Il futuro e i sonnambuli

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sonno

Ci sono tre scenari di questi ultimi giorni che avrebbero l’ambizione di orientare il futuro; il primo è l’intelligenza artificiale, simbolo supremo delle «magnifiche sorti e progressive», utilizzata con straordinaria efficacia per moltiplicare la potenza distruttiva dell’aviazione israeliana sulle famiglie palestinesi. Il secondo è la grande assemblea di Dubai, presieduta e animata dai lobbisti dell’industria fossile, che scopre il nucleare come l’energia pulita del futuro. Il terzo è la geniale invenzione per fermare i migranti che verranno, deportandoli in Albania o in Rwanda o in altri paesi che ce li tolgano dalla vista (cf. qui su SettimanaNews).

La concomitanza di questi tre scenari avrebbe dovuto indurre un moto generale di ribellione e di indignazione e invece tutto è stato accolto e «digerito» come una quieta normalità, con una attitudine da «sonnambuli», secondo il lessico, fin troppo gentile, di una recente ricerca sociologica (cf. qui su SettimanaNews).

È evidente, anche solo a una prima riflessione, la totale assenza di uno sguardo progettuale, il volgersi cinico e violento sulla convivenza umana, la fuga da ogni interrogazione alternativa alla disperata stoltezza del presente.

In questo contesto riflettere sul «Futuro tra utopia e distopia», come invita a fare l’ultimo numero di Credere Oggi, rivista di divulgazione teologica con una lunga storia alle spalle, è una dissonanza tanto coraggiosa quanto necessaria.

Soglie, margini, tracce

Sono queste tre parole ricorrenti nei diversi contributi emersi dal lavoro collettivo di confronto che ha preceduto la monografia.

Parole che dicono umiltà e profondità di sguardi, consapevolezza delle complessità, rinuncia a sintesi perentorie e altisonanti, disponibilità a percorsi inediti di pensiero e di vita.

Gli autori, studiosi di diverse discipline, sono pure coinvolti in attività di insegnamento e di accompagnamento di gruppi giovanili e dunque sollecitati quotidianamente a declinare lo studio con le attese e le ferite di vissuti sensibili e, spesso, tormentati.

Fabrizio Mandreoli, coordinatore della monografia, delinea nel suo contributo la «novità» metodologica della ricerca, intesa come «tentativo di vedere», «tentativo di attraversamento», «tentativo di futuro», svolto in uno stile permanente di confronto, in un rapporto dialogico e partecipe, nella cura di uno sguardo libero da condizionamenti antichi e nuovi, disponibile a «privilegiare i contesti liminali e sovente nascosti e a restare aperto all’accendersi di domande sul vivere collettivo».

Sullo sfondo emerge e viene raccontata l’esperienza di anni di lavoro dell’associazione «Insight» e del suo svolgere ricerca partecipante, critica e condivisa in diversi ambiti «periferici» e ignorati della città di Bologna, dal carcere, alle comunità credenti di immigrati, agli adolescenti di un centro giovanile, alla realtà di un gruppo di preghiera cattolico del mondo LGBT.

Le periferie planetarie

Lo sguardo si allarga, allora, verso «periferie» nascoste o rimosse per la loro presunta insignificanza: l’arcipelago di Tuvalu, tra l’Australia e le isole Hawaii, nove isolette e dodicimila persone candidate a scomparire in quanto sommerse dall’innalzamento degli oceani e divenute dunque simbolo della catastrofe ecologica che stiamo vivendo, allusione allo svanire per tutti di «un suolo saldo, certo e garantito» – come scrive Nicola Manghi, citando Bruno Latour – ma anche «occasione per intessere di nuovi fili la trama» di questa piccola comunità-simbolo.

Così i territori dell’Amazzonia, rientrati nel cono d’ombra della marginalità una volta spenti i riflettori internazionali e affidati all’impegno degli operatori che silenziosamente continuano ad accompagnare e a lasciarsi interrogare dai popoli che resistono nell’abitare quella terra «fondamentale per il clima globale e l’equilibrio sistemico e di conseguenza per il presente e il futuro dell’umanità», come scrive nel suo contributo Deyanet Garzon.

L’Amazzonia – scrive ancora – si pone come «frontiera del futuro» e come occasione di «un processo di trasformazione e trasfigurazione personale» finalizzato ad «essere apprendisti, insieme ai popoli indigeni, nell’arte di essere umani».

Anche i territori del Sud italiano, desertificato – scrive Giorgio Marcello – sul piano ambientale, sociale, politico ed ecclesiale, con la prospettiva minacciosa della «secessione dei ricchi» per via costituzionale, costituiscono un luogo significativo per cogliere inedite «attese di futuro», inteso non come scialba «previsione» ma come «possibilità» innervata – scrive ancora Giorgio Marcello citando Appadurai – dall’immaginazione, dall’aspirazione e dalla speranza.

E pure la Cina appare come una significativa periferia e non certo per il suo omologarsi alle politiche di potenza neo-coloniali così famigliari all’Occidente, ma perché è descritta, nella severa analisi di Gianni Criveller, nella sua determinazione a comprimere ogni anelito e spazio di libertà, come la vicenda di Hong Kong ha di recente confermato.

«Uno degli aspetti più tristi e preoccupanti di questa vicenda – scrive Criveller – è la distanza siderale tra il sentimento dei giovani e il potere politico», per cui si delinea in Cina «un futuro senza giovani» e tuttavia «la stagione di libertà e il sogno di democrazia sono come un seme sepolto, anzi morto», e proprio per questo affidato alla misteriosa fecondità liberatrice di cui dice l’Evangelo.

Cinque sguardi, locali e planetari, ma altri ancora ci sarebbero, per dire l’incombere di oscurità distopiche e per dire soprattutto l’urgenza di non rassegnarsi ad esse e testimoniare nuovi inizi e inediti ricominciamenti in atto.

La filosofia della nascita

L’orizzonte che orienta e sostiene ogni nuovo inizio è presentato da Michele Zanardi in un contributo di grande chiarezza nel tratteggiare il pensiero di Hannah Arendt, secondo cui l’uomo occidentale ha dimenticato la nascita e proprio questo «oblio della nascita» che evoca l’essere inermi e dipendenti da altri, ha incentivato la sua attitudine padronale e predatoria.

«Sono stata pensata quindi sono» – scrive la Arendt demolendo ogni mito di auto-generazione e auto-realizzazione – e solo imparando a «ri-nascere» nella libertà da ogni omologazione e nella cura di un pensiero critico ed esigente, può essere concesso agli uomini di «ricordare che non sono nati per morire, ma per incominciare».

L’invito al «ricominciamento» non può non evocare l’orizzonte biblico, affidato a una riflessione di ampio respiro di Luca Mazzinghi, che cogliendo nella Bibbia, da Genesi ad Apocalisse, tratti intrecciati di distopia e utopia ne ricerca «tracce per un cammino di resilienza e di speranza».

La ricerca di uno stile ecclesiale che «proprio in un tempo in cui il futuro sembra chiuso, in cui la distopia sembra prevalere sull’utopia» lasci trasparire «la costitutiva dimensione di promessa che abita la fede cristiana» è affidata all’ampio contributo di Simone Morandini direttore della rivista.

Richiamando la «teologia della speranza» di Moltmann, si tratta – scrive Morandini – di «testimoniare una figura di Dio che non sia l’arcigno custode di modelli di umanita’ passati, ma piuttosto colui che accompagna donne e uomini nell’arduo cammino in cerca di futuro».

In buona sintonia, Italo Calvino, che concludendo Le città invisibili aveva suggerito di «cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Richiamando tale attitudine Fabrizio Mandreoli conclude il suo scritto affermando «il bisogno urgente di vissuti di attenzione, di approfondimento continuo, che cercano e sanno riconoscere le forme di resistenza al male, per vedere il bene, per coltivarlo, per farlo durare, dargli spazio e condividerlo».

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