XXX Per annum: “O Dio, abbi pietà di me”

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Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Il brano di questa domenica è uno dei testi più famosi del vangelo di Luca, la parabola del fariseo e del pubblicano. Lo abbiamo ascoltato e letto moltissime volte, ma vogliamo nuovamente lasciarci interpellare e stupire da una pagina, la quale, più che un’esortazione all’umiltà, è un annuncio straordinario da accogliere e gustare nella contemplazione della scena raccontata.

Due uomini salgono al tempio

All’inizio Gesù presenta due uomini che salgono al tempio a pregare. Di essi dice subito che «uno era fariseo e l’altro pubblicano». La forza della parabola viene dal contrasto tra i due personaggi e dalla frase finale che capovolge la situazione iniziale.

Il primo a essere descritto è il fariseo; di lui si dice che sta in piedi, quindi viene riportata la preghiera che rivolge a Dio.

Potremmo essere tentati di vedere in questa descrizione del fariseo una caricatura, la rappresentazione esasperata di un ipocrita. Il suo stare in piedi però è una delle posizioni tipiche della preghiera del giudeo; anche per il pubblicano si usa lo stesso verbo, con la sola specificazione di una distanza. È quanto troviamo tradotto con «fermatosi a distanza», che letteralmente sarebbe «stando in piedi lontano»; non viene detto lontano da chi, lasciando a noi interpretare il senso di questa distanza.

Anche le parole del fariseo non vanno comprese come se si volesse evidenziare un’ostentazione, come se il fariseo si vantasse di qualcosa che in realtà non ha compiuto o si gloriasse di realizzare qualcosa di eccezionale. Quanto dice è semplicemente l’attuazione di ciò che era prescritto e normalmente compiuto dai giudei osservanti del suo tempo.

E neppure possiamo dire che il fariseo si attribuisca il merito di queste sue prestazioni. Dalla frase iniziale «O Dio, ti ringrazio» dipende tuta la sua preghiera. La parabola, cioè, vuole presentare un giusto autentico, sincero e riconosciuto come tale. Se non fosse così, le parole di Gesù «io vi dico: questi tornò a casa giustificato, a differenza dell’altro» non potrebbero stupirci e interrogarci, perché da subito penseremmo che il fariseo è in qualche modo nel torto. Il versetto finale invece ci colpisce perché opera un capovolgimento inatteso: la frase di Gesù fa del giusto un peccatore e del peccatore un giusto.

Dunque, la prima parte si conclude con un giusto sincero che ha rivolto a Dio la sua preghiera.

La supplica di un peccatore

Gesù passa quindi a descrivere il secondo personaggio, il pubblicano. I gesti che quest’uomo compie, tenere gli occhi bassi e battersi il petto, indicano contrizione e anche disperazione. Quest’uomo è davvero un peccatore e ha piena coscienza di esserlo. In questa sua tragica condizione egli chiede aiuto. La sua disperazione, pur grande, non è però totale, altrimenti non riuscirebbe a indirizzarsi a Dio.

A differenza di quello che farà Zaccheo, e di quanto era stabilito dalla legge relativamente al perdono delle colpe, il pubblicano non dice nulla sulla sua intenzione di riparare alle ingiustizie commesse. Solamente rivolge una supplica che inizia nello stesso modo della preghiera del fariseo «O Dio». L’assenza di un proposito positivo ha sicuramente colpito gli ascoltatori di Gesù. Lo stupore aumenta, se si considera che il fariseo, invece, afferma di compiere le norme relative al digiuno e alla decima, che fanno parte delle pratiche legate a un comportamento giusto e all’atteggiamento dell’uomo che si riconosce debitore di Dio.

A questo punto, perciò, abbiamo la preghiera di un giusto sincero e la supplica, incompleta, di un peccatore.

A dispetto della sincerità del personaggio fariseo e del valore positivo della sua preghiera, ci deve essere in essa qualcosa che ha condotto Gesù a sancire il diverso e contrario esito delle parole dei due uomini.

C’è un piccolo indizio che ci aiuta a cogliere questo elemento. Nel testo, infatti, si usa due volte il pronome «questo».

La prima volta è in bocca al fariseo, a indicare il pubblicano «questo pubblicano» (che dunque era vicino a lui).

La seconda volta è in bocca a Gesù: «questo tornò a casa giustificato». La ripetizione ci suggerisce che il disaccordo tra il fariseo e Dio sta nel disprezzo che il fariseo getta sul pubblicano e sui peccatori che egli rappresenta.

Il disprezzo non è solo il segno della separazione che il fariseo pone tra sé e il pubblicano; molto di più, il fariseo esclude il pubblicano dal favore di Dio. Un uomo così non può avanzare nessuna pretesa, ma neanche credere che Dio possa rivolgere a lui la sua benevolenza.

Giustificando il peccatore, senza condizioni, senza che lui offra nessun proposito, nessuna forma di riparazione, Dio adotta un comportamento diametralmente opposto a quello attribuitogli con tanta sicurezza dal fariseo. Il torto del fariseo è quello di essere un giusto che non è buono, benevolente verso le creature, a differenza di Dio che accoglie con misericordia il peccatore.

Qui è l’annuncio da accogliere e da custodire con stupore, lasciandoci provocare e interpellare da esso nelle scelte, negli atteggiamenti, nelle relazioni quotidiane: la misericordia è la legge fondamentale di Dio.

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