Attualità dei canoni di Nicea

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pantocratore
Nicea: non solo cavilli dottrinali

La formula di fede, deliberata dai vescovi nel 325 a Nicea sotto la presidenza di Costantino, che all’epoca ascoltava anche la sua signora,[1] non deve oggi apparire come il segno di una cavillosità linguistico-dottrinale dei custodi e difensori di quella che si andava sempre più configurando come la dottrina cristiana.

Già a partire dal II secolo d.C., infatti, con notevoli sviluppi proprio nel secolo quarto – il secolo di Nicea, ma soprattutto il secolo della cosiddetta controversia ariana – le prime voci originali della nuova religione si ritrovavano in ognuna delle parti più importanti dell’Impero romano, sia a Roma e nella sua sfera d’influenza, sia in Oriente, come ad Antiochia e a Nicea. Nicea era una città della Frigia ellespontica, sorta sulla riva orientale del lago Ascania (oggi Iznik Gölü), nella località dell’odierna Iznik.

L’esigenza di coloro che successivamente, nel secolo quinto-sesto, saranno denominati dal vescovo Cesario di Arles patres ecclesiae, appare soprattutto quella di sottolineare la propria “differenza” religiosa rispetto ai tanti movimenti filosofici, gnostici, manichei, montanisti che percorrevano, e talvolta laceravano, le Chiese particolari nei vari centri dell’impero romano, oppure rispetto a quelli del pensiero e della prassi religiosa senatoria che, a livello locale, incideva molto.

Una situazione, questa, che è analoga, più di quanto si pensi, a quella del nostro tempo, allorché non mancano trasformazioni culturali che offuscano la confessione di fede e la prassi cristiana della Chiesa, la quale continua comunque a proclamare Gesù unico e universale Salvatore.

Del resto, com’è stato osservato, anche «il Santo Padre Francesco, nel suo Magistero ordinario, fa spesso riferimento a due tendenze che assomigliano, in alcuni aspetti, a due antiche eresie, il pelagianesimo e lo gnosticismo, anche se è grande la differenza tra il contenuto storico odierno secolarizzato e quello dei primi secoli cristiani».[2]

Ma, soprattutto, come ben appare negli eventi del secolo quarto d.C., gli esponenti della nuova fede cristiana tendevano, in quel tempo, a caratterizzarsi sempre di più come differenti rispetto alle manifestazioni del giudaismo (la fede dei “fratelli maggiori”, ben più antichi della tendenza che si rifaceva, invece, a Gesù di Nazaret, proclamato Signore e Cristo).

Comunità cristiane differenziate

Il cristianesimo, già all’epoca degli imperatori della dinastia giulio-claudia (che, ricordiamolo, si sviluppò nel corso del primo secolo dopo Cristo), era ben «lungi dal presentarsi in maniera compatta e omogenea».[3] Anche l’epoca successiva, fino alla convocazione del concilio di Nicea nel 325, attesta una discreta effervescenza delle Chiese cristiane tardo-antiche, nelle quali i discepoli di Gesù Cristo Signore, lungi dall’essere perseguitati in maniera generalizzata, appaiono, agli occhi degli storici del cristianesimo e delle Chiese, abbastanza liberi di operare, celebrare e, soprattutto, pensare e formulare linguisticamente la propria fede.

Del resto, «la prima persecuzione anticristiana “non eccezionale” e “non occasionale” si ha soltanto con Valeriano nel 257: nell’età di Marco Aurelio, stando alle fonti, abbiamo soltanto episodi locali connessi alle diverse politiche dei governatori».[4]

Tutto il contesto di relativa libertà dei cristiani nel mondo tardo-antico è altresì da correlare con le connotazioni religiose del Senato romano.[5]

Un meticoloso esame delle situazioni nelle province di Asia proconsolare, di Egitto, di Africa proconsolare, di Siria, va svolto, dunque, sempre tenendo presenti gli orientamenti religiosi del Senato romano.

La convinzione di fondo degli storici più recenti, infatti, è che si dia una peculiarità regionale nello sviluppo del cristianesimo antico e tardo-antico; esso va perciò sempre di più correlato con i profili e gli atteggiamenti dei governatori di provincia che, di volta in volta, rappresentavano l’Impero, oltre che degli intellettuali espressi dalle varie comunità cristiane.

Piuttosto che attardarsi ancora a procedere alla luce di «categorie astratte e inadeguate, quali, ad esempio, la Chiesa e l’impero», i conflitti dottrinali e, soprattutto, i veri e propri episodi di lotta e di persecuzione anti-cristiana, avvengono, in ogni caso, a partire da un «primo attacco di un intellettuale alla fede e alla comunità dei cristiani. Celso, un medioplatonico di probabile afferenza alessandrina, nel suo Discorso veritiero volle dimostrare l’inconsistenza della dottrina cristiana e, contestualmente, esortare chi l’aveva sottoscritta a rientrare nella sintonia con la paideia religiosa tradizionale e, conseguentemente, con le esigenze di un impero straziato da calamità e violenze».[6]

I conflitti, prima che disciplinari, sono “dottrinali”, in un vero corpo a corpo che si svolge tra intellettuali delle opposte sponde.

Le varie “anime” delle Chiese tardo-antiche

Nelle Chiese particolari emergono dunque, come si può verificare proprio nel 325 dai resoconti che ci sono pervenuti su Nicea, due anime del cristianesimo, di ordine intellettuale e pratico: «Una “rigorista”, che concepiva la Chiesa come un circoscritto sodalizio di credenti alieni dal peccato; l’altra, invece, che potremmo definire “inclusiva”, la quale ammetteva una disciplina di riammissione per chi aveva sbagliato e, più in generale, concepiva la Chiesa come un luogo di accoglienza».[7]

Ed ecco anche perché, a partire dal II secolo in poi, ovvero dall’età degli Antonini, o anche a partire dal periodo del cosiddetto impero umanistico, «il messaggio cristiano fu profondamente impegnato a tradurre le sue originali categorie di pensiero teologico, che erano giudaiche, nelle forme e secondo i modelli del tardo ellenismo».[8]

Dalla stagione degli imperatori giulio-claudi in poi, passando per Marcus Cocceius Nerva, fino alla tetrarchia imperiale, le comunità cristiane interagiscono con le collettività politiche, gli imperatori, le scuole filosofiche e culturali e, soprattutto, con i funzionari locali dell’impero, facendo emergere non soltanto diatribe linguistico-dottrinali (evidenti, ad esempio, come si è già visto, nel sottofondo del Credo di Nicea primo), ma altresì un tessuto socio-culturale abbastanza complesso.

Tutto ciò si può, a mente fredda, ricavare, ad esempio, proprio dai canoni di questo concilio ecumenico, che stiamo commentando.

Nicea e, soprattutto, la sede imperiale Nicomedia, erano un punto di gravità di tutto l’impero, mentre, a sua volta, Milano lo sarà dal 286 al 402 (ancora insieme con Nicomedia, Sirmio e Treviri): anno, quest’ultimo del 402, in cui l’amministrazione centrale dell’impero sarà spostata a Ravenna (e lo sarà fino al tramonto del polmone occidentale dell’impero nel 476).

Dopo il concilio del 325, non solo i vescovi, ma anche gli imperatori e i funzionari imperiali (tra i quali possono essere annoverati gli stessi vescovi che giudicano le liti nel tribunale della Chiesa) tuteleranno sostanzialmente quella che viene ormai chiamata la religio: questa religio appare tipica di coloro che ottemperano ai decreti di Nicea, cioè ai canoni promulgati dai “cattolici”.

Tale religio dovrà particolarmente all’africano Agostino (il quale nasce nel 354 in Numidia, assumendo il sacerdozio nel 391 con le relative incombenze pastorali) la propria messa a punto, in lingua latina.

Nei suoi scritti, quella che ormai stava diventando una formulazione teologica e filosofica tecnica, mette a fuoco la domanda centrale, che aveva già appassionato per un mese, in lingua greca, i padri del 325 a Nicea: «Come spiegare questo paradosso logico di un’unica essenza di tre essenze… Ancora, se in sé già il Padre è compiuta Persona o essenza, perché genera l’altro? Viceversa, se Dio è l’unica essenza personale, perché la fede cristiana lo confessa tripersonale, relazione di alii in sé stesso, sì da cercare un termine – che [Agostino] non trova – per specificare questa relazione?».[9]

Sembrerebbe, a prima vista, una questione astratta e soltanto dottrinale, ma che, a Nicea, era diventata anche disciplinare, con non poche ricadute di ordine sociale e politico.

Sarà proprio del “numida” Agostino d’Ippona la scoperta, anzi la svolta, della teoria della grazia assolutamente libera di Dio: essa verrà elaborata da Agostino, come ricordano le sue Retractationes, nello scritto De praedestinatione sanctorum e nel De dono perseverantiae: ormai la precedente dialettica metafisica platonica e neoplatonica – correntemente utilizzata in precedenza dagli intellettuali cristiani delle varie zone dell’impero –, pur mantenendo la sua potenzialità conoscitiva, verrà, dal vescovo d’Ippona, sollecitata ora a pensare la “dialettica dell’amore giustificante”.

La Scrittura assumerà così, per tutto il mondo di lingua latina, ma non solo, la funzione di guida alla conoscenza della dialettica tra le persone in Dio, ma anche della voluntas Dei e dell’amor Dei, al cui servizio si pone, appunto, il vescovo Agostino: scrittore e predicatore indefesso, che sarà imitato un po’ dovunque nelle terre dell’impero, per esempio in Gallia Narbonense, dove predica Cesario di Arles.

Alcune istanze dei canoni niceni in prospettiva attualizzante

Non bisogna considerare tali riflessioni di ordine storico-teologico come un problema per eruditi, a meno che non si dichiari di voler prendere sotto gamba l’indicazione giubilare: «Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il 20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale».[10]

Tra i grandi temi dell’Anno santo, sarà centrale quello dell’indulgenza, a cui è connesso il sacramento della Penitenza (che, nel mondo tardo-antico, e particolarmente tra i 318 di Nicea, era incastonato in una prassi penitenziale): «L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”, proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini».[11]

Ora, tra le tante istanze discusse a Nicea, bisogna ricordare, in ottica attualizzante, certi esiti del movimento donatista: movimento di carattere rigoristico e pauperistico, sorto in seno alla Chiesa africana proprio nel secolo di Nicea primo (il IV secolo).

Esso giungeva, in alcune parti dell’Impero, a sostenere la nullità dei sacramenti amministrati da vescovi peccatori, alla lettera, traditores, nel senso che avevano “consegnato” (o tràdito) i libri sacri cristiani ai pagani durante le persecuzioni dei funzionari periferici di Diocleziano.

L’africano Agostino, all’indirizzo dei rigoristi-donatisti, a volte da lui qualificati anche come manichei, scriverà testualmente che «chiunque sarà stato separato dalla Chiesa Cattolica, per quanto ritenga di vivere con onore, per questo solo peccato di essere disgiunto dall’unità di Cristo non ha vita; ma l’ira di Dio rimane sospesa su di lui».[12]

Si ricordi che, nel medesimo secolo del concilio di Nicea, il manicheismo risultava, in ogni caso, presente in tutto l’impero romano, tanto che lo stesso Agostino d’Ippona, prima della conversione al cristianesimo, era stato manicheo: estirpata in Asia minore, tale istanza rigorista sopravviverà poi in Bulgaria e i suoi seguaci, già dal secolo VII, saranno detti anche «bulgari».

Si osservi che il primo dei venti canoni di Nicea affronta proprio il caso di persone eccessivamente “rigoriste” o “catare”: alcune anche appartenenti al clero, giunte al punto di mutilarsi o a castrarsi nelle parti genitali (come avevano già fatto, in precedenza, Origene e Tertulliano, in precedenza fautori di un ascetismo rigorista).

Alcune di queste persone, osserva il concilio Nicea, sono state poi ascritte tra i membri del clero, per cui ci si chiede come comportarsi in questi casi: «Se qualcuno, malato, ha subìto dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e, in seguito, nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. È evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare sé stessi ma, se qualcuno fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero».

Doveva trattarsi, appunto, di diffuse prassi catare, che risultano puntualmente criticate dal concilio ecumenico di Nicea, come ribadisce il canone ottavo, dal quale si evince non soltanto la presa di distanza da decisioni reputate non misericordiose ed escludenti verso chi abbia sbagliato e voglia ritornare nella comunità cattolica, ma si prevede anche una “discesa di grado” per certuni vescovi ostinati, che procedevano sempre in nome del rigorismo estremo e di una falsa interpretazione della beatitudine evangelica dei puri di cuore (cf. Mt 5,8).

Erano vescovi che non avrebbero voluto piegarsi neppure di fronte a chi fosse passato a seconde nozze, oppure di fronte a chi, dopo essere caduto nell’apostasia, si era poi pentito ed era stato ri-ammesso nella Chiesa cattolica e apostolica: «Quanto a quelli che si definiscono càtari, cioè puri, qualora si accostino alla Chiesa cattolica e apostolica, questo santo e grande concilio stabilisce che, ricevuta l’imposizione delle mani, rimangano senz’altro nel clero; è necessario però, prima di ogni altra cosa, che essi dichiarino apertamente, per iscritto, di accettare e seguire gli insegnamenti della Chiesa cattolica, che cioè essi comunicheranno con chi si è sposato per la seconda volta e con chi è venuto meno durante la persecuzione, per i quali sono stabiliti il tempo e le circostanze della penitenza, così da seguire in ogni cosa le decisioni della Chiesa cattolica e apostolica. Quando, sia nei villaggi che nelle città, non si trovino che ecclesiastici di questo gruppo essi rimangano nello stesso stato. Se, però, qualcuno di essi si avvicina alla Chiesa cattolica dove già vi è un vescovo o un presbitero, è chiaro che il vescovo della Chiesa avrà dignità di vescovo e colui che presso i càtari è chiamato vescovo, avrà dignità di presbitero, a meno che piaccia al vescovo che quegli possa dividere con lui la stessa dignità. Se poi questa soluzione non fosse per lui soddisfacente, gli procurerà un posto o di corepiscopo o di presbitero, perché appaia che egli fa parte veramente del clero e che non vi sono due vescovi nella stessa città».

Conclusione

La questione dei catari – che avrà ancora rigurgiti nel corso del Medioevo, ma non solo – va, dunque, spiegata nell’orizzonte di una concezione peculiare dell’antropologia e della sessualità umana, quale emerge appunto nelle discussioni di Nicea primo. Essa riguardava sia uomini che donne, anche quelle donne che frequentavano, eventualmente di nascosto, i membri del clero, come leggiamo chiaramente nel canone terzo del grande Sinodo: «Questo grande sinodo proibisce assolutamente ai vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi e in genere a qualsiasi membro del clero di tenere delle donne di nascosto, a meno che non tratti della propria madre, di una sorella, di una zia, o di persone che siano al di sopra di ogni sospetto».

Tale canone disciplinare va compreso, quindi, nella volontà di rendere uniforme la prassi, da perseguire da parte dei pastori delle Chiese convenute in concilio, anche in risposta agli inviti e all’ospitalità dell’imperatore Costantino: una prassi che riguardava non solo i gesti liturgici – ad esempio, se pregare in piedi o in ginocchio, come si legge nel canone venti –nonché l’uso del denaro e i veri e propri traffici economici usurari da parte di certi membri del clero, come si legge nel canone diciassette;[13] ma soprattutto, faceva riferimento alla prassi penitenziale che era, all’epoca, molto articolata e rigorosa, in vista sia del battesimo sia della “ri-educazione cristiana” dei “caduti” nell’apostasia.

Proprio perché la penitenza era uno stile disciplinare lungo e articolato, nelle Chiese nicene non dovevano mancare coloro che rinviavano sine die la penitenza, magari fin sul letto di morte, chiedendo, soltanto in quel momento, di poter essere di nuovo ammessi all’eucaristia, a cui si accedeva, ricordiamolo, soltanto dopo precisi periodi e dopo meticolosi cammini penitenziali.

Si legge, perciò, nel canone tredicesimo di Nicea primo: «Con quelli che sono in fin di vita, si osservi ancora l’antica norma per cui, in caso di morte, nessuno sia privato dell’ultimo, indispensabile viatico. Se poi avvenisse che quegli che era stato dichiarato disperato, ed era stato ammesso alla comunione e fatto partecipe dell’offerta, guarisca, sia ammesso tra coloro che partecipano alla sola preghiera (fino a che sia trascorso il tempo stabilito da questo grande concilio ecumenico). In genere, poi, il vescovo, dopo inchiesta, ammetterà chiunque si trovi in punto di morte e chieda di partecipare all’eucaristia».

Per tutto questo, e tanto altro, comprendiamo meglio certe insistenze, apparentemente astratte, della Bolla d’indizione del primo Giubileo del terzo millennio: «Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, “della stessa sostanza del Padre”, che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: “Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21)».[14]

[1] Cf. Il significato del primo concilio ecumenico a Nicea nell’anno 325 per noi oggi. Lezione promossa dal Dicastero per l’unione dei cristiani durante l’incontro con i sacerdoti, religiosi e laici responsabili dell’Arcidiocesi di Belgrado, punto d): «questo Concilio fu convocato da un imperatore, e più precisamente dall’imperatore Costantino. L’imperatore ravvisava un grande pericolo per il suo progetto di rafforzare l’unità dell’impero sulla base dell’unità della fede cristiana nella violenta disputa accesasi in quel tempo nella cristianità intorno alla confessione cristologica. Nel rischio imminente di uno scisma all’interno della Chiesa, l’imperatore percepiva dunque, principalmente, un problema politico; d’altro canto, era abbastanza lungimirante da comprendere che l’unità della Chiesa doveva essere realizzata e protetta non in modo politico, ma religioso. Per unire le fazioni avverse, l’imperatore Costantino convocò il Primo Concilio Ecumenico nella città di Nicea in Asia Minore, nelle vicinanze della residenza imperiale di Nicomedia»: http://www.christianunity.va/content/unitacristiani/it/cardinal-koch/20220/conferenze/Il-Significato-del-primo-Concilio-Ecumenico-a-Nicea-nell-anno-325-per-noi-oggi.html [18.11.2024]. Si ricordi che Flavia Fausta Maxima – dichiarata Augusta proprio nel 324 o 325 – era la figlia più giovane dell’imperatore Massimiano e della siriana Eutropia, che gli diede anche Massenzio. Il matrimonio con Costantino aveva avuto luogo nel 307 in Gallia, probabilmente ad Arles, allo scopo di porre un sigillo, anche attraverso un legame di parentela, sull’alleanza che Costantino concluse con Massenzio contro Galerio.

[2] Luis F. Card. Ladaria, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Presentazione della Lettera Placuit Deo della Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetto della salvezza cristiana, Sala Stampa della Santa Sede, Giovedì, 1° marzo 2018: https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/ladaria-ferrer/documents/rc_con_cfaith_doc_20180301_presentazione-placuit-deo_it.html

[18.11.2024].

[3] G. Rinaldi, Roma e i cristiani. Materiali e metodi per una rilettura, p. XII. In quest’opera monumentale, Giancarlo Rinaldi «lungi da intenti d’apologeta, secondo la traccia di Santo Mazzarino» (p. 19), rilegge, in 637 pagine (compresi gli importanti e numerosi Indici), tutte le attestazioni relative a quelle che definisce le vere e proprie “due anime”, con relativi conflitti interni, che emergono in importanti comunità cristiane – per esempio quella di Roma e di Cartagine, ma anche di Alessandria d’Egitto, e in tutte le altre province pro-consolari fino alla conclusione della stagione imperiale di Roma -, particolarmente indugiando sul momento successivo alla prima vera persecuzione anti-cristiana. Essa, precisa Rinaldi, è quella «scaturita dall’editto di Decio» (p. 127).

[4] Ivi, p. 97.

[5] Ivi, pp. 473-494.

[6] Ivi, pp. 99-100.

[7] Ivi, p. 127.

[8] Ivi, p. 73.

[9] G. Lettieri, Agostino, in Storia della teologia. I: dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, a cura di Enrico Dal Covolo, Edizioni Dehoniane, Bologna, 1995, pp. 353-421, qui p. 387.

[10] Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, n. 17:

https://www.vatican.va/content/francesco/it/bulls/documents/20240509_spes-non-confundit_bolla-giubileo2025.html#_ftn15 [18,11,2024].

[11] Ivi, n. 23:

[12] Agostino, Epist. CXLI ad Donatistas.

[13] «Poiché molti che sono soggetti ad una regola religiosa, trascinati da avarizia e da volgare desiderio di guadagno, e dimenticata la divina Scrittura, che dice: Non ha dato il suo denaro ad interesse [Levitico 25, 36-37, ndr], prestando, esigono un interesse, il santo e grande sinodo ha creduto giusto che se qualcuno, dopo la presente disposizione prenderà usura, o farà questo mestiere d’usuraio in qualsiasi altra maniera, o esigerà una volta e mezza tanto: o si darà, in breve, a qualche altro guadagno scandaloso, sarà radiato dal clero e considerato estraneo alla regola».

[14] Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, n. 17.

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6 Commenti

  1. Adriano Bregolin 19 febbraio 2025
  2. Giovanni Di Simone 17 febbraio 2025
  3. Emanuele 13 febbraio 2025
    • Lucio 13 febbraio 2025
      • Adriano Bregolin 19 febbraio 2025
  4. Roberto Beretta 13 febbraio 2025

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