Diario di guerra /46. Il ritorno dell’Iran

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L’Iran è l’indiscusso bagliore della contesa. L’Iran torna, d’obbligo, nella pagina del diario. Mentre tutta la gente del mondo ha paura.

L’Iran sostiene di aver subito un’aggressione il primo aprile scorso, per via della distruzione della sede consolare di Damasco per eliminare i capi militari, là riuniti in quel momento, con un alto dirigente del jihad islamico; perciò afferma di aver legittimamente reagito prendendo di mira obiettivi militari israeliani, anche perché l’Onu – come ricordato in queste ore da Tehran – su quanto accaduto a Damasco non ha deliberato alcunché.

Dopo giorni febbrili di informative indirette con gli Stati Uniti, Tehran avrebbe, dunque, deciso di mandare un messaggio “molto forte”, senza l’intenzione che ciò deflagrasse in un conflitto aperto nell’intera regione (e oltre), che il regime, evidentemente, non vuole, quantomeno per lo squilibrio nei rapporti di forza.

Dunque, Tehran ha lanciato dal cielo centinaia di droni e di missili balistici o da crociera da basi iraniane, così che il tempo richiesto per arrivare su Israele – a quasi 2.000 chilometri – fosse considerevole. Molti hanno notato, poi, come il momento scelto per l’azione forse ormai noto. È quello che alcuni – acerrimi avversari del regime – hanno chiamato «blitz al rallentatore». A me questo possibile gioco iraniano non diverte, ricordo che dopo l’eliminazione, con un drone nel 2020, del loro capo militare supremo, Omar Soleimani, promisero vendetta e colpirono un aereo, ma civile, ucraino, parlando di «errore». Comunque, la tesi prevalente è che si sarebbe trattato di un’azione «dimostrativa».  Anche se, innegabilmente, si è trattato di un attacco militare diretto e massiccio contro uno Stato sovrano.

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Se ne sta ora discutendo all’Onu in vista di un voto imminente al Consiglio di Sicurezza. In base alle dichiarazioni ufficiali – non ancora espresse in sede di Consiglio di Sicurezza – la Russia, al solito, riconosce, il diritto di autodifesa dell’Iran, dopo l’attacco alla sede consolare di Damasco.

A questa sommaria rappresentazione dei fatti che riguardano l’Iran ne aggiungerei uno che ritengo molto importante: ad abbattere i droni iraniani prima che giungessero su Israele, con gli USA e la Gran Bretagna, c’era anche la Giordania, Paese della regione che l’Iran sta tentando di destabilizzare.  È di tutta evidenza il motivo della decisione giordana: una spia forte e lampante dello scontro tra arabi e iraniani.

Secondo diversi analisti, il vero obiettivo dei pasdaran iraniani sarebbe il pieno ripristino dell’equilibrio della deterrenza antecedente il 1° aprile, data dell’attentato. Se fosse così sarebbero riusciti nel loro intento? Potranno continuare la loro guerra – fatta di agguati e di attentati – senza rischiare oltre?  Io penso che gli sia possibile solo questo tipo di guerra: ibrida e asimmetrica, mentre niente e nessuno può garantirli dai rischi connessi. Ma allora, che senso ha avuto l’azione dal punto di vista iraniano?

È probabile che dovesse dare – e abbia dato – vigore ai miliziani filoiraniani sparsi nella regione, dicendo «la vostra casa-madre è forte!». Gruppi di Houti yemeniti e Hezbollah libanesi possono crederci. Possibile.  Ma, agli occhi degli iraniani, cosa è stata questa? Davvero una «vittoria», come la definiscono i pasdaran? Penso che agli iraniani del popolo, oggi, risulti che sono semplicemente più poveri, isolati, lontani dalla pace. Con un tasso di inflazione che, su base annua, supera il 50%, la divisa nazionale che precipita e con i prezzi che vanno alle stelle, era questa la prova di forza che l’uomo comune si aspettava? Io penso di no.

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Il regime degli ayatollah non esce rafforzato da questa giornata. Semmai si sono rafforzati solo i pasdaran, vera impalcatura che sostiene un regime ormai privo di consenso interno. Oggi parlano solo loro e i portavoce militari, a riprova del fatto che le recenti elezioni hanno segnato l’ulteriore militarizzazione del regime.

Le immagini dei raduni oceanici che avrebbero dovuto segnare, nella notte dell’attacco, la giornata dell’orgoglio sono stati solo chiassosi assembramenti di pochi scalmanati legati ai pasdaran. I filmati sono eloquenti.

La mossa del giornale ultraconservatore Kayan di definire «traditore» chiunque parli di pace e di stabilità nella regione, sembra confermare la mia percezione, avvalorando i timori di nuove sentenze capitali contro i dissidenti.

La suprema guida iraniana – l’ayatollah Khamenei – sta, ideologicamente, tentando di fare propria la questione palestinese, trasformandola in questione islamica tout court. Il suo slogan, ripetuto poche ora dopo l’azione militare, è: «libereremo Gerusalemme che sarà governata dai musulmani!». Chiaro: Khamenei tenta di trasformare la guerra – ogni guerra – in guerra di religione. Un fatto da proclamare, a gran voce, al mondo intero, specie dopo una giornata così drammatica.

Come non ricordare che da Mosca – altra religione ma stessa dinamica! – si è fatta la stessa cosa, dichiarando, all’Ucraina, la «guerra santa».

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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