Diario di guerra /45. Sette mesi di guerra

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Settimo mese di guerra: un disastro umanitario che si somma alla disperazione dei parenti degli ostaggi israeliani, ancora nelle mani di Hamas dopo così tanto tempo. Ecco che la società israeliana mostra una spaccatura che non è stata sin qui contenuta neppure dall’allarme molto forte per l’annunciata   vendetta promessa dall’Iran per il bombardamento della sua sede consolare a Damasco. Le manifestazioni contro il governo in carica, la richiesta di ritorno alle urne, così come i cortei di segno contrario, insieme a gravi incidenti, ne danno la misura.

Nelle prossime ore, l’Iran potrebbe mettere in campo azioni militari tese – più che a vendicare i “martiri” – a mettere sotto silenzio i profondi malesseri interni alla società iraniana, sempre più lontana dall’«asse della resistenza» creato proprio da Teheran, che sta mettendo alla fame intere popolazioni, distraendo enormi risorse dall’impoverito Iran, e favorendo la creazione di gigantesche fortune illegali.

Siccome siamo ad una data – simbolicamente – rilevante, scelgo, nel diario, di occuparmi di Intelligenza Artificiale. Si dirà: che c’entra? C’entra e non poco – pare – perché il suo impiego ha una rilevanza che ci lascia intendere come possa evolvere il futuro delle guerre – non solo di questa – nelle oscurità che avvolgono i conflitti asimmetrici, tra eserciti regolari e gruppi armati che, volutamente, si mescolano con la popolazione civile.

La questione è affiorata in tanti articoli, molto accurati, di media israeliani e non solo. Sono stati ex agenti ed esperti (soprattutto statunitensi) a guidare la riflessione, da non sottovalutare.

Lo stesso confronto tra pacifisti e bellicisti risulta trasformato dall’avvento della I.A. Il bellicismo rischia di avallare tutto: «è la guerra!». Il pacifismo di fermarsi a guardare il dito e di trascurare la luna. Il nodo è evidente: stando a quanto si scrive, in questa guerra, tra la proposta di azione dei software e il consenso umano all’azione, trascorre un tempo medio di decisione di 20 secondi: ma questa è una decisione umana, non una richiesta dell’I.A.

A mio avviso, c’è un primo elemento da considerare, ed ha a che fare con noi, con ciascuno di noi.  Il programma di I.A. ha capacità esecutive impensabili per l’uomo. In guerra la velocità d’azione è un elemento decisivo per “vincere”, per precedere, per eliminare la potenziale minaccia avversa. La paura, l’urgenza, affievoliscono il nostro controllo, la nostra verifica della correttezza dell’azione proposta della macchina? Rischiamo, in un rapporto di efficienza impari, di lasciar fare?

Sto de-contestualizzando, perché il punto riguarda la necessità di prevenire un meccanismo che dentro di noi può facilmente prevalere sull’importanza delle procedure di verifica o di controllo, che possiamo percepire come un freno delle possibilità di successo militare: il controllo umano ci può apparire un ostacolo al perseguimento del fine, ossia l’eliminazione di quante più minacce sia possibile, nel minor tempo. È la paura di perdere tempo a guidare?

Dunque, è il rapporto tra l’umano e il dato “scientifico” a segnare una nostra condizione di dipendenza, di percepita minorità e a far parlare, allora, solo il software – l’I.A. – come altro da noi umani e dalla nostra capacità di verifica. Ciò porta, evidentemente, fuori strada. Ma di quali informazioni l’I.A. è dotata dagli umani?

Alcuni esempi – emersi dalla discussione sviluppata in questi giorni – aiutano ad entrare un po’ di più nei problemi concreti: se si consegnano all’ I.A. le chat di whatsapp dei nemici di cui si è entrati in possesso – il possibile errore non dipende dalla macchina da guerra in sé, ma dalla ampiezza del dato fornito. Anche qui, però, verificare richiede tempo.

Problematico è anche il tema della identificazione dei combattenti-nemici. Se si affida alla I.A. il compito di individuare tutti i soggetti armati in un dato territorio si ottiene un enorme vantaggio, benché non si possa ritenere, automaticamente, ogni armato un nemico: c’è sempre un margine di errore da verificare. Ancora una volta, l’urgenza, la paura di sbagliare, possono condizionare.

La questione, dunque, è che la tecnica I.A. sta rendendo assai diversa anche la guerra. Ma tutto sta ancora in capo all’umano. A me sembra che qualora l’I.A. venisse usata per coadiuvare operazioni di intelligence, sostituendo così la guerra convenzionale, il discorso potrebbe essere diverso.

Associo, infine, un altro aspetto, più psicologico. Nella guerra di Gaza sono nominati soprattutto tre programmi di I.A.: «Vangelo» (Gospel), «Dov’è papà?» e «Lavanda». Nel primo caso è chiaro il riferimento all’universalmente noto testo sacro e quindi “veritiero” dei cristiani, nel secondo il richiamo è all’idea che si colpirà   l’obiettivo quando questi sta rientrando a casa, cioè quando è più facile, quindi anche qui sicuro colpirlo. Nel terzo caso, il riferimento è strano, enigmatico: forse è alla fata Lavandula, bionda con gli occhi azzurri; di lei si sa che si trasferì in Provenza, terra che trovò inospitale, tra le lacrime; queste avrebbero macchiato le pagine, scritte ad inchiostro, del suo diario: nel tentativo di asciugarle, quelle macchie azzurre si sarebbero sparse per tutta la Provenza: ecco la lavanda. Dunque, se così è, si tratta dell’idea di poter colpire ovunque.

I nomi dicono bene: abbiamo bisogno di qualcosa di certamente più veloce e capace di noi umani. Il rapporto non è più tra il padrone e il suo strumento, bensì con qualcosa di migliore di noi stessi. Questa mi sembra la sostanza, il rischio da considerare.

  • Tutte le puntate del Diario di Riccardo Cristiano possono essere lette qui.
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