Chiesa e universalismo: un patto tra i diversi

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Per inquadrare correttamente l’auspicabile discussione sul ruolo della Chiesa cattolica nel mondo attuale occorre per prima cosa definire quest’ultimo.

A me sembra che il modo migliore per farlo è constatare che, per la prima volta dalla fine del primo conflitto mondiale, ci troviamo senza un’istituzione universale: alla fine della Società delle Nazioni è seguito, senza certificazione ovviamente, il costante collasso delle Nazioni Unite.

L’eclissi dell’ONU

Il fallimento della conferenza sull’aiuto internazionale di Siviglia era annunciato dal rifiuto di parteciparvi degli Stati Uniti, poi dei 70 Paesi annunciati se ne sono presentati 50, e tra gli assenti spiccavano non solo i “donatori”, ma anche il leader dei Paesi in via di sviluppo, il Sudafrica: una presa d’atto.

Oltre alla progressiva riduzione della cooperazione ci sono i conflitti, che si susseguono e accavallano, ma nessuna operazione di peacekeeping viene decisa e quelle varate quando l’ONU era ancora in vita hanno un senso formale e sempre minore.

Molto si dovrebbe dire per indicare l’eclissi delle Nazioni Unite, ma visto che se ne parla da tempo forse è l’ora di mutuare dai nostri codici l’idea che dopo dieci anni di scomparsa è lecito parlare di “morte presunta”.

La Chiesa cattolica e la scomparsa delle istituzioni universali

Siamo dunque in un quadro nuovo, determinatosi nel tempo ma certamente diverso da quello che abbiamo ritenuto “il quadro del mondo” dal 1918 e ancor più definitivamente da quando fu istituito il sistema ONU.

La scomparsa delle istituzioni universali, globali, rende la Chiesa cattolica unica: è la sola istituzione universale, o globale, rimasta, con una visione universalista chiara e così riassunta da Leone XIV: “Ciascuno di noi, nel corso della vita, si può ritrovare sano o malato, occupato o disoccupato, in patria o in terra straniera: la sua dignità però rimane sempre la stessa, quella di creatura voluta e amata da Dio “.

Questo fermezza nel giocarsi tutto sull’universalismo le conferisce una responsabilità non propriamente sua: è la sola espressione dell’universalismo, l’ultima testimone di questa visione che molti condividono – sebbene con prospettive che non coincidono in altri aspetti con quella ecclesiale.

Infatti non esiste un solo universalismo, diciamo una sola utopia, e questo crea un problema evidente: la necessità di un rapporto tra il mondo secolarizzato che ha fatto sua la visione “tendenzialmente universalista” che ha dato vita alla Dichiarazione universale dei diritti umani e la Chiesa. Non coincidendo in tutto, una agire comune sarebbe una novità molto positiva. Possibile? E come?

La Chiesa e i secolarizzati

Si parte da una necessità oggettiva di questi secolarizzati: sono privi di rappresentanza, politica ma anche culturale. Sanno che l’universalismo credente non è analogo al loro, possono trascurare la Chiesa? E può la Chiesa trascurarli?

Non c’è lì un “seme” da riconoscere? Capirsi e accettarsi vicendevolmente sarebbe una grande rivoluzione, una reciproca apertura al pluralismo. Può la Chiesa divenire riferimento per chi non la condivide su diversi aspetti?

Nella nostra storia recente ci sono stati diversi riferimenti del genere: la Francia, l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti, per qualcuno addirittura direi il Sud Africa. Si pensi ad esempio cosa ha significato la Francia per un arabo dissidente: ha respinto con fermezza il colonialismo francese, ma ha visto in Parigi un modello sociale agognato, uno spazio in realtà anche “suo”.

Oppure si provi a pensare cosa hanno significato gli Stati Uniti per tanti giovani ribelli, antagonisti, che condannavano la pretesa statunitense di essere i gendarmi del mondo, ma ne sceglievano la musica, i poeti, ne indossavano i jeans: in un certo senso, come Parigi per i citati arabi, l’America era uno spazio anche “loro”.

Oggi il vasto mondo non credente (che molto spesso poi è post-credente) si sente sfidato dalla crisi evidente dell’universalismo, della sussistenza di un riconoscimento del mondo come lo definisce la Dichiarazione universale dei diritti umani, ed è lontano dalla Chiesa, la critica per alcune sue posizioni, non la capisce, ma quando si tratta di esprimersi su tanti problemi dell’oggi non può farne a meno, quello spazio è uno spazio anche “suo”.

Per una Chiesa anche di chi in chiesa non ci va

Si può fare la Chiesa solo con chi va in Chiesa? Il post-credente non interpella? E dall’altra parte, si può sperare in un leggero, iniziale ritorno dell’universalismo senza interloquire con la Chiesa?

Siccome i fenomeni politico-culturali sono trasversali, per onestà e chiarezza va detto anche che come esiste (e cresce) la parte opposta di secolarizzati, quella che rifiuta “l’universalismo tendenziale” così esiste (e cresce) la parte di mondo credente che rifiuta l’universalismo perché convinta che fuori dalla verità di fede ci sono solo false credenze e quindi una falsa umanità.

Quello dei secolarizzati universalisti è un mondo diffuso, non organizzato, senza istituzioni, addirittura senza più luoghi, anche politici; l’onere del primo passo così non può che cadere sulle spalle della Chiesa, delle sue strutture centrali e territoriali. Sarebbe un azzardo?

La scelta universalista di questi secolarizzati attesta che ritengono loro dovere avere un’idea propria di cosa sia il bene comune e impegnarsi per esso. Ma essendo noto che su alcuni temi le distanze sono pesanti, come si potrebbe procedere?

Papa Francesco ha sostenuto che le posizioni della Chiesa sulle questioni “etiche sensibili” sono note e assodate, ma la Chiesa non deve parlare sempre e solo di questo, diede un’indicazione di metodo fondamentale, a mio avviso decisiva: non si riesce a capirsi vicendevolmente se ci si sofferma subito su ciò che divide, è invece necessario partire da ciò che unisce.

Quando emerge che due persone diverse hanno delle convergenze, l’assolutezza della loro divergenza scompare e si apre uno spazio nuovo, non tanto teorico, soprattutto reale.

Un patto fatto di assonanze e dissonanze

Uno dei risultati più importanti della nascita di un “campo” con al suo interno assonanze e dissonanze starebbe nel dire che l’universalismo non pretende di imporre un pensiero unico, una convergenza assoluta.

Sul versante opposto, quello nazionalista, si teme il pensiero unico, l’intenzione di uniformare, distruggere le identità. Ma assegnare a tutti analoga dignità non vuol dire rendere tutti uguali, questo è noto: siamo uguali perché diversi.

Meno evidente è che non esiste una sola ricetta per risolvere le questioni politiche ed etiche. Il punto critico di un certo universalismo illuminista è stato quello di ritenere che ogni domanda dovesse avere una sola risposta giusta; e che le risposte a tutte le domande dovessero essere coerenti tra di loro, altrimenti sarebbe stato il caos. Questo rischio è proprio anche delle interpretazioni strettamente dottrinali della religione.

Riserva escatologica e universalismo

L’universalismo è l’utopia, che va tenuta viva nella piena consapevolezza però che se poi si tentasse di realizzare l’utopia sulla terra si finirebbe nella peggiore distopia.

Questo è stato l’errore mortale dell’universalismo di un certo illuminismo, quello che come spiega Isaiah Berlin, ha portato i romantici, loro avversari, a sostenere che l’uomo ha radici, appartiene. Appartiene a un gruppo umano, non all’umanità, perché a loro avviso solo un tedesco può capire una canzone popolare tedesca, il suo eterno valore spirituale e identitario. È per questo che non potranno concepire l’uomo cosmopolita.

Questa idea di diversità convince, può avere un senso sebbene elimini le evidenti influenze esterne che ci condizionano, a volte ci plasmano. Guarda caso nella mitologia Europa compare nei territori fenici, a Tiro, poi Giove la porta in volo a Creta, luogo di nascita dell’Europa.

Ebbene, i segni più antichi di civiltà trovati dagli archeologhi a Creta sono vasi fenici. Josephine Quinn ne deduce che più che a foreste di alberi l’umanità è più simile a un prato fiorito, che nel trasporto dei pollini trova la sua vita.

Nel prato di chi riconosce la necessità di un “tendenziale universalismo” non vanno negate le identità, ma dimostrato che il pluralismo è l’unico modo per crescere insieme.

Se, come l’intera umanità, noi vedessimo così anche il campo universalista da creare tra diversi, potremmo immaginare che tra i diversi fiori di questo prato, una volta che ci si riconosca come tali, si determinino ulteriori convergenze, o punti di incontro, senza pretendere un accordo totale che non ci sarà mai; il conflitto non va risolto, è vitale se non propone contraddizioni, quelle che vanno capite.

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