L’Iran ora punterebbe sul tentativo di cessate il fuoco a Gaza? Questa indicazione ufficiosa avvalorata da alcune autorevoli fonti militari iraniane: «Rinunceremmo alla vendetta dell’assassinio del capo di Hamas a Tehran solo se finalmente Israele firmasse il cessate il fuoco a Gaza». Tale apertura, negata da altri, sembra avvalorata dalla parziale retromarcia di Hamas, anche questa smentita da altre fonti di Hamas stessa, che dopo aver detto che non sarebbe andata ai negoziati del 15 agosto ora affermerebbe che ci sarà se Israele sospendesse le aggressioni a Gaza.
Così si capisce come mai proprio oggi, 14 agosto, il mediatore americano Amos Hochstein torni a Beirut dopo una sosta in Israele mentre il Segretario di stato, Blinken, rinvia il suo viaggio per l’incertezza nella regione.
C’è comunque un problematico lavoro diplomatico su più fronti che, per la tempistica, sembra escludere almeno attacchi imminenti: difficile che Hezbollah attacchi Israele proprio nelle ore in cui in città ci sarà l’inviato di Biden.
La stampa legata ad Hezbollah lo ha accolto con toni violenti, definendolo un «colonnello israeliano». Ma è pur sempre il mediatore con cui sono stati definiti i confini marittimi con Israele e quindi i colloqui ci saranno. Sul tavolo ci sarà la definizione dei confini terrestri tra i due paesi, come chiede Hezbollah, e il ritiro dei miliziani di Hezbollah a 40 chilometri dal confine, come chiede una risoluzione dell’ONU (1701) di cui Israele reclama il rispetto.
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Dunque si socchiude una finestra negoziale? Difficile a dirsi. Bisogna scrutare, per dirlo, anche le agitatissime acque israeliane. Il ministro di estrema destra Ben-Gvir ha pensato bene di tornare per la terza volta sulla Spianata delle moschee, ribadendo che il suo obiettivo è che ogni ebreo lo possa fare. Questo gesto è come un dito nell’occhio dei negoziati, vista l’importanza per tutto l’Islam della moschea di al Aqsa, un pagliaio a due passi dall’incendio che divampa da mesi in Medio Oriente.
Le smentite di Netanyahu ci sono state, ma visto che ci sono immagini di accompagnatori del ministro intenti a pregare (proibito dalle regole vigenti) ha dovuto ammettere che c’è stata una violazione del vigente status quo sui luoghi santi − e quindi ribadire che questa non è la scelta dello Stato d’Israele.
Questa volta, però, c’è stata la condanna congiunta dell’azione di Ben-Gvir da parte di Qatar e Arabia Saudita: in un momento così non farlo sarebbe stato come lasciare la moschea all’Iran. È intervenuto anche il Dipartimento di Stato americano per biasimare il ministro israeliano (come gli USA si sono pronunciati molti altri, a partire dall’Europa, la Giordania, l’Egitto, la Francia, le Nazioni Unite).
La forza della provocazione in un momento del genere è evidente: lo dimostra il fatto che anche il ministro degli affari religiosi si è dissociato, e alcuni parlamentari osservanti hanno dichiarato che ora dovranno chiedere ai loro rabbini se possono restare partner di governo di Ben-Gvir.
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Più si avvicina un possibile cessate il fuoco più emergono le diversità interne al governo israeliano, mettendone in dubbio la tenuta, come conferma la crescente polemica tra il primo ministro e il ministro della difesa Yoav Gallant.
Nelle stesse ore poi un missile di Hamas è stato sparato da Gaza, dopo tanto tempo, contro Tel Aviv − finendo in mare −, dimostrando diverse cose: l’organizzazione militare di Hamas non è stata smantellata, il nemico c’è ancora, tanto che di tutte le forze del famoso asse della resistenza pro Iran chi fa fuoco contro le città israeliane non è l’Iran, gli Houti, Hezbollah, bensì Hamas.
E forse la provocazione di Ben-Gvir c’entra qualcosa con la tempistica dell’azione. Cosa farà l’esercito israeliano a Gaza nelle prossime ore? Immaginabile una «contenutezza» come chiede Hamas? Sembra molto improbabile, soprattutto se si considera la natura e il carattere delle azioni israeliane negli ultimi giorni e la pesante azione miliziana di Hamas.
se il negoziatore americano riuscisse ad ottenere un cessate il fuoco, anche minimale, sarebbe l’indicazione che ha un po’ di influenza sul governo israeliano.