Lo spirituale dell’arte

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L’ottobre scorso Giuliano Zanchi – prete della Diocesi di Bergamo – ha pubblicato Lo spirituale dell’arte con l’Editrice Bibliografica, specializzata in pubblicazioni dedicate al mondo delle biblioteche e dei musei. L’autore si rivolge in particolare ai professionisti museali, astenendosi di trattare l’arte delle chiese e liturgia cattolica perché «esula dagli scopi di questo libro» (p. 197).

I precedenti

L’aspetto spirituale dell’arte era già emerso nel passaggio al XX secolo. Gli artisti introdussero ampie innovazioni di stili e di scuole, grazie ai loro intensi intrecci con la filosofia, la letteratura e la politica.

Zanchi ricorda che «un attimo prima della “morte di Dio” ‒ annunciata da Nietzsche ‒ era stata proclamata quella dell’“Arte”. […] “Morte dell’Arte” significa la fine della sua pretesa di essere luogo di “rivelazione dello Spirito”, come un tempo era stata la religione» (G. Zanchi, La bellezza complice, p. 133).

Si deve a Nietzsche, poi, la rimessa in gioco dell’arte, rivista però «alla luce della volontà di potenza» (p. 70). Il suo tratto insieme tragico e dionisiaco riappare in diversi artisti e poeti, che hanno incarnato la «volontà di potenza come arte» definendosi «avanguardia» di uno «spirito nuovo» nell’arte. W. Kandinsky pubblicava emblematicamente nel 1912 Lo spirituale nell’arte, quale effetto metafisico dell’arte.

«Lo spirituale dell’arte» nel mondo che cambia

Quell’avanguardia ha resistito sino al 1949, quando Cesare Brandi ne proclamò la fine con il saggio eloquente: La fine dell’avanguardia (nota 26, p. 38). Sullo spirituale nell’arte G. Zanchi si addentra senza alcun riferimento a Kandinsky.

La prefazione di L. Berzano precisa cosa sia successo dopo quel 1949. «Il capitalismo incorpora il lavoro degli artisti e delle équipes di designer nella produzione degli oggetti come se fossero prodotti di moda. Tutto – orologi, borse, occhiali, hotel, ristoranti, bar, aeroporti, centri commerciali, luoghi di culto religioso – è coinvolto in un ambiente di aisthésis, cioè di ispirazione, di emozione, di sensibilità». Zanchi aggiunge poi che «la teoria della conoscenza […] e dell’ontologia fondamentale (che cosa è la realtà, e ha un fondamento?), vengono trasferite nel dominio dell’estetica» (p. 154) […], chiamata a divenire il nuovo grembo per tutte le questioni» (p. 164).

La sua affermazione s’inserisce nell’evoluzione estesa del pensiero recente.

«Lo spirituale dell’arte» nell’era postsecolare

Zanchi è stato Direttore del Museo diocesano Bernareggi per 11 anni e da 5 è Direttore scientifico della Fondazione omonima. Conosce bene le strutture mentali del nostro rapporto con i musei e le esposizioni, descrivendole come dispositivi che rivelano il passaggio dalla secolarizzazione all’attuale era postsecolare.

Riporto solo pochi esempi: «Il museo si è affermato come luogo di mediazione della cultura» (p. 82) «Esistono musei per qualsiasi tipo di oggetto della vita» (97).

Il sacro, poi, è riemerso nell’esposizione museale, che «sembra riattivare quei tratti della manifestazione simbolica che nella cultura religiosa erano riservati al sacramento. L’arte sembra essere divenuta lo spazio di una socializzazione dello spirituale nell’epoca del disincanto del mondo e dell’estetizzazione della realtà» (p. 14).

Queste esposizioni hanno dato vita a pratiche rituali, con esposizioni nei musei, a cui si accede attraverso visite guidate, come «esercizi spirituali».

La reazione feroce dell’arte contemporanea allo «spirituale dell’arte»

«Lo spirituale dell’arte» ha creato una prima frattura, innescatasi sull’attrazione della bellezza, di cui la pubblicità commerciale si è appropriata per trasformare gli stili dei consumatori.

Una seconda frattura è venuta dagli artisti contemporanei che si sono contrapposti, mostrando il mondo in tutta la sua ferocia, per tenere sveglie, provocando le coscienze. Lo fanno con registri diversi, «da quello nichilista di Paul McCarthy a quello etico di Ai Weiwei» (p. 171).

In realtà, quel «Vengo troppo presto» ‒ ammetteva l’aforisma 125 di Nietzsche ‒ è diventata l’occasione per cui, «nel giro di una manciata di generazioni, senza conoscere Nietzsche e senza aver letto lo Zarathustra, un giorno ci si è svegliati tutti nietzschiani» (p. 69).

Questo avvenne sul versante «dionisiaco» per i cultori dello «Spirito dell’arte» e sul versante del «tragico» per gli artisti contemporanei. La loro opposizione procura il perdurante smarrimento del senso comune. Le due fratture spingono alla ricerca di un rimedio antidepressivo all’altezza dell’umano comune.

Lo spirituale plausibile oggi e praticabile

Come scrivevo all’inizio, G. Zanchi si rivolge ai professionisti museali. Una lettura ‒ altrettanto severa ‒ sull’arte e la cattolicità, G. Zanchi l’ha fatta con «Quale immaginario cattolico oggi?» sulla rivista bimestrale Credere oggi (testo reperibile in rete).

Se si astiene dal trattare la liturgia cattolica, Zanchi però introduce il penultimo paragrafo «Eppur si vede: estetica del dover essere» (p. 179), di cui è autore «l’autorevole magistero di Pierangelo Sequeri» (nota 274, p. 192). Per il quale la bellezza comparve, «originariamente, in tre costellazioni di eventi: lo splendore della forza che assicura protezione senza contropartita, la tenerezza della cura che riscatta l’intimità senza assoggettamento, l’incanto della grazia di un ordine spirituale dell’essere sensibile» (p. 180, con la nota 268).

Quelle esperienze non appaiono come dovute e nemmeno prescritte e per questo animano i sensi della sorpresa e dell’inatteso. Esse possono animare l’ispirazione e l’impulso di un pensiero e di una prassi capaci di orientare credibilmente il bisogno universalmente diffuso di una nuova e più adeguata cultura civile, oltre che l’intelligenza della fede per uno «spirituale» plausibile oggi e praticabile.

Il congiungersi del bello e del bene

Lo «spirituale» da cercare per Zanchi è l’effetto del congiungersi dell’estetico all’etico, che solo così possono animare il pensiero della bellezza. Esso si dà nelle occasioni più naturali, come «dello sconosciuto che ti soccorre in una difficoltà che di per sé non lo riguarda; oppure quella di chi accudisce a oltranza i vecchi con una leggerezza che non fa pesare il dispendio della propria dedizione; ma pensa anche alla carezza data per limpida manifestazione di una affezione senza secondi fini» (dalla nota 267, p. 191).

Esse ‒ e tante altre ‒ evocano subito un’esperienza estetica intimamente congiunta con la tensione etica. E noi le riconosciamo spontaneamente nel nostro linguaggio, quando «diciamo istintivamente “bravo, hai fatto una bella cosa”, e non “hai fatto una buona cosa”, esprimendo nel registro della percezione estetica quello che appartiene alla qualità etica».

Gli affetti e la bellezza

Al presentarsi dell’altro, degli altri ‒ dello sconosciuto che ti soccorre, o di chi accudisce gli anziani ad oltranza, o alla carezza data per limpida manifestazione di una affezione ‒ avvertiamo la pressione di un’affezione che ci precede, e apprezzando le «differenze qualitative, collocandole sempre nell’orizzonte che valuta della loro più o meno evidente giustizia. Affezioni personali e sentimenti collettivi sono veicolo primario di questa disposizione […] come condizione nella quale ogni esperienza può accedere alla sua propria verità, ratio hominis digna» (p. 166).

Solo così possiamo ricostruire il legame sociale che lo «spirituale dell’arte» e il nichilismo lacerano con il loro estetismo decorativo ed evasivo. Allo stesso modo può dare vitalità nuova alla comunità che celebra la liturgia, della quale, pur astenendosi di parlarne, annota che «le mostre d’arte iniziano a nascere quando le liturgie cristiane cominciano a declinare» (p. 115).

Il sacro e le rappresentazioni della bellezza

Alla presenza di Dio, o assenza, avvertiamo la pressione della sua affezione che precede i nostri affetti e legami. Il Sacramento racchiude tutto questo, a cui si aggiunge l’immaginario rappresentativo.

La relazione dialettica tra l’esposizione dell’arte e il sacramento è da considerarsi nella natura delle cose. La tensione è sorta oggi, anzitutto nella cultura attraversata da lacerazioni provocate dallo «spirituale dell’arte» e dagli artisti attuali. L’intelligenza della fede sa oggi che l’immagine sacra tende a incentivare la bellezza della forma, sa anche però che può allontanare dalla povertà espositiva dell’azione divina.

Per questa ragione la Costituzione sulla liturgia (nn. 124-125) raccomanda di «relativizzare il vecchio apparato iconografico intimandone una custodia sobria e discreta […] per riportare il baricentro della vita spirituale sul carattere sintetico di azione della liturgia» (tratto da «Quale immaginario…?»).

L’immaginario, però, non si stabilisce a tavolino, né si preconizza per deduzione. Dovrebbe scaturire semmai da un insieme coerente fra l’intelligenza della fede in dialogo col presente, la qualità narrativa della Scrittura trasformatasi in senso comune e una partecipazione effettiva dell’immaginazione che da forma alla vita comune.

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