
Papa Leone XIV, incontrando la Pontificia Università Lateranense, ha affermato: «Il servizio accademico spesso non gode del dovuto apprezzamento, anche a motivo di radicati pregiudizi che purtroppo aleggiano pure nella comunità ecclesiale. Si riscontra a volte l’idea che la ricerca e lo studio non servano ai fini della vita reale, che ciò che conta nella Chiesa sia la pratica pastorale più che la preparazione teologica, biblica o giuridica» (14.11.2025).
Fra i «radicati pregiudizi», uno dei più forti, nell’ambiente cattolico (e non solo), è quello anticulturale. Si tratta del ritenere erroneamente che una conoscenza più approfondita, della vita cristiana ed ecclesiale, come del mondo, sia materia per specialisti, per cui succede che valutiamo i vari problemi con pressappochismo e superficialità.
Spesso, non ci rendiamo conto di quanto la nostra ignoranza incida anche sul piano emotivo: molti problemi si amplificano, anche patologicamente, perché, mancandoci gli strumenti per interpretarli, li consideriamo tabù, fonti di paure e squilibri, veri e propri pericoli. Si pensi ai problemi antropologici, sociali, economici, politici, religiosi.
Formarsi e formare sono fenomeni complessi; la serietà dell’impegno in questi campi la si può avere solo nella misura in cui abbiamo letto e studiato libri seri, incontrato persone di qualità e progettato in maniera competente i nostri interventi educativi e pastorali. Non a caso il papa parla del rischio «di scivolare nella tentazione di semplificare le questioni complesse per evitare la fatica del pensiero, col pericolo che, anche nell’agire pastorale e nei suoi linguaggi, si scada nella banalità, nell’approssimazione o nella rigidità».
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Certamente non a tutti è dato di acquisire un sapere specialistico in materia, ma tutti dovrebbero, per il loro benessere e la loro salute, conoscere i fondamenti dell’attività educativa in maniera sufficiente e relativamente proporzionata al ruolo svolto. Per dirla in termini semplici – parafrasando Gramsci quando parla di intellettuali – non si tratta di diventare tutti cuochi o sarti professionisti, ma almeno di sapersi preparare un uovo o rammendare uno strappo facendo un buon lavoro e limitando i danni.
Il ruolo di docenti e intellettuali lo lasciamo, nella Chiesa e nel mondo, a coloro che hanno ricevuto dal buon Dio i doni per farlo. A tutti, invece, si chiede quella preparazione sufficiente per svolgere il loro piccolo ma prezioso servizio. Quanti danni possono fare contenuti – Milani direbbe parole – detti male o sbagliati in sé, che piccoli, giovani e adulti in formazione possono malauguratamente ascoltare da docenti, pastori e catechisti. Non a caso il papa aggiunge: «Abbiamo bisogno di laici e preti preparati e competenti. Perciò, vi esorto a non abbassare la guardia sulla scientificità, portando avanti una appassionata ricerca della verità e un serrato confronto con le altre scienze, con la realtà, con i problemi e i travagli della società».
Il riferimento a don Milani è qui di grande aiuto. Il sacerdote fiorentino fu cosciente che la mancanza di parole era – ed è! – una delle povertà più serie. Milani, infatti, fu pienamente convinto che la povertà «non si misura a pane, a casa, a caldo, ma sul grado di cultura e sulla funzione sociale» (Esperienze pastorali). Di qui l’attenzione allo strumento parola. «Ciò che manca ai miei figlioli – scrisse nel 1950 – è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude».
Della parola Milani colse anche la portata sociale e politica. Non a caso, sul muro della Scuola di Barbiana, aveva fatto scrivere: «l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone». Milani aveva ben compreso che, per i suoi ragazzi, il fattore determinante era la padronanza degli strumenti linguistici. E per questa padronanza lavorò instancabilmente, non ritenendola mai un’utopia:
«Sono poi fermamente convinto che quest’ideale di colmare il dislivello culturale tra classe e classe non rappresenta un’utopia. La prova è questa: oggi un avvocato o un ingegnere godono di un livello culturale e quindi umano dal quale il povero è totalmente tagliato fuori e umiliato. Ma tra loro due si parlano da pari a pari quantunque l’avvocato non sappia una parola di ingegneria e viceversa. La parità umana è dunque ben compossibile con un totale dislivello in cultura professionale ed è data dal patrimonio comune di cultura generale. In questa cultura generale il fattore determinante è a nostro avviso la padronanza della lingua e del lessico».
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Allora, più precisamente, ci dovremmo chiedere: quanto e come si studia nell’ambiente cattolico? Quali parole, e in quali libri, circolano nei nostri ambienti? Inoltre: dove esse vengono apprese? E chi e come li diffonde? Lo stesso dicasi per il mondo di internet: cosa si cerca nei siti? Quali siti frequentiamo abitualmente? Come usiamo la cosiddetta intelligenza artificiale? Quali sono le nostre fonti on line di informazione e formazione? So bene che sono domande difficili. Ma forse sono le uniche, nella misura in cui cerchiamo di rispondere onestamente, che ci permettono di uscire da vuoti giri di parole sulla formazione carente, sulla scarsa preparazione di docenti, pastori e catechisti, sull’immaturità umana e culturale dei nostri educandi.
In particolare, è importante acquisire strumenti che tengano insieme gli aspetti che emergono dai saperi teologici e da tutte le scienze umane (antropologia, etica, sociologia, psicologia, scienza politica e via discorrendo). Attingendo ad essi possiamo dotarci di quelle nozioni basilari per svolgere il nostro ministero di pastori e/o educatori con competenza e diligenza. E qui le letture sono importantissime. Comprare un libro è un’opera difficile. Molte volte le nostre librerie cattoliche sono piene di libercoli, scopiazzati e dannosi. Per cui è importante farsi consigliare da chi ne sa di più, per esperienza e/o per ministero.
Il pregiudizio anticulturale si manifesta anche quando si deve permettere a qualcuno dei nostri operatori pastorali di fare un salto di qualità in termini di crescita culturale. Mi riferisco a seminaristi e giovani presbiteri che vorrebbero specializzarsi in qualche disciplina, una volta terminato il ciclo istituzionale, oppure a catechisti ed educatori che chiedono di partecipare a corsi formativi o iscriversi a istituti e facoltà teologiche.
Purtroppo, crescono i casi in cui, chi ha la responsabilità di favorire e sostenere, come preti e vescovi, queste esperienze le nega in ogni modo. Non mi addentro nel capire il perché di questo diniego, spesso basato su motivazioni discutibili (scarsezza di risorse umane o economiche, «sospetti» su alcuni ambienti culturali, invidie, gelosie e via discorrendo).
Il buon Dio non ci ha solo dotato di un cuore ma anche di un intelletto. Ambedue vanno formati costantemente e seriamente. Mi ritornano in mente le parole di Jaques Maritain: «si deve avere l’intelletto duro e il cuore dolce. Aggiungevo malinconicamente che il mondo è pieno di cuori aridi con intelletto molle».






C’è sempre stata una sorta di “lotta di classe” tra coloro che son dediti alla pastorale e coloro che trascorrono più tempo nelle aule e nelle curie. Indubbiamente la vita della Chiesa oltre che dal Vangelo è influenzata anche dalla dottrina marxista. Tuttavia il riscatto sociale dei primi e la buona riuscita del loro compito sono determinati dalle conoscenze e dalle competenze dei secondi, mentre la necessità e l’utilità del servizio dei secondi vengono verificati dai primi. Importanti al bene comune divengono quindi le relazioni reciproche, la comunicazione tra prassi
e sapere, come pure il travaso delle diverse conoscenze e il riconoscimento e il rispetto della pari dignità.
Caro Rocco D’Ambrosio, condivido quanto scrivi con parresia e chiarezza. Su questo punto (cultura, teologia, etc) ho scritto qua e là e non ritorno sopra. Faccio solo notare che proprio i coriferi della “concretezza” e della “pastorale”, di fronte poi ai problemi, chiamano gli “esperti” (che non sempre coincidono con coloro che studiano) per “sapere come stanno le cose”. A questi partigiani del concreto e della vita reale direi: come mai, nonostante l’attività che svolgete, nonostante la tanto decantata concretezza, non riuscite ad elaborare qualche riflessione? La vostra prassi non è generatrice di idee? Il rischio di coloro che sottostimano la cultura nella Chiesa è di ridursi a essere dei “manovali” (del sacro o di altro). Non a caso, di fronte alle novità, il loro meccanismo mentale funziona così: come “sapere” cosa “fare”? In altri termini tornano al vecchio adagio (da cui di fatto non hanno mai preso congedo fin dai tempi del seminario o di altre istituzioni): quali teorie dobbiamo “applicare” alla realtà? Conclusione: se per cultura intendiamo quell’insieme di significati e di valori che informano un certo stile di vita (Lonergan), allora direi che il cattolicesimo sottostima la teoria e la prassi.
Non ho capito bene a chi sarebbe rivolta la vis polemica di questi post. Chi sono quelli che insistono solo sul pastorale? perchè di fatto anche Papa Francesco spesso si rifugiava in questa dimensione per via di un certo fastidio verso le questioni “dottrinali”.
Forse l’errore di fondo è separare “dottrina” e “Vangelo” oppure prassi e riflessione? Un po’ come avviene in democrazia quando a risolvere molte magagne si chiamano i “tecnici” come se i tecnici non avessero una formazione “politica”. Di fatto è impossibile qualsiasi prassi che non sia frutto di riflessione e vale per tutti i gruppi che si dividono tra loro, si fa prima ad accettare che esistono scuole diverse, impostazioni filosofiche, politiche, economiche diverse ecc.
“il professore Marcello Bordoni, in una delle sue riflessioni sulla relazione tra cristologia e inculturazione.”
Ho uno dei suoi volumi dedicato alla cristologia, facciamo che non sarebbe molto d’accordo con l’enfasi demitizzante che si ritrova spesso e volentieri in queste pagine.
La sfida di fondo rimane quella della contemporanea cultura individualista, che svuota il concetto cristiano di persona della sua dimensione più “trascendente”.
Più che il pregiudizio anticulturale dei cattolici pesa il pregiudizio anticlericale del mondo della cultura. Per adesso mi pare che sia stato accolto bene negli ambienti che “contano” (Musica, cinema, politica, tutti tranne Repubblica.)