I Paesi dell’Unione Europea hanno assunto posizioni diversificate sulla vicenda del mandato di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità emesso lo scorso 26 novembre dalla Corte penale internazionale (CPI) dell’Aja nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu (insieme con lui il mandato di arresto ha colpito l’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e il comandante delle brigate al-Qassam Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, noto come Deif – ndr).
Il dilemma dell’imputato «amico»
L’Europa, culla dei diritti umani e della separazione tra i poteri, figlia del ripudio del fascismo e del nazismo che avevano soffocato le sue società e trascinate in una guerra devastante e distruttiva, si è trovata per la prima volta a fare i conti con uno scenario nuovo. Le istituzioni giuridiche internazionali hanno avuto in passato a che fare con personalità e Stati dell’emisfero Sud – principalmente africani (Gheddafi jr, Al-Bashir, Kenyatta, soltanto per citarne alcuni) – oppure dell’Europa orientale (Karadzic e Putin).
Ora l’imputato per crimini di guerra e contro l’umanità è il capo di governo amico dei Paesi europei e della NATO. E la maggior parte dei membri dell’UE lo ha foraggiato di armi per poter compiere i crimini indicati nell’ordinanza di arresto.
La Presidente Ursula Von der Leyen ha sorvolato a lungo e sino al 26 novembre ha evitato il tema. In seguito a un’interrogazione al Parlamento, avanzata da circa 40 parlamentari dei gruppi The Left, Socialist&Democratici e Renew, la Presidente ha affrontato il tema ma in maniera molto cauta e si è limitata a dire che l’UE è in linea con la legalità internazionale, sottolineando poi che non è ammissibile «un paragone tra Israele e Hamas». Parole usate nelle veline del Governo di Tel Aviv subito dopo l’annuncio delle ordinanze di arresto emesse all’Aja.
Il rappresentante della politica estera Josep Borrell, invece, aveva assunto da subito una posizione decisa, raccomandando il rispetto delle decisioni della Corte penale internazionale. Borrell, che ha concluso il suo incarico il 30 novembre, aveva raccomandato ai «Ventisette» di rispettare e attuare la decisione del Tribunale, esplicitando come «tutti gli stati membri sono vincolati» a farlo.
Ricordiamo che la ratifica allo Statuto di Roma, firmato nel 1998 per istituire il Tribunale dell’Aja, è requisito fondamentale per l’adesione all’Unione Europea. Infatti, un Paese candidato come l’Ucraina è corso a ratificarlo lo scorso agosto.
Europa in ordine sparso
Nelle Capitali, tuttavia, si è andati in ordine sparso. Ad aprire le danze è stato Orban che ha invitato Netanyahu in Ungheria. Nella sua intervista settimanale alla radio di Stato, il premier ungherese ha definito la decisione del Tribunale internazionale «oltraggiosa» e «sfacciata». Una decisione politica «travestita da decisione legale».
In Italia, si è registrata una diversità di prese di posizioni tra i ministri. Crosetto si è espresso per l’esecuzione dell’arresto in caso di visita di Netanyahu in Italia. Il ministro della Difesa ha affermato in televisione: «Pur ritenendo la decisione “sbagliata”, aderendo alla Corte penale internazionale, se Netanyahu e Gallant venissero in Italia dovremmo arrestarli»
Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, ha invece affermato che «se Netanyahu venisse in Italia sarebbe il benvenuto. I criminali di guerra sono altri». Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani ha abilmente evitato di prendere una posizione netta: «Vedremo quali sono i contenuti della decisione e le motivazioni che hanno spinto a questa decisione», precisando da un lato che «noi sosteniamo la Corte» e dall’altro che la CPI «deve svolgere un ruolo giuridico e non un ruolo politico».
Infine, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha dichiarato che il governo di Roma non ha ancora preso una posizione in merito, sottolineando però che «non è possibile mettere sullo stesso livello Israele e Hamas».
Francia e Germania all’inizio hanno cercato di prendere tempo rimanendo ferme nell’ambiguità. Parigi, in seguito al ricatto di Netanyahu di respingere la sua partecipazione alle trattative per il cessate-il-fuoco in Libano, ha dichiarato per bocca dello stesso presidente Macron che «Netanyahu in quanto primo ministro gode di immunità». Tesi che è stata smontata dalla Presidente dell’Assemblea dei Paesi membri della CPI.
Per Berlino il tema non è meno arduo. «Il problema si porrà solo in vista di una visita in Germania di Netanyahu e Gallant», recita un comunicato stampa del governo federale. Da un lato, si «prende atto» del mandato di arresto e si riconosce l’importanza della CPI; dall’altro, si evocano le «relazioni uniche» e la «grande responsabilità» nei confronti di Israele. Il portavoce del cancelliere Scholz, Steffen Hebestreit, durante una conferenza stampa si è avventurato oltre il linguaggio criptico della diplomazia quando, rispondendo alle domande dei giornalisti, ha definito «non plausibile» l’applicazione del mandato d’arresto. «Mi sembra difficile immaginare che gli arresti possano essere eseguiti in Germania su queste basi», ha concluso.
Al G7 non si è trovato un accordo
Durante il G7, dopo due giorni di sforzi diplomatici del vicepremier e ministro degli esteri italiano, Tajani, non è stato possibile trovare una posizione comune. Il comunicato finale ha glissato sulla vicenda, risolvendo il tutto con un giro di frasi senza citare né la Corte, né Netanyahu.
Va sottolineato però che tra i 27 c’è anche chi ha già ribadito il proprio impegno a rispettare le decisioni della CPI, come richiesto ai Paesi firmatari dello Statuto di Roma. Spagna, Irlanda, Slovenia, i Paesi Bassi e il Belgio hanno ribadito che applicheranno le decisioni della Corte dell’Aja. Anche Gran Bretagna e Norvegia si sono allineate su una posizione di rispetto della legalità internazionale.






