L’anima della “Rerum novarum” /5

di:

dottrina sociale

Nella sua encinclica Rerum novarum, Leone XIII non solo difende il diritto alla proprietà privata come pilastro fondamentale, ma collega questo pilastro alla «famiglia o società domestica», che definisce «vera, e anteriore a ogni civile società». Di conseguenza, «è assolutamente necessario» che essa goda di «diritti e obbligazioni» proprie e «indipendenti dallo Stato».

Infatti, se i poteri pubblici rappresentassero un danno anziché un aiuto per le famiglie, si tratterebbe di una vera «usurpazione dei loro diritti» e una tale società sarebbe «degna di riprovazione». E non solo: «si commette grave ingiustizia contro la famiglia, quando si si spinge l’arbitrio del potere civile fin nell’intimità del focolare domestico».

Stabilito questo limite oltre il quale si cade nell’«ingiustizia», Leone XIII sostiene che la soluzione affinché il conflitto sociale «cessi ovunque» spetti alla Chiesa. Essa, infatti, «desidera ardentemente che le classi [sociali] si uniscano tra loro» e agiscano «con giustizia e carità».

È in questo orizzonte che il Papa individua il punto di partenza: affinché venga rispettata la condizione umana, «non si può concepire una società che si fondi su un’assoluta uguaglianza fra i suoi membri». Poiché «per natura esistono tra gli uomini molte e grandi differenze» – nei talenti come nelle condizioni di partenza – e da ciò consegue per natura «una diversa posizione nella società civile e nella fortuna economica». E ciò non è di per sé negativo, perché «la società civile ha bisogno di molteplici e differenti funzioni».

Poiché la maggior parte degli uomini è chiamata a faticare di più (nei campi o in fabbrica) rispetto a chi è già benestante, il Papa accetta tale realtà, riconoscendo che «soffrire è umano» e che «non ci sarà forza né ingegno capaci di eliminare del tutto tali disagi». Anzi, «chi cerca di persuadere i poveri che debbano assolutamente vivere una vita senza fatica, senza miseria e colma di piaceri, li inganna e li illude».

Questo significa che Leone XIII si rassegna all’idea di non poter redimere la classe operaia? Al contrario: accettata la nostra natura disuguale, egli punta all’«armonia», poiché è un gravissimo errore «supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile». Questo è «contrario alla ragione e alla verità». In realtà, si tratta di due classi gemelle che devono «concordare armoniosamente», poiché «l’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale». In definitiva, la concordia «fa la bellezza e l’ordine delle cose». Mentre il contrario «non può dare che confusione e barbarie».

Per la medicina sociale di «unire i ricchi ai proletari», la Chiesa propone una via: «richiamare entrambe le classi al compimento dei rispettivi doveri». Qui il Papa elenca tali doveri, e quelli dei benestanti sono tre volte più numerosi rispetto a quelli dei poveri… A questi ultimi, tra l’altro, si chiede di «non danneggiare in alcun modo il capitale», di «evitare ogni violenza nella difesa dei propri diritti» e di «non fomentare sedizioni». Ai primi, invece, si richiede di «non considerare gli operai come schiavi», di «rispettare la loro dignità di persone», e di «tenere conto del bene delle anime dei proletari», garantendo loro, ad esempio, tempo libero per partecipare alla messa domenicale.

Si specifica inoltre che gli operai non devono essere «sottoposti a un lavoro superiore alle loro forze», con particolare attenzione a donne e bambini. E, naturalmente, che a essi va garantito un salario «giusto» («la giusta mercede»), perché defraudare qualcuno della retribuzione del proprio lavoro «è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio».

Leone XIII lancia poi un chiaro monito ai datori di lavoro («i fortunati del secolo»): siano «avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono»; e ricordino «che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice». Anche se il cammello può ancora passare per la cruna dell’ago… occorre prendere la cosa sul serio: «soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi». Va cioè ricordato che «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

A chi «non possiede beni materiali», la Chiesa insegna che «innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro». Non fu forse Cristo stesso a «farsi povero pur essendo ricco», lavorando accanto a Giuseppe come artigiano? Infine, «per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri» e «i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima».


El alma de la ‘Rerum novarum’ (V)

Analizando la ‘Rerum novarum’, León XIII no solo defiende el derecho a la propiedad privada como un pilar básico, sino que lo liga a “la familia o sociedad doméstica”, que concibe como “verdadera y más antigua que cualquiera otra”. Por tanto, “es de absoluta necesidad” que tenga “derechos y deberes propios”, “totalmente independientes de la potestad civil”.

Pues, si “los poderes públicos” suponen un “perjuicio” y no una “ayuda” a las familias, estamos ante “un cercenamiento de sus derechos” y, en consecuencia, la sociedad sería “digna de repulsa”. Es más, “querer que la potestad civil penetre a su arbitrio hasta la intimidad de los hogares es un error grave y pernicioso”.

Fijado este “límite” por el que se llega a la “injusticia”, León XIII arguye que la “solución” para “resolver por completo el conflicto” social la tiene “la Iglesia”. Y es que ella “desea ardientemente que los pensamientos y las fuerzas de todos los órdenes sociales se alíen” y obren “con justicia y moderación”.

Ahí, sitúa el punto de partida: para que sea “respetada” la “condición humana”, “no se puede igualar en la sociedad civil lo alto con lo bajo”. Porque, puesto que “hay por naturaleza entre los hombres muchas y grandes diferencias”, ya sea en “talentos” o en el punto de partida social de cada uno, de ello “brota espontáneamente la diferencia de fortuna”. Algo que no es malo en sí, ya que “la vida en común precisa de aptitudes varias, de oficios diversos”.

Como la mayoría de los hombres deben esforzarse más (en la tierra o en la fábrica) que los enriquecidos, el Papa acepta la realidad y reconoce que “sufrir es cosa humana”, siendo una certeza que “no habrá fuerza ni ingenio capaz de desterrar por completo estas incomodidades”. Es más, si algunos “prometen a las clases humildes una vida exenta de dolor y de calamidades, llena de constantes placeres, engañan indudablemente al pueblo”.

¿Quiere decir eso que León XIII ‘se rinde’ a la hora de redimir a la clase obrera? Al contrario: aceptada nuestra naturaleza desigual, se busca la “armonía”, pues “es mal capital suponer que una clase social sea espontáneamente enemiga de la otra”, como si “los ricos y los pobres” hubieran nacido “para combatirse en un perpetuo duelo”. Esto es “ajeno a la razón y a la verdad”. De hecho, estamos ante dos “clases gemelas” que deben “concordar armónicamente”, pues “se necesitan” y “ni el capital puede subsistir sin el trabajo ni el trabajo sin el capital”. En definitiva, “el acuerdo engendra la belleza y el orden”. ¿Lo contrario? Es “un bárbaro salvajismo”.

Para canalizar esa “medicina” social y “unir a los ricos con los proletarios”, la Iglesia tiene una vía: “Llamar a ambas clases al cumplimiento de sus deberes respectivos”. Ahí, el Papa desgrana la lista correspondiente a ambos, siendo la de los enriquecidos el triple de larga que la de los empobrecidos… A los segundos, entre otras cosas, se les pide “no dañar en modo alguno al capital” o “abstenerse de toda violencia al defender sus derechos y no promover sediciones”. A los primeros se les reclama “no considerar a los obreros como esclavos”, “respetar en ellos la dignidad de la persona” o que “se tengan en cuenta los bienes de las almas de los proletarios”. Es decir, que se garantice que dispongan de tiempo libre y puedan dedicar el domingo a participar en la eucaristía.

También se especifica que no debe “imponérseles más trabajo del que puedan soportar sus fuerzas”, mirando especialmente por las mujeres y los niños. Y, claro, que se garantice un salario “justo”, pues “defraudar a alguien” en el pago de su trabajo es “un gran crimen, que llama a voces las iras vengadoras del cielo”.

Yendo más allá, León XIII lanza una clara advertencia a los patrones: “Quedan avisados de que las riquezas no aportan consigo la exención del dolor, ni aprovechan nada para la felicidad eterna, sino que más bien la obstaculizan”. Así, “pronto o tarde se habrá de dar cuenta severísima al divino juez del uso de las riquezas”. Aunque el camello aún puede pasar por la aguja… Solo hace falta tomarse esto en serio: “Cuando se ha atendido suficientemente a la necesidad y al decoro, es un deber socorrer a los indigentes con lo que sobra”. Es decir, no conviene olvidar que “es mejor dar que recibir”.

A los que “carezcan de bienes de fortuna”, la Iglesia les enseña que “la pobreza no es considerada como una deshonra ante el juicio de Dios y que no han de avergonzarse por el hecho de ganarse el sustento con su trabajo”. ¿O es que el propio Cristo no “se hizo pobre siendo rico”, empleándose, junto a José, como “un artesano”? Finalmente, “la misma voluntad de Dios parece más inclinada del lado de los afligidos, pues Jesucristo llama felices a los pobres” y “abraza con particular claridad a los más bajos y vejados por la injuria”.

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