterno di Dio per lui. Sebbene non utilizzi il termine “rapimento”, sottolinea il carattere soprannaturale e personale di questa esperienza, che lo ha trasformato profondamente e lo ha portato a dedicarsi alla missione.
La chiamata di Paolo sulla via di Damasco può essere interpretata come un “rapimento” in senso ampio, non fisico ma spirituale, dove Paolo viene trascinato fuori dalla sua esistenza precedente e immerso nella realtà di Cristo. L’azione combinata della Trinità è immediata e irresistibile, e Paolo vive una trasformazione radicale che lo porta a una nuova vita e missione.
Queste esperienze di Paolo, e anche quelle degli Atti, sono all’origine della “trasfigurazione”, “consolazione” e di affezioni della fede, in specie della gioia e della tenerezza.
“Rapiti e rapidi” negli Atti
Nell’opera lucana, la prontezza e il coinvolgimento dei discepoli ‒ quell’azione sia “rapida” che “rapita” ‒ sono aspetti profondi e dinamici che si evolvono con il progresso della narrazione tra il Vangelo e gli Atti. Luca rappresenta un passaggio chiave: dall’iniziale incertezza dei discepoli nel comprendere Gesù, alla loro trasformazione in testimoni rapidi e ferventi dopo la Pentecoste.
All’inizio, i discepoli spesso appaiono incerti, persino tardivi nel comprendere la missione e le parole di Gesù. Tuttavia, anche in questi indugi, ci sono episodi che rivelano un coinvolgimento emotivo, quasi rapito, come nel caso Lc 24,13-35, dove i due discepoli, sebbene inizialmente disorientati e confusi, vengono gradualmente trascinati in una nuova comprensione grazie alla presenza del Risorto. La rapidità qui emerge nel riconoscimento finale: il loro cuore “arde” mentre Gesù parla, e immediatamente, senza esitazione, corrono a Gerusalemme per condividere la notizia.
Nel cenacolo (Lc 24,36-49), la prontezza di Gesù nel mostrarsi ai discepoli trasforma la loro paura e il dubbio in una comprensione profonda. Sebbene siano ancora pieni di meraviglia, la promessa dello Spirito inizia a prepararli all’azione.
Dopo l’Ascensione e la Pentecoste, la prontezza e il coinvolgimento dei discepoli diventano centrali nell’azione missionaria. A Pentecoste (At 2,1-13), lo Spirito Santo li rapisce, per così dire, in un’esperienza trascendente che li trasforma. La rapidità è evidente nella loro azione immediata: cominciano a parlare in lingue e ad annunciare il Vangelo senza paura.
La prontezza nelle decisioni e nella missione interviene subito con Pietro, che guarisce lo storpio al tempio (At 3,6-7) o Filippo che risponde allo Spirito e si avvicina all’eunuco etiope (At 8,29), i discepoli agiscono con una rapidità guidata dallo Spirito.
La dinamica “rapida e rapita” nell’azione dei discepoli non è mai fretta superficiale, ma un’azione che scaturisce dall’essere “rapiti” dalla presenza del Risorto e dalla guida dello Spirito Santo. È il caso di Pietro che si apre al cambiamento con la guida dello Spirito Santo, come nel caso della visione del lenzuolo (At 10,9-16) e l’incontro con Cornelio (At 10,34-48). In questi momenti, Pietro dimostra una trasformazione nel suo pensiero, accogliendo i pagani nella comunità cristiana.
I discepoli, trasformati dalla relazione con Gesù, sono ora capaci di rispondere prontamente alle necessità del momento e alle ispirazioni divine nell’annunciare il Vangelo, guarire, consolare e esortare. La “paraklēsis”, infatti, rappresenta un elemento strettamente legato alla rapidità di Gesù e degli apostoli, ma in una forma profondamente affettiva e spirituale. Il termine, che spesso traduciamo come consolazione”, “incoraggiamento” o “esortazione”, racchiude un senso di prontezza nell’avvicinarsi all’altro per sostenerlo, sollevarlo, e guidarlo verso la speranza.
Negli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo è il vero “paraklētos”, il consolatore, colui che guida e sostiene i credenti nella loro missione. Questo legame profondo tra rapidità e “paraklēsis” si manifesta nell’azione dello Spirito, che opera con tempestività nei momenti di crisi o opportunità, come nella Pentecoste (At 2) o nella missione di Pietro ai gentili (At 10). La “paraklēsis”, dunque, non è solo un elemento di rapidità: è il modo in cui la prontezza si traduce in un gesto di vicinanza affettiva, capace di generare speranza e trasformare le relazioni. Questo dinamismo lucano ci mostra discepoli trasformati in persone capaci di vivere la rapidità dell’azione senza perdere la profondità dell’esperienza spirituale.
Conclusione
Queste esperienze di “rapiti e rapidi” in Paolo, e anche quelle degli Atti, sono all’origine, per quanto riguarda l’azione combinata della Trinità che portano alla “trasfigurazione”, “consolazione” e alle affezioni della fede, in specie della gioia e della tenerezza.
Esse, però, sono anche l’effetto nella fede testimoniante degli Apostoli, resi abili ad essere “rapidi” ad accogliere la voce dello Spirito Santo, nella consolazione e il conforto comune. Entrambi, seppur in modi diversi, mettono in risalto “rapiti e rapidi” nell’incontro personale e trasformante con Cristo, nelle relazioni fraterne, evidenziando una dimensione esistenziale e relazionale più che istituzionale, organizzativa e riformante.
Noi siamo lontani nel tempo da Paolo e da Luca, tuttavia, non possiamo non constatare quanto sia urgente per la nostra epoca, o cambiamento d’epoca, custodire il primato delle affezioni della fede e considerare le riforme non senza di esse.





