Frammenti sulla Chiesa /8. Onorare il diritto di servire

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parrocchia

Al termine di un anno pastorale, può succedere che, nelle comunità cristiane, si presenti la necessità di organizzare un certo ricambio degli operatori pastorali a seguito della rinuncia di alcuni di loro a proseguire il loro incarico. In tali circostanze, la prassi più comune prevede che il parroco, il cappellano o il responsabile dell’associazione o del movimento contatti alcuni individui ritenuti idonei a ricoprire un ruolo che si troverebbe altrimenti vacante, e proponga loro di assumerlo.

Tale operazione talvolta viene condotta come se si trattasse semplicemente di mantenere attivi i vari servizi della comunità. Si parte cioè dal presupposto che alcuni ruoli non possano rimanere scoperti, e si fa una certa pressione su chi si ritiene più adatto affinché si renda disponibile ad assumerli.

Partecipare alla missione della Chiesa

Questo approccio molto pragmatico può far dimenticare lo spessore del servizio dei credenti, anche non ordinati, e a suggerire che questo si riduca semplicemente ad accettare un incarico da parte della guida della comunità.

In realtà, per i battezzati partecipare alla missione della Chiesa è un diritto che deriva loro dall’appartenenza al corpo ecclesiale di Cristo. Così scrive al riguardo il padre J.-M. R. Tillard:

«Una sana ecclesiologia spinge anche ad essere ancora più incisivi nell’affermazione di questa necessità [valorizzare i ministeri non ordinati]. Ne va del rispetto del diritto (jus) che il sacramento del battesimo implica. Ogni cristiano gode un diritto (jus) fondamentale che deve essere onorato, e lo gode perché membro battezzato del corpo del Cristo, divenendo per questo, sotto la grazia dello Spirito, parte in causa della missione che il corpo ha di costruirsi mediante l’articolazione di tutte le funzioni e di tutti i carismi. Una delle funzioni principali del ministero ordinato consiste appunto nel riconoscere, spesso nel far scoprire, la linea nella quale questo diritto deve essere rispettato, tenuto conto della fedeltà alla tradizione apostolica e dei bisogni concreti della comunità, e poi nell’inserirlo al giusto posto nella comunione dei servizi del vangelo» (J.-M.R. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Queriniana, Brescia 1989, 257).

Valorizzare l’identità carismatica dei cristiani non significa perdersi in inutili elucubrazioni teologiche che distolgono dal compito oneroso di trovare personale idoneo a ricoprire i vari incarichi nelle comunità cristiane. Al contrario, quando i credenti scoprono di avere dei carismi e di avere il diritto di esercitarli come il loro modo specifico di partecipare alla missione della Chiesa, assumono il servizio pastorale non come qualcosa di delegato dalla guida della loro comunità, ma come espressione della loro identità credente, e lo svolgono nel nome del Signore in modo molto più motivato e fecondo.

Affinché i ruoli pastorali siano vissuti a partire dall’identità carismatica, però, occorre che il pastore aiuti i singoli credenti a scoprire i propri carismi, cioè in quale modo sono chiamati a vivere la loro configurazione a Cristo e a partecipare alla missione ecclesiale. Si tratta di un vero e proprio discernimento vocazionale che – come rileva Tillard – normalmente richiede un intervento della guida della comunità.

In concreto, ciò comporta il dedicare un po’ di tempo ad ogni persona, non per capire come “sfruttarla” al meglio per lo svolgimento di qualche servizio, ma per aiutarla a cogliere i carismi che ha avuto in dono. Insomma, si tratta di qualcosa di meno impegnativo di un cammino di accompagnamento spirituale, ma di più delicato e complesso di una semplice chiacchierata volta a capire dove quella persona potrebbe tornare utile.

Peraltro, nel suo discernimento carismatico, un credente può giungere alla conclusione che il proprio modo di partecipare alla missione ecclesiale sia quello di impegnarsi a tempo pieno nell’animazione cristiana della realtà temporale, senza assumere particolari impegni all’interno delle comunità cristiane, ma limitandosi a vivere al loro interno la preghiera, la formazione e le relazioni.

Inoltre – secondo Tillard – i pastori devono pure verificare che l’esercizio dei carismi sia in linea con la tradizione apostolica. Questa non è che l’autentica esperienza cristiana, che ha la sua sorgente nell’evento cristologico e la sua testimonianza normativa nella fede della comunità apostolica, la quale, attraverso un complesso processo reinterpretativo, è giunta fino a noi.

Insomma, i carismi non reinventano mai da capo la dottrina della fede e la Chiesa, come se lo Spirito entrasse in campo solamente nel momento presente. Anzi, atteggiamenti di protagonismo che mettono in discussione la fede ecclesiale vanno esplicitamente silenziati.

Non è clericalismo

Questo non è clericalismo, ma un dare continuità a quel compito fondamentale degli apostoli e dei loro successori di custodire in modo autorevole la verità del Vangelo (cf. Gal 1, 6-12; At 20, 28-31 ecc.). Come ci insegna la Chiesa delle origini, in queste circostanze eccezionali la prassi sinodale, che ordinariamente è necessaria, va sospesa.

Infine – secondo Tillard – ai pastori spetta pure il compito di far rientrare l’esercizio concreto dei carismi nel tessuto organizzativo delle comunità. Questo significa occuparsi di relazioni, definizioni dei ruoli, gestione degli inevitabili conflitti che sorgono tra persone che lavorano insieme, e così via.

Questo aspetto non può essere derubricato come irrilevante o delegato integralmente ad altre persone, perché, pur essendo teologicamente poco pregnante, è comunque un ambito nel quale si gioca l’esercizio fruttuoso dell’indole carismatica dei credenti.

Dal momento che i pastori non hanno normalmente competenze di tipo organizzativo, è bene che si facciano aiutare da altre persone esperte a cogliere la complessità di queste dinamiche, in modo da promuovere organizzazioni sensate in cui ciascuno possa vivere serenamente la propria identità cristiana ed ecclesiale.

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