
Preparare l’opinione alla prospettiva di una guerra. Con piccoli passi, Emmanuel Macron vi lavora da mesi. Già a marzo avvertiva, sulla stampa quotidiana regionale, che «la Russia costituisce una minaccia esistenziale per gli europei». Giovedì 27 novembre, da Varces-Allières-et-Risset (Isère), dopo aver annunciato l’istituzione di un servizio nazionale volontario di dieci mesi, esclusivamente militare, a partire dall’estate 2026, ha concluso: «La nostra nazione non ha il diritto né alla paura, né al panico, né all’impreparazione, né alla divisione.» «La paura, del resto, non evita mai il pericolo. L’unico modo per evitarlo è prepararsi», ha aggiunto.
Se le parole sono diverse, il discorso del capo dello Stato si riallaccia a quello pronunciato davanti ai sindaci dal capo di stato maggiore delle forze armate, Fabien Mandon. Il 18 novembre, Mandon ha suscitato polemiche affermando che la Francia deve «accettare di perdere i propri figli», una frase choc dietro la quale delineava i contorni di una battaglia che si gioca anche sul terreno dell’opinione pubblica, della coesione nazionale e delle «discussioni familiari». «Bisogna accettare che viviamo in un mondo a rischio e che potremmo dover usare la forza per proteggere ciò che siamo. È qualcosa che era completamente uscito dalle nostre conversazioni familiari», ha dichiarato il generale, invitando a «dare dimostrazione» della determinazione della Francia a difendersi.
«Preparatevi»
Preparare gli spiriti alla guerra significa quasi già farla, in un’epoca di conflitti ibridi e a intensità variabile che si combattono anche sui social network. In materia di preparazione, il 20 novembre il Segretariato generale della difesa e della sicurezza nazionale ha pubblicato un opuscolo intitolato «Tutti responsabili», volto a organizzare la «resilienza» dei civili di fronte alle crisi, siano esse climatiche, sanitarie o geopolitiche. «Preparatevi: voi e i vostri cari potreste trovarvi di fronte a una situazione in cui il funzionamento della società sarà perturbato», si legge, prima di una serie di consigli su un «kit d’emergenza» da predisporre, con scorte alimentari, acqua, medicinali…
La deputata ecologista Delphine Batho si rammarica che questo opuscolo non sia stato però inviato a tutti. «Il Governo si muove in una sorta di ambiguità: tra la volontà di dire la verità sulla situazione e una certa paura di allarmare», afferma, ritenendo che il sistema presidenzialista, che fa del capo dello Stato anche il capo delle forze armate, unito alla fine della leva nel 2001, «abbia rimosso nell’intero Paese le questioni relative alla difesa».
A più di due decenni dalla fine del servizio militare obbligatorio, e benché l’esercito goda di una buona reputazione (dal 2014 il sondaggio Fractures françaises registra ogni anno un tasso di fiducia attorno all’80% per questa istituzione), riallacciare il rapporto con la difesa non è affatto scontato. Lo specialista di relazioni internazionali Bertrand Badie osserva come tutto sia più difficile dal momento che «non sappiamo come rappresentare questa nuova minaccia», la quale non si riduce più a un conflitto tra due eserciti sul terreno, ma si estende alle reti informatiche, elettriche, di trasporto. «La cosa più angosciante è che, sebbene la gente comprenda che questa minaccia esiste, non ci viene detto nulla su come affrontarla».
I più nazionalisti sono i più refrattari
Ogni guerra che la Francia ha dovuto subire è stata preceduta da periodi di preparazione dell’opinione pubblica. Le fortificazioni della linea Maginot furono immaginate già negli anni Venti e, durante la guerra fredda, il «pericolo sovietico» era ben presente negli spiriti, all’interno di un racconto «campista» ampiamente compreso. Di fronte a una pedagogia attuale che egli giudica troppo vaga, coesistono secondo Badie tre possibili reazioni: «La via dell’indifferenza, l’idea che una guerra sia impossibile o una reazione minoritaria che sconfina quasi nel panico». O ancora «il ritorno del Chemin des Dames» (teatro di alcune sanguinose battaglie nel 1916-1918 − ndr).
Parlando di sacrificare «i propri figli», pur riferendosi a militari di professione, il generale Mandon può aver riattivato questo immaginario pacifista della Prima guerra mondiale, come si evince dalla reazione del segretario nazionale del Partito comunista francese, Fabien Roussel. «Quando si sono vissute due guerre mondiali, quando ogni comune di Francia ha un monumento ai caduti, si deve agire con responsabilità. I francesi non sono pronti a perdere i loro figli, non è la nostra guerra», ha dichiarato il 24 novembre a BFM-TV.
Parlare di guerra è ansiogeno e sono pochi i responsabili politici che si avventurano su questo terreno. Tra loro, i più nazionalisti sono oggi i più refrattari al conflitto con la Russia e si presentano come i più rassicuranti, come testimoniano le dichiarazioni, a marzo, della presidente del gruppo dei deputati del Rassemblement national all’Assemblea nazionale, Marine Le Pen, secondo la quale Emmanuel Macron «esagera sulla minaccia russa».
«Nessuna guerra è mai inevitabile e non serve a nulla spaventare i francesi», affermava da parte sua il leader della France insoumise, Jean-Luc Mélenchon, il 20 novembre. «I partiti impegnati nella crociata contro Putin lo fanno più per empatia verso gli oppressi che in nome dell’amore sacro della patria. Al contrario, il patriottismo porta al ripiegamento su sé stessi e sulle proprie frontiere, come testimonia il fenomeno trumpista», spiega Badie.
Un dibattito politico cruciale
Piuttosto che il patriottismo, è ormai l’appartenenza europea che può giustificare l’impegno oltre i confini francesi. Per la storica Annie Crépin, autrice di una Histoire de la conscription (Gallimard, 2009), «il ripristino del servizio volontario è una mezza misura per non urtare l’opinione pubblica ma, al contempo, farle accettare l’idea che l’Ucraina siamo noi, che indirettamente quella è la nostra nuova frontiera».
Nel 1939, alcuni rifiutavano di «morire per Danzica», secondo la formula del collaborazionista Marcel Déat. Oggi, poiché la coscrizione non risponde più alle esigenze degli eserciti moderni, anche l’idea di fare sacrifici per Kiev suscita resistenze che solo un passaggio dal «patriottismo nazionale al patriottismo europeo» può superare, sostiene la storica.
Per preparare l’opinione, il dibattito politico è cruciale.
Già il 5 marzo Emmanuel Macron aveva avvertito che «la nostra generazione non beneficerà più dei dividendi della pace», espressione nata negli anni Novanta quando la riduzione delle spese militari sembrava inevitabile. Con la fine di questi dividendi, si pone necessariamente la questione dei compromessi di bilancio per la difesa.
Nel corso del 2024, lo sforzo finanziario per le forze armate è stato messo in contrapposizione alle spese sociali, in particolare nel momento del «conclave» sulle pensioni. Cosa che ha alimentato gli slogan antimilitaristi e anticapitalisti giocati sull’opposizione tra «le nostre vite», «i [nostri] figli» e «i loro profitti e le loro guerre». Su questo punto, come su altri aspetti della preparazione ai conflitti, il dibattito democratico è tutto da costruire.
- Pubblicato sul sito di Le Monde, 28 novembre 2025 (qui l’originale francese)





