
Il corteo funebre di Papa Francesco attraversa Roma (foto Mauro Scrobogna / LaPresse)
Il corteo funebre che il 26 aprile scorso ha attraversato Roma per trasportare la bara di papa Francesco dalla basilica di San Pietro a Santa Maria Maggiore è passato tra ali di folla. Gli osservatori hanno notato che esprimevano i più diversi sentimenti in uno spettro che dall’autocelebrazione del sé arrivava alla profonda commozione, passando per la mera curiosità. Tuttavia ne emergeva un inequivocabile dato di fatto: la popolarità del pontefice che, venuto dalla “fine del mondo”, ha, per la prima volta, osato assumere il nome di Francesco.
Quanti, all’interno e al di fuori delle congregazioni generali dei cardinali, stanno manovrando per preparare il ritorno del papato al passato, probabilmente non ricordano – anche se non mancano tra essi cultori di memorie ecclesiastiche – un’eloquente testimonianza storica. Viene dai due precedenti cortei che, dopo l’unificazione italiana, hanno attraversato l’Urbe con il feretro del papa.
Com’è noto, il pontefice decide nel suo testamento il luogo della sepoltura. Dopo l’unità d’Italia, solo due pontefici hanno voluto una sepoltura al di fuori delle mura leonine. Pio IX scelse la basilica di San Lorenzo al Verano; Leone XIII la basilica di San Giovanni in Laterano. In quegli anni era ancora aperta la questione romana, sicché la traslazione apriva il problema dei rapporti tra autorità che reciprocamente non si riconoscevano.
Il corteo di Pio IX
Alla scomparsa di Mastai Ferretti, nel 1878, la tomba non era ancora pronta. Venne momentaneamente tumulato in San Pietro, poi, nel 1881, si decise di trasportare la salma a San Lorenzo. Il momento era politicamente delicato, a causa dell’avvicendamento della Sinistra storica alla Destra liberale nel governo del paese.
Agostino Depretis era stato nominato presidente del Consiglio – e, nel 1881, deteneva anche l’interim degli Interni – sulla base di un programma che prevedeva un’applicazione della legge delle guarentigie (la normativa unilaterale italiana che garantiva le immunità papali) in chiave di acceso giurisdizionalismo. Il modello di riferimento sembrava essere l’importazione del Kulturkampf prussiano in una penisola che si era invece unificata all’insegna del cavouriano “Libera Chiesa, in libero Stato”.
La Santa Sede e il Regno d’Italia evitarono, dunque, di accordarsi per l’organizzazione del corteo. La questione venne gestita in un incontro tra il commissario di polizia di Borgo e un funzionario di curia di rango minore. Decisero che si sarebbe svolto in forma privata e austera nella notte tra il 12 e il 13 luglio. Alla mezzanotte, una semplice carrozza funebre sarebbe stata seguita da un paio di altre carrozze con dignitari e familiari. Ma la notizia trapelò.
I cattolici temporalisti si organizzarono per accompagnare con pompa il feretro. Volevano mostrare il largo consenso di cui godeva nel “paese reale” colui che i piemontesi avevano ridotto a “prigioniero in Vaticano”. Gli anticlericali (garibaldini, repubblicani, massoni ecc.) si mobilitarono per impedire che venisse reso onore al papa che aveva scomunicato promotori e artefici dell’unificazione nazionale.
Il governo, pur avvertito dal commissario di Borgo dei pericoli per l’ordine pubblico, evitò di provvedere a un adeguato servizio d’ordine: il “paese legale”, nato in opposizione al papato, non intendeva nemmeno dare l’impressione di un formale riconoscimento per le rivendicazioni territoriali della Santa Sede. L’esito era prevedibile: duri scontri accompagnarono l’intero percorso del corteo.
Iniziarono subito fuori dalle mura leonine sul piano verbale, tra le contrapposte urla di «carogna» e «viva il papa-re»; proseguirono sul ponte Sant’Angelo, dove fu respinto il tentativo di gettare la bara nel Tevere; continuarono con una fitta sassaiola a Piazza del Gesù e sfociarono a Termini in uno scontro fisico (s’incrociarono le torce dei cattolici e i bastoni degli anticlericali). Alla fine, il governo fece intervenire la forza pubblica per disperdere il parapiglia che si era nuovamente acceso all’ingresso di San Lorenzo.
Al di là degli strascichi politici, anche sul piano internazionale, e degli usi propagandistici, la vicenda restò impressa nella memoria delle autorità vaticane. Non ne trassero la conseguenza che a noi oggi sembra ovvia: le proposte del ritorno ad una ierocratica società cristiana, che Pio IX aveva coltivato come reazione alla fine del potere temporale, generano solo resistenze in un uomo moderno che fa della rivendicazione di autonomia nell’organizzazione della collettività il suo tratto identitario. Cercarono, però, di evitare il ripetersi di così eclatanti manifestazioni di ostilità al papato e alla Chiesa.
Il corteo di Leone XIII
L’occasione si ripresentò alla morte di Leone nel 1903. Anche in questo caso il pontefice fu temporaneamente tumulato nella basilica di San Pietro in attesa che venisse preparata la collocazione definitiva in San Giovanni in Laterano. La tomba monumentale – con la statua del papa che sembra richiamare il mondo moderno alla sottomissione (assai diversa dalla semplice lastra marmorea in Santa Maria Maggiore) – venne affidata ad uno degli scultori più noti dell’epoca, Giulio Todolini. La consegnò alcuni anni dopo.
Le tempestose vicende del Regno d’Italia – prima la guerra italo-turca per l’aggressione alla Libia, poi la partecipazione all’«inutile strage» del primo conflitto mondiale e, quindi, gli scontri violenti del primo dopoguerra tra le varie fazioni politiche – consigliarono di non prestare il destro a mobilitazioni di un’opinione pubblica già sovraeccitata. Solo gli atti distensivi verso la Chiesa assunti dal governo fascista fin dai suoi esordi fecero ritenere che era giunto un momento opportuno.
La traslazione venne fissata per il 22 giugno 1924. Questa volta le trattative furono condotte da autorizzati rappresentanti ufficiali delle due istituzioni. Anche in questo caso si preferì, comunque, la riservatezza (i negoziati per i Patti Lateranensi non erano ancora stati avviati).
Il corteo si sarebbe, dunque, svolto in forma privata, sempre alla sera – ma alle ore 10, anziché a mezzanotte – e sarebbe stato formato da un carro funebre, cui seguivano tre carrozze su cui sarebbero saliti gli accompagnatori. Si concordò il massimo riserbo.
La segretezza fu mantenuta. Il discreto, ma nutrito, corpo di forze dell’ordine schierato lungo tutto l’itinerario percorso dal corteo funebre venne a sapere solo dopo l’arrivo del feretro a San Giovanni la ragione per cui era stato chiamato a prestare servizio. Gli agenti, che ignoravano a cosa stessero assistendo, furono gli unici spettatori dell’ultimo trasporto della bara di un papa attraverso Roma, prima del 26 aprile ultimo scorso.
Il corteo di Francesco
Difficile non mettere a confronto questi episodi. Nel caso di Francesco, è la prima volta, in età contemporanea, che il funerale di un papa, svoltosi al di fuori delle mura vaticane, non solo avviene pubblicamente in pieno giorno, ma passa tra strabocchevoli ali di folla. È composta certo da cattolici, ma anche da semplici cristiani e anche da agnostici, atei, indifferenti al religioso. Tutti manifestano, sia pure in modi diversi, il consenso verso il pontefice.
Una spiegazione a questo evidente dato di fatto è proposta dai nostalgici di un passato in cui il papa, anziché richiamare alla figura evangelica del buon samaritano come modello esemplare del rapporto tra Chiesa e mondo, ritorni a proporre un più o meno ammodernato regime di cristianità. Ritengono che la popolarità di Bergoglio sia esclusivamente dovuta dalla sua capacità di usare con abilità tutti i molteplici strumenti di comunicazione di massa che il nostro mondo mette a disposizione.
È un’ipotesi che va verificata. Ma intanto la storia qualcosa dice.
Il corteo funebre del papa che ha presentato al mondo il volto della Chiesa come una madre misericordiosa, ha riunito non solo fedeli cattolici, ma ha scosso anche masse tradizionalmente indifferenti all’annuncio evangelico.
I pontefici che hanno dipinto la Chiesa come l’inflessibile maestra che chiede di sottomettersi ad una legge naturale valida sempre, per tutti e ovunque, sono stati accompagnati alla tomba nottetempo, con manifestazioni di aperta ostilità oppure con l’assistenza delle sole forze dell’ordine.
Non sarebbe opportuno, in vista del conclave, tenerne conto?
Paragone insostenibile dati i diversi momenti storici. Sarebbe inoltre opportuno non confondere la “popolarità” di un papa, derivante da molteplici fattori soggettivi e mediatici, con l’adesione personale al suo messaggio. A meno che non si riduca il cristianesimo alla sua dimensione etico-sociale. Cristo risorto è il solo e vero centro. Piazze più piene con chiese più vuote dovrebbero indurre cautela nella valutazioni.
Mi sa che l’Autore ha dimenticato il corteo funebre che accompagnò il corpo di Pio XII da Castelgandolfo al Vaticano.
Anche quello molto partecipato, ma senza smartphone, anche quello conclusosi con una sepoltura molto semplice.
Alla morte di Giovanni Paolo II ci fu maggior partecipazione popolare, anche qua alla fine poche decine di commenti e una certa indifferenza, segno che la secolarizzazione inesorabilmente avanza.
Da una parte si sente affetto sincero (anche se molto partigiano, come successe specularmente con la morte di Ratzinger) dall’altra molto hype da social che riduce il conclave ad un generico fantapapa.
Meglio o peggio come il solito chi può saperlo..