Iran: il sogno infranto di Mohammad Khatami

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Mohammad Khatami, ex presidente dell’Iran (dal 1997 al 2005)

Cominciai a viaggiare per l’Iran nell’ottobre 2001, aiutato dai padri salesiani di Teheran, sotto la guida del coraggioso arcivescovo Ignazio Bedini. Circolava un grido di allarme ai responsabili del Paese lanciato dal quotidiano in lingua inglese Iran News: se non si fa presto il Paese esplode. Tante le motivazioni: mancanza di lavoro, inflazione galoppante, prezzi dei beni di consumo alle stelle, incertezze del futuro, limitazioni della libertà personale e sociale. Forte la domanda di cambiamenti. Strade affollate di gente esasperata. L’Iran contava allora 66 milioni di abitanti. Ora ne conta più di 90.

Il 5 maggio 2001 si andò alle urne e vinse l’ala riformista di Mohammad Khatami, che fu confermato presidente della Repubblica islamica. Ottenne i due terzi dei seggi. Fu battuta l’ala religiosa conservatrice dell’ayatollah Alì Khamenei, già noto per il suo integralismo. Non perdeva occasione per ricordare al Parlamento e al Paese che la prima autorità era lui. In effetti, la Costituzione del 1979 assegna al Parlamento solo potere di proposta in campo legislativo e poteri di gestione in politica estera e amministrativa. Alla guida religiosa fanno capo in modo diretto e indiretto, mediante i suoi rappresentanti, sia il comando delle forze armate sia il potere giudiziario.

Nel 1997 Khatami aveva vinto lo scontro presidenziale con Nateq Nouri, perché si era presentato con un programma di rinnovamento, deciso ad affrontare alcuni problemi: l’intransigenza di parte del clero sciita, la situazione economica, il rilancio della politica estera. Vinse poi una seconda volta le elezioni presidenziali, nel 2001, perché ebbe l’accortezza di toccare alcuni temi molto sentiti dalla popolazione: le azioni repressive contro la stampa, le persone e i movimenti ostili al potere religioso, la chiusura di giornali e il facile ricorso alle condanne.

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Nato nel 1943, Khatami aveva studiato teologia islamica e filosofia; aveva insegnato all’Università di Teheran; era stato direttore del Centro islamico ad Amburgo, ministro della cultura, direttore della Biblioteca nazionale iraniana, membro del Consiglio superiore della rivoluzione culturale, autore di numerosi libri e articoli. Nel 1993 diede alle stampe un libro dal titolo programmatico: Paura dell’onda.

Per il Khatami dei primi anni Novanta la rivoluzione khomeinista aveva «dato un vestito nuovo al Paese» con la «nuova civiltà». Già in quegli anni, Khatami prendeva le distanze da buona parte del clero sciita. Chiedeva per il nuovo corso dell’Iran un clero, «aggiornato, consapevole e illuminato».

Negli anni successivi approfondì il suo pensiero, ricorrendo a concetti quali sviluppo, modernità, tradizione, nella scia di importanti studiosi del mondo occidentale. In una intervista concessa nell’estate 1996, Khatami esprimeva con lucidità il suo pensiero nei confronti della religione, la quale «ha stabilito norme generali per la formazione dello Stato e del sistema politico, ma quali debbano essere gli strumenti e le zioni più idonei al tempo e al luogo dipende dal discernimento dei singoli uomini, e la forma dello Stato ideale per la religione verrà instaurata nel momento il cui il popolo vorrà quella forma di Stato».

Un pensiero fisso: «Per costruire la nostra vita dobbiamo guardare sia al Corano sia alla nostra società, così che possiamo ottenere sia la libertà dai vincoli e dalle catene interiori sia la libertà dalle concezioni esterne».

Uomo di cultura, Khatami si batteva perché il clero non solo andasse oltre la conoscenza del Corano, ma coltivasse anche altre discipline. La sua battaglia di mettere l’islam in «stato di accoglienza», come mi faceva notare una nota personalità del mondo islamico del tempo, gli creò molti nemici tra gli integralisti, ma gli valse le simpatie del mondo studentesco, di intellettuali politici e persino di mullah.

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Lo notai nelle successive visite al Paese. Nel contempo si faceva sempre più insistente e guadagnava terreno l’allarme lanciato dai circoli americani conservatori: l’Iran va tenuto sotto controllo per il programma nucleare, che si stava sviluppando e per il suo atteggiamento di «benevolenza nei confronti del terrorismo». In Iran si parlava apertamente del progetto americano di «cambiare il regime».

Nei circoli conservatori si vedeva messa in discussione la stessa Costituzione di Khomeini del 1979, secondo la quale lo Stato è subordinato alla guida del clero sciita con al vertice della nazione la guida religiosa. Si parlava con insistenza e trepidazione di un progetto preciso del Pentagono americano: suscitare una insurrezione organizzata, partendo dall’interno.

Si parlava anche di Israele, che aveva minacciato un bombardamento preventivo su Bushehr e sugli impianti atomici di Arak e Natanz e la centrale di Esfahan. A Teheran era diffusa la voce che il presunto piano di intervento militare americano sarebbe partito dall’Iraq, utilizzando le basi militari in Georgia e Azerbaigian. Una ridda di voci incontrollate, che accendevano il clima con accuse reciproche tra USA e Iran.

Sempre più contestata la guida religiosa e sempre più in panne il processo riformista di Khatami, da molti ritenuto agli sgoccioli, se non addirittura morto. In Parlamento si gridava da parte dei riformisti: «Non possiamo chiedere elezioni libere in Iraq, mentre priviamo il nostro popolo dei suoi diritti». Si descriveva Khatami stanco e demoralizzato perché non era riuscito a mantenere le promesse di rinnovamento fatte agli elettori nel 1997.

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L’Iran andò di nuovo alle urne nel novembre 2005. Il laico radicale Ahmadinejad sconfisse il moderato conservatore Rafsanjani. Battuti i riformisti, persa la maggioranza in Parlamento, Khatami si rese conto che negli anni della presidenza non aveva preparato un successore che ne continuasse l’opera e ne incarnasse lo spirito.

Ahmadinejad fece sentire la sua voce minacciosa contro Israele: «da cancellare dalle carte geografiche». Rispolverò il mito della «Grande Persia» e anche la bomba atomica serviva per alimentarlo. Era diffusa la convinzione che dotarsi della bomba atomica non era per distruggere Israele, ma per non sentirsi inferiori nei confronti degli altri Paesi. Il presidente era divenuto una mina vagante. Il messianismo, tipico della setta a cui apparteneva, dell’arrivo del Madhi, il dodicesimo iman sciita, che avrebbe ristabilito la vera Repubblica islamica, aveva spinto un gruppo di parlamentari a chiedere l’impeachment del presidente per sostituirlo con un capo militare del corpo dei pasdaran.

Si aveva la sensazione che la rivoluzione khomeinista andasse verso l’esaurimento della sua carica ideale: sempre le stesse figure sulla scena, persone con intrallazzi familiari e lotte interne, giochi nascosti e alleanze incrociate, corruzione e commerci, scambi di voto e favori, occupazione di posti di prestigio e sgambetti senza scrupoli.

Nelle elezioni per la presidenza del 12 giugno 2009, Khatami propose la sua candidatura, salutata con favore in USA e Occidente. Le elezioni furono accolte e vissute con entusiasmo, con manifestazioni festose. L’esito fu però disastroso per i riformisti. Ahmadinejad stravinse. Quella che doveva essere una sorta di referendum a favore del cambiamento finì per causare un irrigidimento del regime sulle sue posizioni più radicali.

La grande speranza divenne una profonda delusione. Il Paese si trovò diviso in due blocchi: il blocco conservatore, maggioritario, convinto assertore della validità perenne della Repubblica islamica e strenuo difensore della sopravvivenza del regime; e il blocco riformista, supportato dall’«onda verde» delle manifestazioni che furono segnate da vittime e arresti. Il candidato riformista Mir Hossein Moussavi ripeteva allora alla popolazione infuriata: «Possono metterci a tacere per ora, ma la nostra voce riemergerà nel giro di due o tre anni. Questione di tempo».

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