Senza Chiesa e senza Dio?

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Nel titolo del libro edito nell’aprile 2023 dagli Editori Laterza Senza Chiesa e senza Dio – Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano il punto interrogativo non c’è. Sembrerebbe, quindi, che esso sia stato scritto per dimostrare ancora una volta che, nel nostro Occidente secolarizzato, non ci sia più posto né per Dio né per la Chiesa e che, quindi, il cristianesimo sia destinato a tirare mestamente i remi in barca, avendo fatto il suo tempo.

In realtà, l’assunto di fondo dell’autore, Brunetto Salvarani, è quello di porsi, con un’ottica teologica supportata dalla storia e dalle scienze umane, «nella prospettiva della Chiesa di domani, individuandone le tracce già nella situazione odierna» (p. 15).

Il termine «post-cristiano» richiamato nel sottotitolo sta ad indicare che ad essere cancellato non è il cristianesimo ma un certo modo di essere cristiani (p. 20), con la conseguente e urgente necessità di ripensare e di riformulare la sua eredità (p. 10).

Il cristianesimo si sta trasformando e «non è affatto detto che stia morendo» (p. 66). A dispetto delle teorie sociologiche alla Friedrich Nietzsche della morte di Dio in voga negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (p. 11) o delle convinzioni che «il mondo moderno della razionalità fosse naturalmente destinato a scavare fossati incolmabili con l’universo delle religioni» (pp. 37-38), Dio, che sembra essere «ricomparso coniugato al plurale» (p. 27), «non è morto, stiamo solo controllando i suoi documenti» (p. 196).

Salvarani, teologo di valore (sposato e padre di famiglia) che parla con parresia, saggista attento alle vicende ecclesiali, docente di Missiologia e Teologia del dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna e presso gli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Bologna, Modena e Rimini, è consapevole che, nonostante lo stato di crisi in cui si trovano, le Chiese saranno in grado di proseguire «ad adempiere al loro mandato divino di evangelizzare i loro contemporanei» (p. 15) grazie alla loro «straordinaria capacità di adattamento alle nuove situazioni» (p. 19).

A una condizione: che siano disponibili, accantonando ogni forma di letargia e pessimismo (p. 111) e neutralizzando ogni tentazione di «fuga dalla storia» (p. 6), a «rimboccarsi non solo le maniche, ma anche e soprattutto il pensiero» (p. 17 e 221), investendo in formazione «inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi» (p. 221).

«Il cristianesimo che abbiamo ereditato dal passato e in cui sono cresciute acriticamente molte generazioni (…) non funziona più: se vuole risultare credibile ed essere praticato in un prossimo futuro, va ripensato da capo» (p. 225) o, quanto meno, rimotivato continuamente percorrendo la strada dell’autenticità, della semplicità e dell’essenzialità del Vangelo da dire e da proclamare «con parole precise e appropriate» (p. 143).

Struttura del saggio

Una premessa, otto capitoli e una conclusione.

Nella premessa, l’autore illustra a grandi linee la crisi di credibilità che attraversa la Chiesa. Che la Chiesa, anzi che le Chiese siano in crisi non è una novità. Se una novità c’è, essa è piuttosto rinvenibile nel fatto che negli ultimi due o tre decenni «la reazione media alle conclamate difficoltà che il cristianesimo sta trovando, nel suo sforzo di trasmettersi alle nuove generazioni in territori di antica tradizione e di presentarsi come parola credibile e autorevole nello spazio pubblico, corrisponde per lo più a un’alzata di spalle, a un disinteresse trasparente ed endemico» (p. IX).

Una crisi che sembra essere «un riflesso e una conseguenza diretta della crisi dell’immagine di Dio» della tradizione giudaico-cristiana (pp. XV-XVI) e che, per essere non subìta ma trasformata in occasione «di straordinarie e sorprendenti opportunità» (p. 226), ci chiede di imboccare con coraggio anche «sentieri urticanti, faticosi, eppure ineludibili» (p. XVIII).

Come l’invito impietoso – è, questa, l’analisi del sociologo australiano John Carrol, autore di un intrigante saggio intitolato L’enigma Gesù (Fazi Editore 2013) – a prendere atto, da un lato, che «le Chiese cristiane hanno collettivamente fallito nel loro compito fondamentale, ovvero continuare a raccontare la loro storia fondativa in un modo che sappia parlare alla loro epoca. Hanno fallito in quello che gli ebrei chiamavano midrash: l’arte di rimettere mano alle storie per adattarle ai tempi» e, dall’altro, che «il Gesù della Chiesa è un residuo legnoso di una stanca dottrina che parla di un Signore Dio benevolo e onnipotente che sta nei cieli, della Trinità, della remissione dei peccati, della santa Comunione, della resurrezione dalla morte e così via», tutti concetti che sembrano non fare oggi «presa sulla gente» (pp. 219-220).

Gli otto capitoli del saggio possono essere divisi in due grandi parti.

La prima parte comprende i primi cinque. Soffermandosi sull’attuale situazione del cristianesimo nel nostro Occidente, Salvarani evidenzia cinque «segni dei tempi» che le Chiese sono invitate a scrutare e a prendere sul serio: dalla crisi in atto che richiede di essere assunta e trasformata in opportunità (cap. 1) all’acquisizione della fine del mondo cristiano come lo abbiamo conosciuto (cap. 2); dalla scomparsa della figura del praticante alla nascita di quella del nomade e del pellegrino o del convertito (cap. 3); dalla presenza di un contesto sociale segnato per secoli quasi esclusivamente da tradizioni cristiane e caratterizzato oggi da un irreversibile pluralismo culturale e religioso (cap. 4) all’emersione di una nuova forma di cristianesimo destinata a mettere in luce molte di quelle Chiese rimaste a lungo in ombra (cap. 5).

Non senza premettere al suo itinerario un punto fermo: «Se non ci si sbarazza del vicolo cieco del clericalismo e dello spirito di casta che inevitabilmente lo connota, nessuna riforma della Chiesa potrà rivelarsi duratura né reale e fruttuosa» (p. 3).

Nella seconda parte, l’autore richiama tre aspetti tradizionalmente decisivi per l’autocoscienza ecclesiale da ripensare alla luce del quadro culturale odierno: il ruolo della Bibbia, che non è solo il grande codice dell’Occidente, ma anche il testo che, per i cristiani, contiene la Parola di Dio (cap. 6); la centralità della figura di Gesù di Nazaret che è il cuore, sempre antico e sempre nuovo, di ogni cammino di fede (cap. 7); la riproposizione, anche in termini non strettamente religiosi, delle tre virtù teologali care al cristianesimo come la fede, la speranza e la carità (cap. 8).

Nella conclusione, l’autore esorta a prendere atto che il cambiamento d’epoca che caratterizza la cristianità contemporanea «non solo non dovrebbe mettere paura, ma, se affrontato con il piglio giusto, potrà far del bene al vangelo, alle Chiese e alla loro credibilità» (p. 225).

Dunque, Senza Chiesa e senza Dio – Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano è un libro coraggioso e di straordinaria utilità, che ci aiuta a superare responsabilmente «la cultura del lamento» (p. 7) e che guarda, senza edulcorarla, alla crisi del cristianesimo occidentale per contribuire a disegnare alternative al «progressivo affondamento della barca della Chiesa» (p. XV).

«Ogni crisi – ci ricorda Francesco nell’esortazione apostolica Amoris laetitia n. 232 – nasconde una buona notizia che occorre saper ascoltare affinando l’udito del cuore» (p. 6): ne è più che mai convinto Brunetto Salvarani il quale peraltro ritiene che per i cristiani la condizione di crisi «dovrebbe essere la situazione normale» (p. 3).

I segni dei tempi da scrutare

Il primo «segno dei tempi» da scrutare e da prendere sul serio (p. XVI) è la crisi che caratterizza il cristianesimo e le Chiese dell’Occidente (cap. 1): crisi non da subire, ma della quale fare buon uso, considerandola un momento propizio (p. 4) per continuare ad annunciare, servire e testimoniare la bellezza e le potenzialità umanizzanti dell’annuncio cristiano del regno di Dio (p. 5) la cui profezia – come disse papa Francesco il 29 novembre 2013 nel corso di un colloquio con 120 superiori generali degli istituti di vita consacrata – «non è negoziabile» (p. 51).

Il secondo «segno dei tempi» è la fine di un certo modo di essere cristiani (cap. 2) che ha la sua «origine nel IV secolo, in conseguenza delle scelte politiche dell’imperatore Costantino (e poi Teodosio) e dei grandi concili dogmatici, da Nicea (325) a Costantinopoli (381)» (p. 17).

Il cristianesimo di oggi e di domani è questione non di eredità ma di scelta (p. 19). Nel nostro Occidente post-cristiano e religiosamente plurale le Chiese, costituite per lo più da «piccoli resti di credenti convinti e praticanti», verosimilmente si raccoglieranno «attorno all’essenziale: la Parola di Dio raccolta nella Bibbia e i sacramenti riassunti nell’eucaristia» (p. 21).

E lo faranno, misurando la loro qualità di presenza nel mondo sulla «disponibilità e capacità di testimoniare nella vita la differenza evangelica» e vivendo «il dialogo ecumenico e interreligioso come una straordinaria occasione di purificazione e di crescita, e non come una minaccia alla propria (presunta) integrità» (pp. 22-23).

Un terzo «segno dei tempi» (cap. 3) sul quale interrogarsi è rinvenibile nella «progressiva scomparsa del cosiddetto praticante» (p. 39) e nella nascita di due figure tipiche della religiosità postmoderna: quella «del nomade, del pellegrino, del credente errante, che oltrepassa le appartenenze confessionali e territoriali» (p. 42) e quella del convertito (p. 44).

Quest’ultimo si articola in tre modalità principali: la persona che cambia religione, la persona che sperimenta forme di religiosità rispetto alle quali era del tutto estraneo, la persona che sceglie di vivere esperienze religiose – spesso emozionali – particolarmente forti (pp. 44-46). Fenomeno tipico della «quarta secolarizzazione» che «non avrebbe svuotato la religione delle sue esperienze spirituali», ma avrebbe trasformato il religioso «in forme più personalizzate, indipendenti da contenuti dogmatici definiti e dai confini delle religioni storiche» (p. 39).

Per la credibilità della fede cristiana – scrive Brunetto Salvarani, facendo riferimento al cristianesimo come stile di Christoph Theobald – i relativi contenuti, secondo il principio di concordanza tra il contenuto e la forma, debbono essere inseparabili «da una precisa modalità di situarsi nell’esistenza alla sequela di Gesù di Nazaret», modalità non solo da indicare, ma soprattutto da vivere in prima persona e da testimoniare (p. 55).

La crescita del fenomeno del pluralismo religioso è un altro «segno dei tempi» su cui riflettere (cap. 4). Esso – come affermò in più occasioni Carlo Maria Martini – costituisce «una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza» (p. 60).

Salvarani, uno dei maggiori esperti del dialogo ecumenico e interreligioso, è dell’avviso che questa sfida sia «per molti versi più temibile dell’ateismo o dell’indifferenza religiosa, dato che mette direttamente in discussione la tradizionale comprensione dell’identità cristiana nella sua pretesa di unicità e di universalità» (p. 69).

Per quanto riguarda i processi di riavvicinamento e i rapporti tra le diverse confessioni cristiane, il modello da valorizzare è quello dell’unità nella diversità riconciliata (p. 73): il che, da un lato, comporta che si passi dal «dialogo di facciata o delle coccole» al dialogo «della franchezza e della collaborazione» (p. 72); dall’altro, richiede che l’ecumenismo esca finalmente «dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli pastorali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria» (p. 74).

Quanto, invece, ai rapporti con le altre religioni, Salvarani segnala l’affermazione decisamente innovativa sotto il profilo teologico in tema di pluralismo religioso contenuta nel Documento sulla fratellanza umana firmato il 4 febbraio 2019 da papa Francesco e dal Grande imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb: «Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi» (p. 78).

L’ultimo «segno dei tempi» sul quale Brunetto Salvarani invita le Chiese a riflettere sono le forme di cristianesimo che stanno fiorendo in Africa, Asia e America Latina (cap. 5) ad un ritmo talmente sostenuto da far ritenere che «quella che stiamo vivendo oggi è una delle fasi più intense di diffusione del cristianesimo che si siano mai registrate nella storia», autorizzando gli analisti delle religioni contemporanee a ritenere che, in un’ottica globale, «non c’è alcun motivo per guardare con scetticismo alle possibilità di sopravvivenza del cristianesimo» (p. 100).

Ciò grazie ai nuovi cristiani che vivono il vangelo in condizioni diverse rispetto ai cristiani occidentali e con i quali le Chiese storiche dovranno fare i conti (p. 95): e ci saranno molte sorprese (p. 91) a livello di inculturazione della fede cristiana, che è forse la questione più urgente e controversa della missione cristiana della Chiesa in un contesto di cristianesimo mondiale (p. 113).

Da dove ripartire?

Nel cristianesimo di oggi, ma anche nel cristianesimo di domani, che cosa va conservato e «di cosa invece si potrebbe fare a meno senza particolari problemi» (p. 126)?

Alla domanda il teologo modenese cerca di dare una risposta sia nei capitoli 5, 6 e 7 sia nella conclusione del suo saggio.

Quanto a ciò di cui si potrebbe fare a meno, Salvarani sottoscrive quanto affermato da Tomáš Halík, un teologo assai attento alle trasformazioni del cristianesimo, nella sua opera Pazienza con Dio (Vita e Pensiero, Milano 2020): «Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella» (p. 221).

Non si potrà, invece, fare a meno della Bibbia (p. 126), che «non è tout court Parola di Dio, ma la contiene: una distinzione cruciale per schivare le sue letture fondamentaliste, oggi così in voga e così pericolose» (p. 130).

Nonostante «l’indubbio risveglio biblico» verificatosi a seguito dell’approvazione, da parte del concilio Vaticano II nel novembre 1965, della costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione, si deve realisticamente prendere atto che, nella pastorale ordinaria delle comunità cristiane, «la fase di rilancio della lettura della Bibbia» ha quanto meno evidenziato «una certa stanchezza» (p. 135).

Peraltro, come non convenire con Salvarani che «qualsiasi appello per una maggiore attenzione alla Bibbia debba inquadrarsi in una più ampia attenzione al fenomeno religioso in tutte le sue diverse espressioni» (pp. 144-145)?

Inoltre, si dovrà sempre di più acquisire la consapevolezza che «l’elemento distintivo dell’agire cristiano non può essere che la sequela di Gesù». Infatti, come icasticamente affermato in L’essenza del cristianesimo da Romano Guardini, il cristianesimo è Gesù Cristo stesso (p. 149). «Qualunque cosa accada, qualunque cambiamento intervenga in un domani più o meno prossimo nella tormentata vicenda delle Chiese, si può affermare con tranquillità che è da Lui che occorrerà in ogni caso ripartire: dal significato da darsi ai gesti e ai racconti di quel giovane rabbi itinerante di Nazaret che – comunque la si pensi al riguardo – in una manciata di decenni ha scaravoltato la storia mondiale e inaugurato un inedito rapporto con il Dio d’Israele e dei suoi padri» (pp. 149-150).

È necessario tornare a Gesù, assumendo l’interpretazione che della sua figura è stata formulata da due svolte cruciali del Novecento: la sua ebraicità e la sua umanità (p. 148). Il che, da un lato, significa che Dio, incarnandosi, ha scelto di essere ebreo e che l’assunzione dell’ebraicità non va considerata come un fatto accidentale e secondario nella vita di Gesù» (p. 175), e, dall’altro, richiede ai cristiani di «cimentarsi a seguire il Cristo nella sua umanità reale», nella certezza che nella comprensione del mistero di Gesù esiste un rapporto direttamente proporzionale tra la sua umanità e la sua divinità: «quanto più divino, tanto più umano; quanto più umano, tanto più divino» (p. 179).

In quanto consapevoli che oggi i confini tra il credere e il non credere «si sono fatti più slabbrati e più porosi», i cristiani di oggi e di domani dovrebbero consolidare la prassi di mettersi in ascolto dei diversamente credenti e confrontarsi con le ragioni dei cosiddetti non-credenti, «non per consegnarsi all’incertezza sistematica, ma per rendere più mature le proprie convinzioni» (p. 181).

In che modo? Rileggendo, rivisitando e ripensando, alla luce dei nuovi contesti sociali e culturali la fede, la speranza e la carità. In quanto virtù teologali esse «hanno Dio per oggetto e fondano l’agire umano favorendo – per così dire – un accesso diretto a Dio stesso». Ma, a ben vedere, con esse tutti siamo chiamati a fare i conti, «credenti o non credenti o altrimenti credenti che siamo» (p. 182).

La fede, cioè il bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno, è un «elemento fondante dell’essere umano» (p. 194): tanto è vero che è possibile affermare che «l’attuale crisi della fede cristiana sia innanzitutto figlia dello sgretolarsi progressivo dell’atto umano del credere» (pp. 186-187).

La speranza, che è forse la più trascurata delle virtù teologali nonostante ci faccia – come scrive Agostino ne La città di Dio – «propriamente cristiani» (p. 200), «non ha nulla a che fare con il banale ottimismo» (p. 204) ed è «una virtù antropologicamente più necessaria che mai» (p. 201). Infatti, «se si smarrisce la speranza nel futuro, ad andarci di mezzo è innanzitutto ciò che rimane di umano in noi» (p. 198).

Quanto alla virtù della carità, intesa come capacità di andare gratuitamente incontro al prossimo in situazione di povertà o di sofferenza, per Brunetto Salvarani rimane «sublime» (p. 206) la definizione laica datane da Luigi Pintor nelle sue memorie autobiografiche (Servabo, Boringhieri Bollati, Torino 1991): «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi» (p. 207).

  • BRUNETTO SALVARANI, Senza Chiesa e senza Dio, Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, Coll. “Tempi Nuovi”, Laterza, Roma-Bari 2023, pp. 248, € 20,00, EAN: 9788858150979.
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5 Commenti

  1. Pier Giuseppe Levoni 23 luglio 2023
  2. Mauro Pastore 20 luglio 2023
    • Anima errante 21 luglio 2023
      • Mauro Pastore 28 luglio 2023
  3. francesco 20 luglio 2023

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