Brasile: popoli, territori, violenza del capitale

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Recentemente, il vescovo della diocesi di Brejo, Maranhão, Brasile, mons. Valdeci Mendes, mi ha raccontato di una conversazione con Dona Elena, della comunità di Baixão dos Rochas, municipio di São Benedito do Rio Preto.

Nelle prime ore del 19 marzo 2023, Dona Elena, 65 anni, insieme al marito malato, al figlio e al nipote di 6 anni sono stati sequestrati, per tutta la notte, da uomini armati delle aziende Bomar Agricultura e Terpa Construções, che hanno attaccato il villaggio. Erano quindici criminali, fortemente armati.

La comunità tradizionale è composta da 25 famiglie, agricoltori e raccoglitori, che vivono in questo territorio, di circa seicento ettari, da più di ottant’anni. Le due aziende, presentando titoli di proprietà assolutamente discutibili, pretendono di espellere le famiglie, deforestare il territorio e trasformarlo in un campo di soia.

Quando Elena è riuscita a tornare al Baixão ha visto le case bruciate, i tre forni di farina di manioca distrutti, i granai di farina e riso saccheggiati, polli e maiali rubati, i cani uccisi e gli alberi da frutto abbattuti. Il vescovo Valdeci, emozionato, ha riconosciuto in Dona Elena il soffio della profezia e ha detto: «Non sono stata io a entrare nel conflitto, è il conflitto che è entrato in me».

La terra e il conflitto

Questa schietta affermazione mi giunge come la rivelazione di qualcosa di essenziale, forte e convincente, che, però, supera le mie capacità di intenderla nella sua intensità e completezza.

Ovviamente, non abbiamo mai considerato i conflitti per la terra come se fossero un duello tra contendenti situati sullo stesso piano e abbiamo sempre saputo che coinvolgono aggressori violenti e vittime indifese. Dona Elena, però, mi dice qualcosa che mi sembra nuovo, ma che, evidentemente, è antico come la conquista e la colonizzazione materiale e spirituale dell’Abya Ayala.

Dice con estrema semplicità una verità sempre ignorata e calpestata dagli europei: gli indigeni e i contadini non vogliono il conflitto e non sanno cosa sia il conflitto, fino a quando il capitalismo non lo crea e non lo esporta presso di loro. È qualcosa che viene presentato e mascherato come dialettico, ma in realtà è sempre un’imposizione violenta e unilaterale: della violenza costitutiva del sistema colonialista.

Conflitto è eteronimo di capitalismo. È sempre stato così, e anche quando le vittime, a diversi livelli di confronto, reagiscono all’aggressione con un tentativo di violenza proporzionata, il conflitto e il monopolio della violenza rimangono proprietà e responsabilità di coloro che li hanno inventati.

Violazione dei territori e violazione dei corpi

Non parlo di conflitti in senso generale, ma di conflitti di terra o, meglio, di territori, che sono vissuti e letti dai popoli indigeni, dai quilombolas e dalle comunità contadine tradizionali in termini cosmologici: per questi popoli e comunità, l’essere umano è in un rapporto di intimità e reciprocità con tutti gli esseri viventi, con Ancestrali e Encantados, con la terra e la natura del territorio in cui riproducono la vita. È questa vita, questa postura esistenziale, questa spiritualità che viene assalita dalla violenza del conflitto esportata dal capitale.

Corpi e territori sono profondamente interconnessi; quindi, quando Dona Elena esprime «il conflitto è entrato in me», ci dice un’altra verità incontestabile: la violazione del territorio è inseparabile dalla violazione dei corpi. Profezia eminentemente femminile, perché le donne indigene e contadine, anche nell’ambito dei patriarcati di matrice indigena e afro-discendente, hanno secolare e dolorosa esperienza di corpi violati.

Ciò che accade a Baixão dos Rochas fa parte della violenza quotidiana del sistema-mondo, che ha decretato che anche il Maranhão è, con quasi tutto il suo territorio, una «zona di sacrificio», un sacrificio indispensabile, che, come in tanti altri territori di Abya Ayala e del Pianeta, dovrebbe garantire gli equilibri del mercato alle regioni privilegiate.

In nome della sopravvivenza del capitalismo e del benessere consumistico di una parte dell’umanità, i biomi, gli ecosistemi, le territorialità originali e tradizionali, le comunità e le corporeità vengono distrutti. L’agrobusiness, gli allevamenti intensivi, l’estrazione mineraria, i progetti infrastrutturali e gli investimenti nella produzione di energia idroelettrica, solare ed eolica – queste ultime contrabbandate come sostenibili – stanno uccidendo la vita.

Oggi, tuttavia, questo sacrificialismo radicalizza i processi di distruzione e rivela la sua impotenza nella riproduzione del sistema e, infatti, tutta l’umanità è coinvolta nel disastro, inclusi i privilegiati, i negazionisti e gli indifferenti.

La violenza anomica del capitale

Poiché non è più plausibile, dal 1991, continuare a pensare al conflitto in termini della tradizionale «lotta di classe» e di confronto ideologico e bellico tra blocchi contrapposti, il risultato del cambiamento epocale è la violenza anomica del capitale e dello stato di eccezione.

Insomma, sembra addirittura necessario risignificare il concetto di conflitto, anche a partire dall’evidenza della realtà. Per fare un esempio, forse troppo radicale, oseremmo dire che i campi di concentramento nazisti rientrano nella logica conflittuale?  Aggiornando: se l’attuale ontologia del capitalismo è lo sterminio o il genocidio, potremmo ancora parlare di conflitto?

Insieme a Dona Elena, ci viene offerta la possibilità di riformulare i conflitti per la terra e lasciare che «il conflitto entri in noi». Potremo discernere insieme a lei la logica e la logistica dello sterminio, che ci ostiniamo a definire conflitto, anche e soprattutto quando lo trattiamo nel teatro del diritto costituito, con attori che non vogliono e non possono rinunciare a questa finzione e che finiscono per naturalizzare la violenza contro i poveri e i piccoli.

Ci rimane un’indignazione amorevole, che può ispirare solidarietà e alleanza con le sacre lotte, sempre più indebolite, di coloro che sono colpiti e minacciati. Sapendo che solo da loro e con loro è possibile difendere e garantire il futuro della Vita.

Difficile, ma necessaria e urgente

Questa speranza, tuttavia, non si riduce a buone intenzioni, perché richiede atteggiamenti e metodi appropriati per progettare tattiche e strategie. La lotta comporta sempre sfide di organizzazione, articolazione e mobilitazione. La lotta delle vere combattenti, dei veri combattenti, è lotta contro la paura, come disse Margarida Alves: «Abbiamo paura, ma non la usiamo».

È una lotta, difficile, ma estremamente necessaria e urgente, contro le tendenze individualistiche e autoritarie che segnano la nostra identità. È stare attenti a non assumere acriticamente i falsi valori del nemico, ma è scommettere su processi radicali di ecumenismo, sinodalità e collegialità.

La lotta è fatta anche di attenzione permanente alla realtà e quindi deve mantenere vive le capacità critiche e di studio. Sempre. Ed è pure per combattere contro i nemici interni e i traditori che spezzano i legami della fraternità e pregiudicano gravemente la lotta.

Per affrontare tutte queste sfide siamo necessariamente chiamati ad accettare la compagnia di Gesù di Nazaret, dei Santi e delle Sante, dei Martiri, degli Encantados e delle Encantadas, degli Orixás e degli Ancestrali, di Maria di Nazaret, accogliendo anche coloro che non abbracciano una fede esplicita, ma lottano come veri fratelli e sorelle.

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Un commento

  1. Tobia 12 settembre 2023

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