Deculturazione, cattolicesimo e lavoro teologico

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chiodo

Nel dibattito che si è aperto sul «deficit culturale» del cattolicesimo (cf. «Perché i cattolici faticano a rispondere alle sfide culturali?», su Avvenire), non mi pare inopportuno ricondurre la questione a radici piuttosto antiche, risalenti a più di un secolo fa.

Il cattolicesimo può fare cultura solo se si interessa in modo strutturale della cultura. Altrimenti entra in una deculturazione che non solo è subìta, ma è prodotta dal cattolicesimo stesso.

Solo un cenno per ricordare qui la lucidità del cardinale C.M. Martini e la sua denuncia «estrema» sul ritardo di 200 anni della Chiesa cattolica. Per approfondire la questione, vorrei richiamare gli sviluppi che l’antimodernismo ha determinato all’interno del corpo ecclesiale cattolico.

Irrilevanza (culturale) coltivata

La irrilevanza culturale del cattolicesimo è stata voluta, non è soltanto il frutto di un destino. Ed è stata voluta non solo dal «nemico», ma dalle decisioni ecclesiali del magistero.

La presa di distanza dall’intera cultura contemporanea ha convinto la Chiesa cattolica della possibilità di poter continuare ad essere fedele alla tradizione utilizzando esclusivamente il sapere «interno».

L’annuncio del Vangelo, la ricerca del bene, la formazione dei ministri e la struttura dell’istituzione si potevano immaginare autonomamente, nella convinzione illusoria di aver raggiunto l’autosufficienza e di poter guardare la cultura «esterna» dall’alto e da fuori.

Questa idea, del tutto nuova, è sorta nel magistero tra la fine del 1800 e inizi del 1900. E ha trasformato in modo profondo il modo con cui la Chiesa parla di sé e fa esperienza di sé. Il XX secolo è stato segnato a fondo da questa idea, non solo prima del Concilio Vaticano II, ma anche dopo.

Potremmo identificare dapprima i 50 anni anteriori al Concilio, ma poi anche i 30 anni successivi agli anni 70 come segnati a fondo da questo orientamento. Tutto questo periodo è stato largamente dominato da quella forma di antimodernismo che sospetta della cultura, in modo veramente radicale.

Non vi è stato soltanto l’antimodernismo del Decreto Lamentabili (1907), dell’enciclica Pascendi (1907) o di Humani generis (1950), ma anche quello di Veritatis splendor (1993), Ordinatio sacerdotalis (1994), dei motu proprio Ad tuendam fidem (1998) e Summorum pontificum (2007). Sia prima, sia dopo il Concilio Vaticano II, che costituisce una sorta di «isola» negli anni 60-70, i teologi non sempre hanno potuto o hanno voluto far valere ragioni diverse, sul piano spirituale e culturale.

Non si può tacere di fronte a Veritatis splendor e a Summorum pontificum e poi stracciarsi le vesti perché il cattolicesimo non si nutre di cultura. La sottocultura di cui si nutrono quei documenti è ancora viva e la sua impostazione condiziona la povera produzione culturale cattolica ancora oggi.

Impostazione difensiva

Se si imposta il cattolicesimo solo in difesa, non ci si può lamentare se non si riesce più ad impostare un gioco interessante. D’altra parte, considerando l’antimodernismo di inizio XX secolo e quello del post Concilio, bisogna riconoscere il fatto che le condizioni istituzionali e giuridiche di esercizio della teologia sono molto peggiorate nel 1983 rispetto al 1917.

Tra le cose che normalmente si trascurano c’è la differenza di libertà di espressione teologica tra il CIC 1917 e quello del 1983. Il codice sorto nel pieno della crisi antimodernista era più liberale del codice del 1983, come ha ricordato lucidamente W. Böckenförde già 20 anni fa. La recezione distorta del Concilio ha illuso il magistero di poter essere autosufficiente. E, dopo il 1983, su questo punto ogni intervento è stato ancora più restrittivo.

Un dialogo vero con la cultura è compatibile per la teologia solo con una riforma del CIC, circa le norme che attengono al rapporto tra magistero e teologia. La libertà garantita al teologo «in comunione» si è ridotta vistosamente, anche dal punto di vista della sanzione canonica, e chi si rapporta alla cultura in modo troppo esplicito, rischia di compromettere il proprio nome e il proprio lavoro.

Che il silenzio custodisca la comunione è una verità che non può valere sempre e comunque. Questa pretesa è degna dei regimi totalitari, non della comunione ecclesiale.

Se diciamo che il rapporto con la cultura è di nuovo ritenuto importante, dobbiamo anzitutto creare le condizioni di esercizio di questo rapporto. Il dialogo con la cultura ha pur sempre un prezzo, anche molto alto. Ma se il sistema dissuade in ogni modo da un approccio critico e censura pesantemente il dialogo con la cultura comune, occorre intervenire sul piano istituzionale.

Se anche i vescovi rischiano di essere censurati, quando fanno riferimento alla cultura, ad esempio sul tema dell’insegnamento della religione, per favorire un adeguamento della normativa e della prassi alle condizioni reali della cultura della scuola e dei giovani contemporanei, nel pluralismo religioso che oggi viviamo di fatto, e vengono ricondotti sostanzialmente alla logica del Concordato del 1929 (dove antimodernismo e modernismo potevano tranquillamente baciarsi e darsi la mano), allora la questione è più seria di quanto sembri.

Tutto bene, tutto finto

Diceva Blondel, nel 1904, nel suo piccolo capolavoro Storia e dogma, scritto proprio all’inizio del conflitto più duro: «A un chiodo dipinto, si può appendere solo una catena dipinta». Dipingiamo un’immagine di donna e di uomo e le facciamo concordare con l’immagine di Chiesa. Tutto bene, ma è tutto finto.

Il coraggio di una teologia che faccia dialogare seriamente la tradizione cristiana e cattolica con la cultura contemporanea non permette di correlare solo dei “dipinti”: veri chiodi e vere catene chiedono apertura, riflessione, critica sincera, veri apprezzamenti e nuovi paradigmi.

Non si può domandare in generale e in astratto un dialogo con la cultura, e poi rifugiarsi, in concreto, solo nelle soluzioni del passato; non si possono magnificare le diverse culture, e difenderne solo una; non si può osannare la presenza della donna, e tenerla come carta da parati; non si può lodare apertamente la vocazione matrimoniale, ma confinarla in un angolo rispetto al ministero.

O sui singoli nodi più brucianti si aprono nuove strade concrete e determinate, con deliberazioni responsabili, o si contribuisce solo alle chiacchiere da salotto. Un cattolicesimo capace di «fare cultura» non ha solo molto da insegnare, ma anche molto da imparare, dopo un secolo di pesante sordità, segnata da grandi pregiudizi.

Anche nel contribuire a una scuola che sappia onorare tutte le tradizioni religiose, e non solo una. La lungimiranza culturale non corrisponde, sempre, all’immediato tornaconto. Ma non è detto che essere magnanimi non paghi più che essere semplicemente schierati alla difesa di sé, di quel sé che ci sembra non avere alternative.

Se sapremo dialogare con la cultura comune, potremo appendere le nostre catene ai chiodi altrui, e le altrui catene ai nostri chiodi. Così, nel passato, si sono costruite le chiese e le piazze, le case e i ponti.

Se non correremo questi rischi di novità, se non entreremo in nuovi paradigmi, se non ci lasceremo ammonire dalla bella immagine di Blondel del chiodo dipinto e della catena dipinta, produrremo, quasi inavvertitamente, ma inesorabilmente, un cattolicesimo inchiodato e una tradizione incatenata.

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8 Commenti

  1. Angela 14 marzo 2024
  2. Angela 14 marzo 2024
  3. Adelmo li Cauzi 13 marzo 2024
    • Anima errante 13 marzo 2024
      • Adelmo li Cauzi 14 marzo 2024
        • Anima errante 14 marzo 2024
  4. Giovanni Di Simone 13 marzo 2024
    • Anima errante 14 marzo 2024

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