
In vista della imminente apertura del nostro Convegno annuale, venerdì 7 novembre, ore 16, ad Albino (BG), riproponiamo il testo (pubblicato lo scorso 19 ottobre) di presentazione dell’evento dedicato quest’anno al tema: La solitudine dell’Europa. Le Chiese e l’Unione
La solitudine dell’Europa. Le Chiese e l’Unione: è il titolo che abbiamo dato al nostro appuntamento annuale con i lettori (lo terremo ad Albino, Bergamo, il prossimo 7-8 novembre). L’equilibrio internazionale che ha retto per ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e dopo il crollo del muro (1989) sta andando in frantumi. È in atto una ridefinizione dell’egemonia mondiale. Se non vogliamo rassegnarci al ruolo di periferia ininfluente e accettare come inevitabile la consunzione delle istituzioni internazionali il futuro possibile si chiama Europa. I singoli Stati europei (Italia compresa) non sono in grado di avere una parola efficace sui futuri equilibri. Un cambiamento che interpella anche la Chiesa e le Chiese nel loro compito di annunciare il vangelo.
L’equilibrio mondiale è saltato
L’aggressione militare russa all’Ucraina, l’indirizzo nazionalistico dell’attuale amministrazione americana e la candidatura all’egemonia della Cina spostano la direzione dell’economia dal mercato alla politica degli Stati più potenti sostituendo alle regole condivise la potenza militare, alla collaborazione il contrasto, alla pace la minaccia della guerra.
L’Unione Europea è travolta da un triplice shock: militare, economico e ideologico. La guerra in Ucraina ha mostrato le pretese imperiali della Russia di Putin che ha riportato il conflitto bellico in Europa e l’insufficienza delle forze di difesa continentali nel momento in cui gli Stati Uniti ridimensionano i propri impegni nell’Alleanza atlantica. La questione del riarmo si impone rovesciando sui cittadini, le istituzioni e le Chiese un compito di risposta dopo ottant’anni di pace.
L’amministrazione americana ha rimesso in discussione il libero mercato e sta imponendo pesanti dazi a tutti i paesi anche alleati per promuovere i propri interessi impedendo ogni regolamentazione a danno delle proprie imprese. Dal punto di vista ideologico il «trumpismo» va oltre la tradizione liberale del partito repubblicano. Con l’aiuto e il controllo delle nuove tecnologie e delle reti social ha mostrato con l’appoggio all’attacco al Campidoglio (2021) di volere reimpostare e riscrivere le norme della democrazia e, forse, di archiviarla.
Un attacco frontale ai principi che hanno regolato la nascita e che guidano oggi l’Unione Europea.
Prova di tensione per l’Europa
Il cambiamento ha reso evidente le fragilità dell’impresa politica e istituzionale europea, già provata da decenni in cui gli interessi degli Stati hanno lentamente ripreso i loro spazi e la delega di sovranità si è fermata. Restano fragili i grandi progetti comuni, l’urgenza di una politica estera condivisa e i compiti di una difesa militare. Tanto più che alcuni Stati come l’Ungheria di Viktor Orban si oppongono a ogni passo in avanti nella pretesa di avere i vantaggi dell’Unione senza assumere i conseguenti impegni. Un indirizzo politico interpretato da molte altre forze politiche come la Lega Nord in Italia, l’Alternative für Deutschland in Germania o il Rassemblement National in Francia. Non basta più la pur preziosa opera di regolamentazione di Bruxelles se si evita di affrontare la questione più difficile e cioè l’integrazione politica dei paesi dell’Unione.
Le emergenze si moltiplicano a partire dall’inerzia di Governi e istituzioni che sembrano riluttanti ad assumersi responsabilità davanti all’accelerazione che la storia impone.
C’è un dovere, ricordato più volte dal presidente Mattarella, di difendere la democrazia nascente in Ucraina con l’impegnativo compito di una difesa europea che non sia un semplice prolungamento delle pretese statunitensi, né solamente una risposta alla spinta verso un riarmo sciolto da ogni vincolo di indirizzo. Costruire un apparato di difesa autonoma richiede grandi investimenti e un diffuso consenso sapendo che questo condizionerà la spesa pubblica e aprirà il rischio della sofferenza di eventi che si volevano rimuovere dal vissuto comune. I singoli Paesi europei non sono in grado di farcela da soli davanti alla cyber-guerra e al controllo dello spazio. Una delle partite decisive si gioca sulla tecnologia e le grandi piattaforme. Chi controllo i dati condiziona le persone e con queste arriva a determinare la forma democratica. Anche in questo caso l’Unione ha perso terreno rispetto a USA e Cina.
Come ha detto Mario Draghi (22 agosto): «Un punto è ormai chiaro dal modo in cui si sta evolvendo l’economia mondiale: nessun Paese che voglia prosperità e sovranità può permettersi di essere escluso dalle tecnologie critiche. Gli Stati Uniti e la Cina usano apertamente il loro controllo sulle risorse strategiche e sulle tecnologie per ottenere concessioni in altre aree: ogni dipendenza eccessiva è così divenuta incompatibile con la sovranità del nostro futuro. Nessun Paese europeo può avere da solo le forze necessarie per costruire la capacità industriale richiesta per sviluppare queste tecnologie».
Ci sono molte altre emergenze dall’industrializzazione ai processi formativi fino a quelle di cui poco si parla come il declino demografico che sta togliendo futuro al paese e all’Europa, assieme a molte fragilità di funzionamento delle istituzioni comunitaria: dallo scarso sovvenzionamento da parte degli stati, alla devastante concorrenza fra essi sul tema fiscale fino alla necessità dell’unanimità delle decisioni oggi diventata del tutto incomprensibile.
Più in generale vi è un problema di consenso delle popolazioni al progetto europeo. Al di là delle singole criticità come le aree periferiche, la mancanza di coperture medica, l’assenza di trasporti efficienti, il modesto livello delle scuole ecc., vi è la domanda dei valori di riferimento dell’impresa e di una «visione» capace di motivare l’impegno e trainare i cuori.
Le Chiese: sfide e fragilità
Su questo si innesta il compito specifico delle fedi e delle Chiese cristiane in particolare.
La Chiesa cattolica ha seguito e condiviso il processo fin dall’inizio. Non sono mancati i punti critici come nel caso della mancata introduzione delle «radici cristiane» nel Trattato di Lisbona (in funzione dal 2009) o in occasione di indirizzi legislativi sui temi della morale personale e familiare. Ma nell’insieme il sostegno è stato convinto, sia da parte della Santa Sede sia da parte degli episcopati interessati. Citiamo solo, come esempio, il discorso di papa Francesco in occasione del conferimento del premio Carlo Magno nel 2016:
«Nel secolo scorso (l’Europa) ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la ricerca dell’altro, che arsero nei cuori dei padri fondatori del progetto europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio costruito da Stati che si sono uniti per imposizione, ma per libera scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi, L’Europa dopo tante divisioni, ritrovò finalmente se stessa e iniziò a edificare la sua casa […]. La memoria ci permette di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di “aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di dialogare e la capacità di generare».
Se la cattolica è stata la Chiesa che ha seguito con più sistematicità il progetto europeo, anche le altre Chiese cristiane lo hanno fatto in tempi e modi diversi. Non abbiamo presente una posizione formale ufficiale contro il progetto politico europeo da parte dei vertici ecclesiali delle confessioni cristiane. Sia le Chiese della Riforma come le Chiese ortodosse e quella anglicana hanno mostrato simpatia e condivisione.
Nel caso della «Brexit», dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, i responsabili anglicani si erano espressi per restare nell’Unione. Non sono mancate le critiche e i momenti di distanza. Per le Chiese della Riforma l’assenza del riferimento alla tradizione cristiana nel Trattato è discutibile come la disattenzione delle istituzioni nei confronti delle minoranze religiose e delle persecuzioni extra-europee.
Più consistenti le resistenze nell’ortodossia. In genere il mondo monastico si è rivelato molto critico nei confronti dell’Unione Europa vista come pericolosa minaccia alle tradizioni ecclesiali e alle leggi morali. L’opposizione all’identificazione numerica individuale e alle norme sanitarie in occasione del Covid ne sono un esempio. Più pesante è la deriva nazionalistica di molte Chiese ortodosse, che si sono viste riconoscere dagli Stati un ruolo fondamentale nell’identità nazionale post-ideologica e vanno scivolando in collateralismi privi di spessore critico e della dimensione universalistica che il Vangelo impone.
Il caso più grave riguarda con tutta evidenza la dirigenza della Chiesa ortodossa russa e in generale delle Chiese «slave», come la Serbia e la Bulgaria. Il Patriarca di Mosca, Cirillo, ha sposato a tal punto l’aggressione militare all’Ucraina e il potere del presidente Putin da imporre alla sua Chiesa una narrazione demoniaca dell’intero Occidente e del suo recente percorso storico. Nella sua narrazione, l’Unione Europea viene indicata come una fonte inquinata della depravazione pubblica e come l’Anticristo davanti a cui la Russia sarebbe l’unica resistenza.
Tornando alla Chiesa cattolica, va registrata la diffidenza se non la contrarietà degli episcopati dell’area di Visegrad (Ungheria, Cechia, Polonia, Slovacchia e alcuni paesi balcanici). Essi accusano Bruxelles, non sempre a torto, di volere imporre «diritti» (dall’aborto alle convivenze omosessuali al cambiamento di sesso) che le popolazioni locali non condividerebbero, usando le piattaforme giuridiche occidentali per annullare le identità e le tradizioni locali. Una posizione spesso condivisa anche del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE) che si contrappone parzialmente alla COMECE (Commissione delle conferenze episcopali della Comunità europea).
Ciò che divide le due posizioni è il possibile superamento della neo-cristianità sull’onda del magistero di Francesco. Rispetto al rapporto con gli Stati e i legislatori il superamento da favorire è quello del paradigma dei «valori non negoziabili». Il riferimento obbligante non sono il magistero e la legge naturale quanto il Vangelo e i «segni dei tempi». Una posizione che permetterebbe di evitare uno «stato di confessione» davanti a legislazioni comunitarie non condivisibili. Una dissonanza anche significativa non toglie la responsabilità ecclesiale nel sostegno al percorso comune in Europa.
Più visione e meno ideologia
L’Unione Europea è nata nel crogiolo del dopoguerra e con l’imperativo della pace, ma attorno ad essa sono stati riconosciuti altri valori fondamentali che il Trattato recepisce. Fra questi: la democrazia, la libertà, l’indipendenza, la sovranità, la prosperità, l’equità. Troppo spesso è stata ridotta a mercato, alla moneta e a un insieme di regole tecniche impedendo di arrivare ad alimentare il cuore dei cittadini, ad aprire una visione capace di motivare e sostenere lo sforzo. Nel quadro di una recepita a-confessionalità e autonomia rispetto a pretese di indirizzo delle religioni, l’Unione vive spesso una laicità ideologica, geograficamente limitata a Belgio, Francia, Olanda e Cechia.
Fortemente assunta dall’importante ceto burocratico essa si presta all’osservazione critica di papa Leone XIV. Incontrando il Gruppo di lavoro del dialogo interculturale e interreligioso del Parlamento europeo (lo scorso 29 settembre), ha detto:
«Le istituzioni europee hanno bisogno di persone che sappiano vivere una sana laicità, cioè uno stile di pensiero e di azione che affermi la valenza della religione preservando la distinzione – non separazione né confusione – rispetto all’ambiente politico. Anche su questo, più che le parole, vale l’esempio di Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi».
Se si vogliono coinvolgere i ceti popolari e periferici, compreso il mondo giovanile, l’offerta di una «visione politica» che integri il dato istituzionale e amministrativo con la proposta di valori morali e spirituali diventa urgente.
Come ha notato Ernst-Wolfgang Böckenförde lo Stato e le istituzioni liberali vivono di presupposti valoriali che non possono garantire. E uno degli ultimi eredi del pensiero critico della scuola di Francoforte, Harmut Rosa, aggiunge:
«La religione ha la forza, la riserva di idee, un arsenale rituale pieno di canti, di gesti appropriati, di spazi adatti, di tradizioni e di pratiche che aprono un senso a ciò che significa lasciarsi chiamare, trasformare, entrare in risonanza. Se la società perde tutto questo, se dimentica la possibilità della relazione, essa è condannata. Alla domanda se la società attuale abbia ancora bisogno della Chiesa o della religione, la risposta non può essere che: sì».
Né il quadro normativo, né la forza istituzionale, né la lunga e discussa tradizione storica delle Chiese possono intercettare questa domanda di senso della vita personale e collettiva, ma i valori evangelici tout court: la pace, il perdono, la riconciliazione, la solidarietà. La loro evidenza resta attiva.






L’Unione Europea è in crisi per scelte politiche sbagliate che hanno date precise e nomi e cognomi precisi. La lista è lunga, qui siamo italiani e parliamo delle “nostre” (non minori) colpe:
– 2000: Romano Prodi diventa presidente della Commissione e con slancio (forse su suggerimento interessato britannico) dichiara che l’UE poteva affrontare contemporaneamente la doppia sfida di allargamento e approfondimento. Risultato: referendum francese e olandese nel 2005 boccia la bozza di costituzione europea elaborata dalla convenzione presieduta da Giscard d’Estaing, e si fa l’allargamento a 26 (ancora con Gran Bretagna, senza ancora Romania e Bulgaria) con le regole che già erano inadeguate a 15. Rivedere dopo l’allargamento le regole istituzionali ovviamente risultò impossibile, e portò all’obbrobrio del Trattato di Lisbona del 2009. Risultato la paralisi attuale. Il saggio ex presidente della Commissione Delors disse che i paesi usciti dalla cortina di ferro dovevano ricevere una risposta immediata per non far nascere un euroscetticismo frustrato, ma non sotto forma di adesione, ma piuttosto di statuto trasitorio di associazione ad hoc. Non venne ascoltato.
– 2011: Mario Draghi prende la testa della Banca Centrale Europea. A un giornalista che gli chiese che cosa pensava del modello sociale europeo in crisi rispose: non esiste una tale cosa. Consacrava in questo modo il decennio delle due presidenze Barroso (2004-2014) in cui l’agenda era una sola: liberalizzazioni pilotate da “Bruxelles”, grazie alle quali –faccio solo un esempio per brevità– i nostri giovani non possono più permettersi di viaggiare in treno perché troppo costoso e passano le notti su flixbus.
Ma “Bruxelles”, spauracchio agitato da destra e da sinistra per far passare le cose più impopolari, facendo emergere così anche in Italia l’anti-europeismo che si vede persino in certi commenti a questo articolo, NON ESISTE. Bruxelles non esiste perché SONO I GOVERNI DEGLI STATI MEMBRI CHE DECIDONO TUTTO. Questa è una verità banale ma che è stato comodo mascherare con gli “eurocrati” di Bruxelles per convenienza di governo e opposizione.
Premesso che non ho capito di chi parli l’ultimo commento in quanto la seconda carica dello stato mi risulta essere Ignazio La Russa e non Maurizio Lupi, ma a prescindere da questo noto che il fervore per assolvere a prescindere la euro parlamentare e a condannare il premier ungherese Orban (non certo stinco di santo) quale aguzzino torturatore e misogino (cosa comune a molti dittatori ma nella fattispecie mi pare un po’ azzardato), è diffuso anche tra le donne che generalmente seguono meno la politica L’aspetto che mi preme di sottolineare non è tanto se Ilaria Salis sia innocente o colpevole, ma se la sinistra italiana radicale sia schierata a prescindere con i violenti e porti al parlamento una signora arrestata in un paese straniero con l’accusa di aver preso a manganellate sulla testa un passante. Inquietante il fatto che alla sinistra suddetta non interessi di conoscere la verità ma interessi solo portare in trionfo una che ha già delle condanne per comportamento violento ha fondato un centro sociale, ha occupato una casa del comune di Milano abusivamente per anni senza pagare un centesimo e si trovava in Ungheria nel momento in cui ci sono state violenze nei confronti di alcuni individui che sembrerebbero essere stati presenti alla marcia
dell’onore e lei è stata arrestata con un manganello in borsa. Una faccenda oscura e decisamente poco “onorevole” per il paese in generale.
Guardi io capisco essere di destra ma la sua è un’ossessione che noi non abbiamo. E sa perché? Perché fra la Salis e Orban il peggiore e il più pericoloso è Orban ed è lui che va messo in difficoltà politica anche sfruttando il caso Salis. Mi pare così evidente che meraviglio che stia ancora qui a discuterne.
Molti dei commenti fin qui che si aggirano sulle premesse della concordia e comune politica europea , mirano in particolare all’aspetto della giustizia, ben applicata o non in casi particolari. A proposito di Ilaria Salis vorrei ricordare che da quando ha l’impunità connessa al proprio ruolo parlamentare, riscuote in concomitanza a ciò la solidarietà di un’Istituzione di rilievo europeo, e che le accuse mossele da un tribunale ungherese, difficilmente sostenibili nella fattispecie, nonché il trattamento concordemente definito disumano e degradante che le è stato visto anche pubblicamente inflitto durante la detenzione e il processo, non possono non far correre la mente all’atteggiamento reazionario e pervicace del maschilismo del presidente Orbàn nella progettualità del quale il ruolo della donna è, a prescindere, di stare in casa, in modo specifico per non mancare al compito di rifornire la sua comunità più stretta di nuovi nati. (Come abbiamo saputo anche di recente le opinioni di quest’ultimo ben si incontrano con quelle della nostra Presidente del consiglio. Ricordiamo anche che il figlio di Maurizio Lupi, anch’egli appartenente a Fratelli d’Italia e seconda carica de nostro Parlamento si è vista giungere n questi giorni l’archiviazione di un’accusa di violenza sessuale da tempo pendente nei suoi confronti). Lo spirito di contesa che non ha freno laddove le guerre continuano a essere portate avanti al di là di qualsiasi trattativa e accordo unilateralmente definiti parrebbe per sola volontà pubblicitaria dagli stessi detentori del potere che le hanno dichiarate e apertamente le sostengono per pura volontà di annessione territoriale o addirittura di annientamento etnico certamente non comincerà a venir meno se le ragioni considerate da premiare nelle sedi decisionali dei singoli Stati membri della Comunità europea resteranno queste della sopraffazione e dell’aggressione personali , il cui fine del tutto conseguente è l’autoalimentantesi logica del riarmo. L’insensatezza della guerra ancor più che da motivi di interesse economico risulta evidente nei termini della comune umanità che non c’è alcun sentimento religioso che non affermi nella sua narrazione fondativa, prima degli strumentali adeguamenti utilitaristici che l’articolo redazionale sopra cita ad esempio a proposito dell’ortodossia russa al servizio dell’insaziabilità dei piani militari del relativo governo a Mosca .
Certo che se nelle istituzioni europee ci sono persone cone Ilaria Salis, andremo poco lontano. Ma l’hanno “eletta”…
Concordo che l’uso strumentale della politica sia evidente e deprecabile, in questo, come in tanti, troppi casi. Basti ricordare i nepotismi od i clientelismi che hanno facilitato i figli di noti politici all’interno delle istituzioni o nelle imprese di stato; ad esempio Bossi, con il figlio minore, oppure Meloni con il compagno Giambruno, potremmo andare avanti ore… La vicenda Salis, se la si approfondisce, merita comunque qualche parola: la sua detenzione e la pena che le attribuirebbero per il crimine commesso è curiosa. Sappiamo infatti per certo che l’accusa non ha mai potuto provare in modo insindacabile che fosse stata Salis a usare il manganello per colpire chi fu ferito, peraltro lievemente. Salis fu fermata a bordo di un taxi ad alcuni chilometri di distanza dal luogo in cui avvennero i fatti, avendo sì un manganello, che certamente aveva con sé alla manifestazione, ma non vi sono prove effettive lo abbia utilizzato contro alcuno. Il costrutto probatorio è quindi labile e la strenua determinazione con la quale il governo ungherese insiste, considerando che Salis era in Ungheria come attivista per contestare assieme ad altri una reimpatriata nazista (che ad esempio nel nostro paese non sarebbe legale in quei termini), ha evidenti pieghe politiche. Diciamola in altri termini: un cittadino all’interno dell’Unione Europea dovrebbe avere un processo equo e non viziato dalla propria idea politica, altrimenti da reo del reato commesso diventa perseguitato politico.
A me non pare. Salis è stata arrestata mentre correva in taxi all’aeroporto ed era assieme ad uno della Hammerbande (banda del martello) . Il processo è andato per le lunghe perché lei si è sempre detta innocente mentre altri che erano assieme a lei hanno patteggiato. Il suo atteggiamento di “vittima” probabilmente ha reso più lunga la sua detenzione. Se non possiamo essere certi che abbia partecipato ai pestaggi (violenti dalle foto di quelli che li hanno ricevuti in testa e la testa è delicata), non possiamo neppure essere certi del contrario. Non si capisce cosa ci facesse con quelli che si sono dichiarati colpevoli se lei non ha fatto nulla. Il reato di lesioni gravi in Ungheria prevede 24 anni di carcere, lei avrebbe dovuto saperlo prima di avventurarsi a fare la attivista ad un corte che noi possiamo giudicare come ci pare ma per gli ungheresi (alcuni di loro) rappresenta la celebrazione dei caduti durante la resistenza all’Armata russa. E comunque anche andare da noi a spaccare le teste dei passanti col manganello non è considerato un reato da poco.
Meloni ha conosciuto Gianbruno che già lui lavorava per Mediaset.
Seguendo il suo ragionamento si possono comminare pene senza prove certe, perché nel caso Salis non ci sono. Un indizio non fa una prova. Il garantismo deve essere totale, altrimenti non siamo in uno stato di diritto. Riguardo cosa ci facesse Salis là e cosa l’abbia mossa ad andarci, saranno fatti suoi. Chiaramente la violenza, da parte di chiunque è inaccettabile, pertanto avesse commesso il reato per cui è imputata andrebbe punita, ma siccome credo davvero nel garantismo, per tutti, anche in questo caso se non emergono prove al di sopra di ogni ragionevole dubbio non è possibile incriminarla. Se si incrimina senza certezza si passa nell’ideologico.
La manifestazione di cui parliamo non era una comune celebrazione, ma un consesso di neonazisti nel quale croci celtiche, svastiche ed altri emblemi hanno campeggiato. Non confondiamo queste aggregazioni di estrema destra con ricorrenze che abbiano un valore storico, per cortesia.
Riguardo Giambruno (con la M e non con la N), vero. Lavorava in effetti a Mediaset da qualche anno in ruoli di gregario, ma l’approfondimento in conduzione singola de “Il diario del giorno” l’ha avuto nel 2023, quando al governo c’era Meloni da tempo.
Il garantismo certo, ma le risulta che tutti quelli che hanno dei processi a carico si facciano nominare euro parlamentare per ottenere l’immunità e saltare il processo.
Non capisco cosa sappia lei del caso in questione, le prove gli inquirenti dicono di averle, se però il processo non si celebra e non si arriva a sentenza non si saprà mai se è innocente o colpevole. Dopotutto anche da noi c’è chi rimane in galera a lungo anche da innocente (casi eclatanti) ma non mi risulta che siano scappati dal processo o si siano fatti eleggere.
Il valore storico (certe cerimonie) lo hanno per chi le organizza, il governo ungherese le tollera e nessuno è autorizzato ad usare la violenza, anche perché loro manifestano pacificamente e spetta caso mai al governo ungherese cancellarle non a un gruppuscolo di violenti che pestano a sangue le persone.
Giambruno con la M lavorava già lì, la sua è solo una illazione pretestuosa.
In fondo gli europei votando governo euroscettici come il nostro si sono tirati la zappa sui piedi da soli. Se le cose vanno male non è colpa di un generico carrozzone “Europa” ma di scelte da circo Barnum fatte localmente. Vedi alla voce Lega al governo.
Mi ricordi lo slogan: “L’Europa sta fallendo? Ci vuole più Europa”
intanto anche tutti questi paesi est-europei che protestano continuamente contro l’UE cattiva non si fanno scrupolo di ricevere miliardi di fondi europei che servono a mantenere il consenso dei loro elettori
Che Trump e Putin, per discutere di pace, si incontreranno a Budapest (capitale alquanto “invisa” ai burocrati di Bruxelles) la dice lunga su quale sarà il futuro di questo carrozzone chiamato “Unione Europea”.
Intanto gli orbaniti e i chierici loro alleati si dedicano a liberare i pedofili dalle galere
https://hungarianobserver.substack.com/p/in-hungarys-churches-the-pardon-scandal
Perché l’UE è un carrozzone inefficiente, ma le alternative proposte sono peggio