Gesù: generato e concepito

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villa

Nei racconti dell’infanzia di Gesù, Matteo e Luca usano due verbi che portano con sé un contesto semantico tra i più ampi del linguaggio umano: generare e concepire. Matteo dice che Gesù è «generato dallo Spirito Santo», Luca che è «concepito dallo Spirito Santo». Due parole che non si limitano a descrivere un fatto biologico, ma aprono alla rivelazione di un mistero.

Su questo tema si è espresso anche Vito Mancuso nel suo ultimo libro Gesù e Cristo e in un articolo su La Stampa (9 novembre 2025): «l compito della storiografia è di generare comprensione, il compito della teologia è di generare speranza; ma occorre che quest’ultima lo faccia in modo compatibile con la comprensione acquisita. Gesù è storia, Cristo è idea: i due personaggi e i rispettivi ambiti vanno rigorosamente distinti, ma al contempo armoniosamente integrati».

L’attribuzione di due caratteri differenti a Gesù e a Cristo non è una questione estetica, ma di contenuto e, prima ancora, di narratività della sua vicenda, radicata nei Vangeli e in particolare in Luca. L’evangelista affida al suo lettore l’esame della veridizione. Come lettore, vorrei mostrare come questi due poli si intreccino, attraverso l’esperienza dei testimoni, del lettore ideale Teofilo e dei lettori reali di oggi.

Il fatto che il Padre scelga di «generare» il Figlio significa che attinge a ciò che è proprio del generare umano – il desiderio, la libertà, la volontà, la decisione –; in altre parole, la concretezza dell’atto e delle affezioni. Questo inizio pone le basi per l’atto conclusivo: la proclamazione di Pentecoste, quando Pietro annuncia che «Dio lo ha costituito Signore e Cristo» (At 2,36). Non un concetto astratto, ma il compiersi dell’azione concreta e carica di affezioni dell’umanità risorta del Figlio, fino alla veridizione finale di Pietro nella Chiesa generata dallo Spirito.

Dai primi secoli ad oggi

«Il Verbo si è fatto carne» – dice Giovanni. Quell’evento genera una vicinanza inattesa, tanto da suscitare un sussulto entro il pensiero, lasciando a bocca aperta. Le generazioni dei primi secoli avvertirono la necessità di pronunciare quell’evento senza allontanarsi troppo dal dettato giovanneo.

Cercando le parole per dire quell’evento, il pensiero cristiano dei primi secoli iniziò i primi affondi sulla conoscenza della Trinità. Si trovò così nella necessità di non allontanarsi troppo da quell’intimità che i Vangeli trasmettono nelle loro relazioni. Il credo niceno-costantinopolitano, infatti, dichiarava «Generato, non creato, della stessa sostanza del Padre». La relazione con il Padre e il Figlio spingeva l’affondo sulle loro relazioni interne e ad extra sul mondo, cercando le parole per dire il tutto, ma anche l’intimità affettiva attestata dai Vangeli. Il pensiero greco poteva parlare di sostanza e di conoscenza, ma non disponeva delle risorse per dire l’intimità affettiva evangelica.

Oggi possiamo riconoscere che, da allora ad oggi, non si sono compiuti passi significativi senza tornare a quell’intimità evangelica. La rivelazione del modo generativo della Trinità segnala che l’atto della generazione, nel suo senso proprio e compiuto, è un atto di affezione: generare significa far essere nel voler bene.

Non solo: la generazione apre a un’alterità che non può essere semplicemente riassorbita nel significato di una riproduzione, di una replica, di una copia o di una clonazione. È un linguaggio che, fino a poco tempo fa, sarebbe stato impensabile applicare a Dio, ma che oggi apre una prospettiva nuova, liberando dal futile esercizio di far tornare i conti dell’uno e del tre.

E ci fa scoprire che la salvezza non si trova nell’evidenza dell’incontrovertibile, ma nell’invocazione della libertà di un affidabile: un Dio che si consegna come relazione e promessa, non come dimostrazione.

Il desiderio e la cura del Padre

Il generare del Padre non è un gesto isolato né un atto discendente che si compie dall’alto senza coinvolgimento umano. Non è un evento che si esaurisce nella nascita, ma un processo che si intreccia con la storia e con le risorse dell’umanità.

Il Padre, nel generare il Figlio, si serve di ciò che è proprio del generare umano: il desiderio, la libertà, la volontà, la decisione.

La categoria di generazione porta con sé una connotazione affettiva intrinseca. Non è una semplice produzione o una partecipazione di sé, ma un rimando a un ordine degli affetti, a una costellazione di possibilità della giustizia. Generare significa costituire un’alterità: è il primo, e forse il più grande enigma della vita.

Il vivente si riproduce in un’alterità che non è mai una replica, una copia o un’impronta: è un novum, una vita singolare e irripetibile. Trasmette una vita che non ha inventato, ma che ha ricevuto e si trova a consegnare. Nel caso dell’umano, che vive nello spirito e nella comunione con altri umani, la generazione si esprime come un fronteggiamento dialogico: un incontro che metabolizza l’intera relazione affettiva. In questo incontro si apre una enigmatica dislocazione riflessiva: il vivente si trova di fronte a sé stesso in una forma nuova e irriducibile.

Chi genera non conosce pienamente questa dislocazione e, in realtà, non la conoscerà mai. Essa si accende proprio nel momento in cui la generazione porta fuori dal rispecchiamento – dalla semplice somiglianza o replicazione – e annuncia un’interiorità inaccessibile. Questa interiorità si manifesta già nel primo incrocio degli sguardi, come qualcosa di irreparabile e definitivo.

Il corpo della nuova singolarità diventa così un diaframma sensibile allo spirito: un’esteriorità che è soglia permeabile. Espone e custodisce, comunica e dissimula, corrisponde all’affinità del sensibile e insieme annuncia l’eterogeneità.

Nella generazione del Figlio Gesù, le risorse umane sono pienamente coinvolte.

Il grembo di Maria diventa spazio di accoglienza, luogo corporeo in cui il concepito cresce e prende forma.

La libertà di Maria si esprime nel suo “sì”, che apre la via all’azione dello Spirito.

La giustizia di Giuseppe si manifesta nella sua scelta di custodire Maria e il bambino, inserendo Gesù nella genealogia di Davide.

La genealogia di Israele radica il Figlio nella storia concreta di un popolo, mostrando che il generare divino non cancella ma assume la trama umana.

Il concepito cresce nel grembo di Maria, ma il Padre ne ha cura per tutto il suo tempo, e più ancora nella nascita e negli episodi che seguono.

Dal concepimento alla missione

Il Padre veglia sul Figlio concepito e nato da Maria, custodito dalla giustizia di Giuseppe. La sua cura non si limita all’inizio, ma accompagna il Figlio lungo tutta la vita.

Infanzia e adolescenza: il Padre sostiene Gesù nel momento in cui, dodicenne, rivela la sua coscienza filiale dicendo a Maria: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49). È il segno che la relazione con il Padre non è solo origine, ma orientamento permanente, che guida la crescita e la maturazione del Figlio.

Battesimo al Giordano: il Padre conferma la missione del Figlio con la voce dall’alto: «Tu sei il Figlio mio, l’amato; in te mi sono compiaciuto» (Mc 1,11; Lc 3,22). È un atto di riconoscimento e di investitura, che inaugura il ministero pubblico e manifesta la comunione profonda tra Padre e Figlio.

Missione e passione: il Padre accompagna Gesù lungo la predicazione e i segni del Regno, anche quando la sua presenza sembra silenziosa. È una cura discreta ma costante, che si fa sentire nella trasfigurazione, nella preghiera, e resta misteriosamente presente nella solitudine della croce.

Risurrezione: il Padre rialza il Figlio, restituendogli la vita in forma nuova. È il compimento della promessa, la conferma definitiva che il generato non è abbandonato, ma portato alla pienezza.

Così l’accadere del “generato” non si esaurisce all’inizio, ma si dispiega come un filo continuo di cura e di affezione, che attraversa la vita di Gesù sino alla risurrezione.

La fede come l’aver perseverato e come riconoscimento del Risorto

Nel percorso del Figlio Gesù si inserisce la chiamata dei discepoli, che condividono con lui i momenti salienti della sua vicenda, facendoli diventare anche i propri. Durante la missione, i discepoli sono chiamati a una fiducia crescente in lui e nel Padre.

Nel Vangelo di Luca, il loro cammino è un viaggio di crescita e di trasformazione: dalla chiamata iniziale alla passione, passando per resistenze, incomprensioni e pentimenti, emerge una fragilità umana continuamente redenta dalla grazia divina.

Pietro mostra grande devozione verso Gesù, ma anche la sua umanità e fragilità. Nonostante i limiti dei discepoli, Gesù li riconosce come fedeli: «Voi avete perseverato con me nelle mie prove» (Lc 22,28). Con queste parole, Gesù riconosce la fede in loro come perseveranza accanto a lui, confermandoli come strumenti scelti per portare avanti la sua missione. Prima del rinnegamento, Gesù assegna a Pietro un compito cruciale: «Conferma i tuoi fratelli» e «prego per te perché la tua fede non venga meno». Nonostante il rinnegamento imminente, Gesù dimostra una fiducia profonda in Pietro, pregando per lui affinché la sua fede non venga meno. Questo incarico anticipa il ruolo centrale di Pietro nella comunità cristiana.

Nel percorso finale di Luca, il Risorto si mette lui stesso in ricerca dei discepoli, rovesciando la postura di Maria che cercava Gesù dodicenne: ora è il Risorto a cercare i suoi. Con questa ricerca, egli rende possibile la riformulazione della loro storia alla luce di un nuovo criterio di senso, che apre le condizioni di un nuovo incontro.

L’evangelista rassicura che Gesù vi acconsente, facendo coincidere la preghiera dei discepoli di Emmaus con la sua intenzione: «Egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29). Pur passando attraverso il buio della morte di Gesù, il loro futuro immaginato cambia radicalmente quando riconoscono il Cristo risorto: la fede si compie nel riconoscimento del Risorto.

L’ascensione e il compiersi del grembo di Dio

L’Ascensione non è un ritorno di Gesù allo stato precedente del Verbo, ma il compimento dell’incarnazione con tutto ciò che di umano egli ha vissuto nel suo corpo, negli affetti e nelle relazioni coltivate lungo la sua vicenda storica. È la destinazione finale rispetto all’incarnazione, il momento in cui l’umanità del Figlio, trasfigurata nella risurrezione, viene accolta nel grembo del Padre.

Solo qui, nel grembo di Dio, le relazioni tra il Padre e il Figlio assumono una pienezza nuova e inaugurano un’azione loro e combinata, inedita, che si estende su tutto il creato. Il Figlio, generato e concepito, non è più soltanto custodito, ma partecipe della gloria e della signoria del Padre. Il tempo del generato si completa nella forma di un umano risorto, con il suo corpo glorificato accolto nel grembo del Padre: in questo gesto si rivela l’intimità trinitaria.

Il corpo del Risorto, con le sue affezioni trasfigurate, entra nel grembo di Dio e inaugura una nuova ospitalità divina. Così il “generato” e il “concepito” non sono soltanto verbi narrativi, ma eventi che fondano una comunione definitiva: l’umanità del Figlio è assunta nella vita trinitaria e diventa principio di relazione per la Chiesa.

Questa pienezza non riguarda soltanto la Chiesa, ma si riverbera sull’intero creato. Come scrive Paolo (Rm 8,19‑23), la creazione stessa «geme e soffre le doglie del parto» e attende di essere liberata dalla corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. L’Ascensione, dunque, non è solo il compimento della vicenda del Figlio, ma l’inizio di una signoria condivisa che apre la via alla trasfigurazione del mondo intero.

In questo senso, la prospettiva qui proposta si distingue da alcune forme di post‑teismo che, come ricordato da https://www.settimananews.it/libri-film/verso-un-neo-cristianesimo/, tendono a giustapporre «Gesù e Cristo» come due poli uniti da una semplice e. Qui, invece, la verità sta nella progressione dell’accadere: Gesù, il generato, diventa Signore e Cristo per azione del Padre, nel passivo divino di Atti 2,36. Non un concetto metafisico, ma un processo storico e corporeo che culmina nell’Ascensione e si apre alla confessione della Chiesa nello Spirito.

La fede come affidamento al Padre

La progressione dell’accadere delle ripetute apparizioni del Risorto, da una parte, rinfranca la fede dei discepoli; dall’altra, crea smarrimento quando egli scompare o si assenta. Le apparizioni mettono in risalto come la presenza di Gesù risorto sia percepita in stretta relazione con la sua assenza fisica.

Il tempo delle apparizioni è un tempo in cui i discepoli si allenano alla sua assenza, che non è un vuoto, ma un modo diverso di essere presente: un risvolto che rende possibile la comprensione della sua fenomenalità. Così è anche per l’esperienza dell’Ascensione, che va percepita non solo come separazione fisica definitiva, ma come trasformazione della sua presenza.

L’Ascensione, isolata da ciò che la precede e la segue, non ha senso. La reazione spontanea dei discepoli è che ne avrebbero fatto a meno, mentre a loro pareva sufficiente anche solo la presenza “ogni tanto” del Risorto, che cancellava il “brutto sogno” della passione ed esaltava la sua vicinanza. C’è voluto l’intervento dei «due uomini in vesti bianche» per distoglierli da questa tentazione.

L’Ascensione è l’evento con il quale Gesù acquisisce la tipologia della “Signoria”, fissando la sequenza dei tipi assunti sino a quel momento. Nel farlo, la fede come riconoscimento del Risorto si trasforma in una confessione a cuore aperto che deve essere vissuta nell’assenza fisica di Gesù, ma non senza la sua presenza premurosa.

L’Ascensione allora diventa l’evento e l’occasione che rende possibile una fede diversa dal solo riconoscimento del Risorto. I discepoli passano a un affidamento in Dio, novità e singolarità tipicamente cristiana, che essi stessi hanno vissuto, nonostante qualche resistenza. Essa è resa disponibile al lettore modello, Teofilo, e a tutti i lettori reali, non solo nel presente, ma anche nella tensione escatologica. Questa novità si manifesta solo accogliendo l’intera vicenda storica di Gesù e abbandonandosi alla stessa destinazione della vita creata.

Pentecoste come veridizione

Nel discorso di Pietro a Pentecoste si intrecciano le relazioni tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,32‑33). Qui si mostra la dinamica trinitaria: il Padre risuscita e innalza il Figlio, il Figlio riceve lo Spirito e lo effonde sulla comunità.

Solo a Pentecoste la comunità proclama apertamente ciò che era stato annunciato all’inizio: «Dio lo ha costituito Signore e Cristo» (At 2,36). L’angelo aveva parlato ai pastori, Giovanni aveva detto tutto nel Prologo, ma la verità del generato e del concepito diventa confessione di fede solo alla fine, quando lo Spirito apre la bocca dei discepoli. Non un enunciato astratto, ma una veridizione: la parola che nasce dall’esperienza vissuta, dalla presenza del Risorto e dall’effusione dello Spirito.

Pentecoste è, dunque, il momento in cui la Chiesa, generata dallo Spirito, prende voce e dice ciò che Dio ha compiuto. La proclamazione di Pietro non è un titolo teologico aggiunto dall’esterno, ma la manifestazione di una verità che si è compiuta nella carne e nella storia. È la parola che nasce dall’accadere, non dalla metafisica: il Figlio, generato e concepito, innalzato e glorificato, diventa principio di comunione e di missione.

In questo senso, la veridizione di Pentecoste mostra che la fede non è un concetto da definire, ma un evento da confessare.

La parola della Chiesa è resa possibile dall’azione combinata del Padre e del Figlio nello Spirito: un’azione che non si limita a custodire, ma che apre il grembo di Dio come spazio di ospitalità per l’umanità risorta e per il creato intero.

La fede ispirata dallo Spirito Santo

Luca mostra una vera e propria evoluzione della fede nell’opera lucana. La fede nel Risorto si trasforma in una fede vissuta nell’assenza fisica di Gesù, ma sostenuta dalla sua presenza premurosa. È lo Spirito Santo, promesso da Gesù, che darà corpo e forma alla fede dei discepoli, «colmando del conforto dello Spirito Santo» (At 9,31).

Il passaggio dal Vangelo agli Atti corrisponde al passaggio dalla “cristologizzazione del Regno di Dio” alla “cristologizzazione dei testimoni”. Si passa dal riconoscimento del Risorto come Signore alla conformazione dei testimoni al Signore risorto. La fede è una sola, ma Luca ne mostra due modalità: quella dei discepoli nel Vangelo e quella dei testimoni negli Atti. È un passaggio dall’essere discepoli all’essere testimoni, dal conoscere al praticare. La solidità del racconto è consegnata a Teofilo, perché anche lui possa vivere una fede testimoniale.

Dopo l’Ascensione, Luca mostra gli effetti di questa evoluzione: la fede passa da un’esperienza personale con Gesù a una fede comunitaria e missionaria. Nel Vangelo, la fede è legata all’incontro diretto con Gesù. Negli Atti, invece, la sua assenza fisica è colmata dall’azione dello Spirito Santo, che guida la comunità e trasforma la paura in coraggio, dando forza alla predicazione.

Mentre nel Vangelo vediamo personaggi minori accogliere Gesù singolarmente, negli Atti la fede diventa un movimento comunitario: i credenti si uniscono, condividono beni e vivono una fede che si esprime nel servizio reciproco. La fede non è più solo personale, ma si traduce in vita comune, preghiera e solidarietà.

Nel Vangelo, Gesù si muove principalmente tra gli ebrei. Negli Atti, la fede si apre ai pagani, segnando un cambiamento fondamentale nella missione cristiana. Pietro comprende che la salvezza è per tutti, anche per i non ebrei. Nei Vangeli, i discepoli spesso faticano a comprendere Gesù e temono le autorità. Negli Atti, invece, diventano testimoni coraggiosi, affrontando persecuzioni pur di diffondere la fede. Con Stefano, la fede diventa un impegno radicale, fino al dono della vita.

Nel Vangelo, Gesù è il Maestro. Negli Atti, la guida passa agli apostoli, soprattutto Pietro e Paolo, che diventano protagonisti della diffusione della fede. La fede si espande oltre i confini di Israele e arriva a Roma, cuore del mondo antico. Negli Atti, la fede non è più legata a un luogo o a una persona fisica, ma diventa un cammino guidato dallo Spirito e aperto a tutti i popoli. Se nel Vangelo la fede è riconoscere Gesù, negli Atti è testimoniarlo e diffonderlo.

Conclusione

Dal grembo di Maria al grembo di Dio, il Figlio è custodito dal desiderio e dalla cura del Padre. Il generato e il concepito non sono concetti astratti, ma un accadere continuo: corpo, affezioni, storia. La fede della Chiesa, a Pentecoste, raccoglie questo filo e lo dice come verità vissuta: Gesù è il Signore.

Questo inizio pone le basi per l’atto conclusivo, che non si comprende senza ciò che era stato anticipato nell’introduzione. «Signore e Cristo» (At 2,36) non è un enunciato concettuale, ma l’accadere e il compiersi dell’azione corposa e carica di affezioni dell’umanità risorta del Cristo. È la veridizione di Pietro e della comunità nello Spirito: non un titolo teologico aggiunto dall’esterno, ma la confessione di ciò che Dio ha compiuto.

Il dibattito contemporaneo, come mostrato anche in https://www.settimananews.it/libri-film/verso-un-neo-cristianesimo/ nel confronto con il post‑teismo, tende talvolta a distinguere «Gesù» e «Cristo» come due figure giustapposte: Gesù, profeta storico; Cristo, costruzione teologica dei discepoli. In questa prospettiva, l’incarnazione sarebbe già il compimento di Dio in Gesù, o addirittura una manifestazione di una “logica eterna” che si esprime in diverse tradizioni religiose.

La differenza decisiva è che l’incarnazione non è già il compimento, ma l’avvio di un processo che si dispiega nella storia e si compie solo nella risurrezione, nell’ascensione e nella proclamazione di Pentecoste. Non basta dire che Dio «si è fatto carne»: bisogna riconoscere che il Padre ha accompagnato il Figlio lungo tutta la sua vicenda, fino alla veridizione finale della Chiesa.

Così il “generato” e il “concepito” non sono concetti metafisici, ma eventi corporei e affettivi che trovano il loro senso pieno solo nella confessione comunitaria: Gesù, il crocifisso risorto, è davvero il Signore e il Cristo.

Ed è proprio nell’azione combinata della Trinità – il Padre che genera e accompagna, il Figlio che vive e dona, lo Spirito che trasforma e apre – che si innesta l’evoluzione parallela della fede dei discepoli. La loro esperienza, dalla fragilità iniziale al coraggio della testimonianza, riflette e rende visibile il cammino stesso del Figlio: dal grembo di Maria al grembo di Dio. La fede della Chiesa nasce così come eco di questa azione trinitaria, e diventa confessione viva che unisce la vicenda di Gesù con la storia dei suoi discepoli, fino a noi.

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