Caramé

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È finalmente stato pubblicato Caramé, il nuovo album della cantautrice Angelina Mango. Mi ha toccato, in particolare, il brano Pacco fragile; mi ha toccato profondamente, entrando in risonanza con i miei studi sul filosofo del Québec Charles Taylor.

Gli artisti post-romantici, infatti, tante volte esprimono sì posizioni di rottura rispetto ai canoni prevalenti nella società, quelli che tendono a imporci di essere sempre “produttivi”, efficienti, dediti all’“utile”, ma, così facendo, finiscono per dar voce a quell’angolino “ribelle” di ciascuno/a, semplicemente placandolo.

Un po’ come il Carnevale, nei suoi motivi originari: un rovesciamento effimero dell’ordine costituito volto, in realtà, a confermarlo. Uno “sfogo” momentaneo, se vogliamo. Non solo; spesso, nella società dello spettacolo, non pochi artisti, mentre celebrano la “ribellione”, finiscono, nei fatti, per incarnare al più alto livello i valori dominanti: il mito del successo, del denaro, del lusso. Più borghesi dei borghesi, si sarebbe detto un tempo. Vere macchine per ottenere compensi e celebrità.

Ecco, Angelina canta di non essere una macchina, come vorrebbe l’interlocutore, bensì un pacco fragile. E il “pacco fragile” è la metafora della condizione umana, a dispetto del medico e filosofo La Mettrie (1709-1751), autore del celebre saggio L’Homme Machine.

Non solo: la cantautrice, nel testo, si scosta sia dall’idea millenaria, di ascendenza biblica, che fa della fragilità una conseguenza della “caduta” nel peccato (il vocabolo “sintomo”, del resto, etimologicamente rimanda proprio a una “caduta”), sia da una visione “romantica” e idealizzata della fragilità, tendente a scorgerne un aspetto della sensibilità. No, ella non si compiace della propria fragilità, della vulnerabilità umana.

Si limita a constatare di essere ciò che è.

Aggiungendo che talora le emozioni sono “nelle gabbie”, pur di non sentire. Altre volte, direi io, inseguiamo, al contrario, “emozioni forti” proprio in quanto incapaci di “sentire”. E poi vi è la frase centrale, nella sua (apparente) semplicità: “tutto a posto e niente in ordine”. Cosa risponderebbe Taylor? Un ordine cosmico nel quale ciascuno/a e tutti possano rispecchiarsi oggi non sarebbe concepibile. Perciò, in effetti, è vero: nulla è in ordine. Dobbiamo rassegnarci, dunque?

Forse no: possiamo provare a esplorare un ordine più vasto, rispetto alla nostra condizione di semplici “atomi”, mediante la risonanza personale. Detto altrimenti: non è più pensabile un ordine universale nel quale considerarci tutti situati, però possiamo compiere dei tentativi volti a situarci in un ordine più vasto rispetto alla nostra soggettività; un ordine nel quale rinvenire le “fonti di moralità”, ovvero i “beni” in base ai quali orientare scelte e comportamenti.

Grazie, Angelina, per darci da pensare.

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Un commento

  1. Mariagrazia Gazzato 9 novembre 2025

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