Opus Dei, una testimonianza

di:

giovane

Il mio rapporto con Fabio iniziò come iniziano molte storie romantiche: incontro più o meno casuale, parole scambiate, simpatia, primo appuntamento. Ero attratta da molti aspetti: era una persona molto buona, generosa, intelligente, impegnata. In più (cosa che pensavo mi avrebbe evitato molti problemi di intesa) era cattolico come me, questo l’avevo subito capito. E, come credo che spesso accada nelle storie romantiche, le prime settimane erano piene dell’entusiasmo di raccontarsi tante cose: i propri anni di vita precedenti, i propri studi, le proprie amicizie, i propri familiari, le piccole storie di tutti i giorni.

Tutto era per me molto bello, incluso il fatto che Fabio aveva un’agenda molto piena (bene, pensavo, non si attaccherà troppo a me!) e anche il tono un po’ evasivo con cui a volte si congedava: «Scusa, ma alle cinque devo andare a fare una cosa». Un po’ di mistero nei rapporti umani non guasta! Tra le cose che capivo poco di Fabio ma che mi piacevano c’era il fatto che frequentava spesso un certo centro che io non conoscevo; non capivo che motivo avesse, ma poi intuii che per lui era importante, evidentemente lì aveva tanti amici e io ne ero contenta.

Un giorno (era un po’ che stavamo insieme, non ricordo quanto) mi portò un bel dépliant di questo centro; lo guardai con curiosità, venivano presentate parecchie attività interessanti, c’erano tante foto piene di persone sorridenti. «Bello», dissi, «non lo conoscevo per niente!». Poi aggiunsi: «Ma c’entra qualcosa l’Opus Dei?». Fabio rimase immobile un secondo, poi mi disse: «Perché me lo chiedi?». Io: «Be’, perché in fondo a questa pagina c’è scritto: l’assistenza spirituale è affidata ai sacerdoti della Prelatura della Santa Croce. Non lo sai che “Prelatura della Santa Croce” è il nome ufficiale dell’Opus Dei?». Mentre parlavo pensavo: in effetti pochi lo sanno, io lo avevo imparato per caso poco tempo prima, per fortuna c’era stata l’occasione per farlo imparare anche a lui. Fabio stette in silenzio un altro secondo, poi rispose: «Sì, l’assistenza spirituale è affidata all’Opera». «Cioè?», replicai, le uniche «opere» che conoscevo erano quelle di Giuseppe Verdi. «Sì, l’Opera, l’Opus Dei». Cambiò discorso, e quel giorno la cosa finì lì.

Man mano che il tempo passava cominciai a capire qualche cosa di più. La sua frequentazione di quel centro era una cosa diversa dall’incontrare amici: anche lui godeva dell’«assistenza spirituale dell’Opera». I suoi appuntamenti un po’ misteriosi («devo incontrare una persona», «devo andare in un posto», «ho una cosa da fare») erano tutti legati all’«Opera». I luoghi che frequentava (tolte pochissime eccezioni di necessità) erano tutti legati all’«Opera». I posti di lavoro delle persone che lo circondavano erano tutti nell’orbita dell’«Opera». Fu solo dopo un certo tempo (forse non molto se calcolato sul calendario, ma enorme se misurato sul desiderio di conoscere il proprio ragazzo!) che finalmente seppi da Fabio la verità: era un soprannumerario dell’Opus Dei. Anzi, «dell’Opera».

Ne sapevo poco, ma per me fu un colpo. Io non provenivo da nessuna rivoluzionaria Comunità di Base, astrattamente ero pronta a fare grandi lodi delle «differenze»; ma tutte le differenze sono conciliabili?

***

Con il senno di poi, la prima cosa che pesò su di me fu scoprire una alla volta tutte le cose che ho accennato: dapprima un po’ nascoste, un po’ dissimulate, poi finalmente fatte capire o dette chiaramente. Nella vita di ogni persona ci sono normalmente tante cose diverse, tanti incontri, tante idee, tanti luoghi. Nel caso di Fabio, ogni volta che di lui conoscevo una cosa nuova, dopo un po’ scoprivo sempre (sempre, sempre!) che era qualcosa legato all’Opus Dei, e non riuscivo a capire il perché: possibile che nella sua vita non avesse mai incontrato nulla di buono fuori dall’«Opera»? Allo stesso modo non capivo perché tutte le iniziative dell’Opus Dei fossero mascherate in qualche modo, questa atmosfera di mistero francamente mi dava molto fastidio.

Ancora di più mi inquietavano gli ingredienti della vita «da soprannumerario» di Fabio: singolarmente potevano pure farmi sorridere, ma tutti insieme mi parevano opprimenti. Era come se tutta l’esistenza fosse accuratamente riempita di pratiche e consuetudini con un unico scopo: non fargli dimenticare neppure un attimo che era un membro dell’Opus Dei. Da questo punto di vista, con un po’ di distacco devo riconoscere che c’era qualcosa di geniale. Per esempio il «minuto eroico»: per chi non conoscesse il gergo dell’Opus Dei, è la piccola penitenza che un membro dell’Opus Dei deve fare quando suona la sveglia, alzandosi immediatamente anziché poltrire anche solo un minuto tra le coperte. Oppure la penitenza delle scale: salire a piedi pure quando c’è l’ascensore.

Oppure non accavallare le gambe quando si è seduti: non per aristocratica eleganza, ma solo per stare un po’ più scomodi. Oppure l’orologio nel polso sbagliato: in maniera che ogni volta che vuoi vedere l’ora, ti accorgi che l’orologio sta da un’altra parte e ti ricordi di dire una preghierina. Fabio me le diceva con noncuranza come se fossero cose ovvie nella vita cristiana (forse sperando che lo imitassi, chissà).

Io (prevedibilmente) facevo una faccia strana. Il problema non è che queste cose mi paressero «vecchie»: semplicemente vi vedevo globalmente qualcosa di malsano. E però, appunto, geniale: veramente in questo modo il membro dell’Opus Dei non dimentica neppure un attimo chi è. Così come immagino che il mascheramento di cui sopra («umiltà collettiva», nel gergo dell’Opus Dei) funziona benissimo per cementare un’identità: dev’essere a suo modo gratificante sentirsi parte di un mondo parallelo invisibile ai più, in cui si può star sicuri che qualsiasi persona «di casa» (nel loro lessico interno significa: membro dell’Opus Dei) ha i tuoi stessi identici riferimenti.

***

Credo che già la prima volta che mi disse che era un soprannumerario dell’Opus Dei Fabio usò la parola «vocazione». Se non in quell’occasione, sicuramente la usò in seguito, e io ingenuamente non capivo: in che senso «vocazione»? Fu un poco alla volta che compresi che questo era un tassello decisivo della narrazione teologica dell’Opus Dei. Riassumendo: l’Opus Dei non è stata fondata per iniziativa umana, ma con un’ispirazione divina trasmessa a Josemaría Escrivá nel 1928. Ovviamente poi c’è stata un’evoluzione giuridica, perché si doveva trovare la forma adatta per questa ispirazione divina.

Che sia stata divinamente fondata ne è segno il nome: «Opus Dei», cioè «opera di Dio». E infatti, diversamente dagli statuti delle altre aggregazioni, quelli dell’Opus Dei sono «santi, inviolabili, perpetui».

Dell’Opus Dei non fanno parte coloro che lo scelgono, ma coloro che Dio sceglie che ne facciano parte. Uscire dall’Opus Dei è dunque disobbedire ad una vocazione divina. Amen. (Queste cose le trovai poi ben esposte in un libro proveniente dall’Opus Dei: Pedro Rodríguez, Fernando Ocáriz, José Luis Illanes Maestre, L’Opus Dei nella Chiesa: ecclesiologia, vocazione, secolarità, dove lessi anche altre tesi curiose, per esempio quella secondo cui il sacramento del battesimo è solo una «potenzialità» che viene «attualizzata» entrando nell’Opus Dei).

Non avevo nessuna voglia di contestare a Fabio le sue convinzioni di coscienza (mai lo feci), ma mi rendevo conto che ogni discorso con lui si bloccava appena si sfiorava la certezza indiscutibile: che Escrivá era stato destinatario dell’ispirazione divina dell’«Opera» e che lui era chiamato da Dio a farne parte. Non si poteva transigere su questo e su tutte le sue conseguenze. Imparai presto il termine tecnico: fare qualcosa «contrario allo spirito dell’Opera» (cioè diverso da ciò che voleva Escrivá) è per un membro dell’Opus Dei inconcepibile (era inconcepibile prima della canonizzazione: immagino dopo!)

Questa assoluta indiscutibilità a volte assumeva ai miei occhi un aspetto che, se non fosse tragico, sarebbe da giudicare comico. Una volta, innervosita dalle surreali dichiarazioni secondo cui «l’Opus Dei ha come unico modello la primitiva comunità cristiana», dissi a Fabio: «Be’, riconosci almeno che un gruppo che ammette tra i suoi membri “numerari” soltanto chi ha una laurea non assomiglia alla primitiva comunità cristiana!». Mi guardò sorpreso e mi disse: «Ma che dici? Non è vero!». Insistetti: «Come non è vero? È scritto all’inizio degli Statuti!».

Dopo un po’ capii che era sincero: nessuno gli aveva mai detto che queste fossero le regole dell’Opus Dei, e nessuno gli aveva chiesto, neppure prima di entrare definitivamente nell’Opus Dei, di leggerli. Gli dissi: «Be’, allora leggili adesso…». Mi caddero le braccia quando risolutamente disse di no, non li avrebbe letti. Lui si fidava di quello che gli era stato detto, leggerli – mi spiegò – sarebbe stata una mancanza di fiducia.

***

Vi furono però anche episodi concreti che cominciarono a farmi soffrire molto. Dato che l’Opus Dei si presentava come una cosa fondamentalmente di «laici», e che uno degli elementi sottolineati in tutte le autopresentazioni dell’Opus Dei è la libertà di cui godono i membri, immaginavo (ingenuità adolescenziale!) che dunque i membri fossero liberi. Fu con dolore che scoprii quanto fosse invadente la presenza della «direzione».

Un giorno per caso mi imbattei in un libro che mi parve molto bello. Non era propriamente un libro per fidanzati, né propriamente un libro di teologia, ma ciononostante conteneva tante pagine che potevano aiutare a confrontarsi, a capirsi. Mi feci coraggio e proposi a Fabio di leggerlo assieme. Mi rispose di sì con entusiasmo: per me fu un sollievo! Significava vedere che, quali che siano le distanze, parlare e confrontarsi era sempre possibile.

Cominciammo, e fu davvero bello. Leggevamo qualcosa, poi ci fermavamo per dire che ce ne sembrava, e mi accorgevo che in questo modo ci conoscevamo meglio, raccontavamo qualche cosa in più di noi stessi, anche quelle cose che spesso rimangono non dette. Ero soprattutto contenta di vedere che finalmente parlava in maniera più libera anche di ciò che la fede significava per lui: sentivo finalmente parlare lui. Ogni volta che ci vedevamo, leggere una pagina e discuterne era diventato un’abitudine.

Un giorno come gli altri gli dissi: «Leggiamo un’altra pagina?». «Scusa», mi disse, «oggi sono un po’ stanco». Mi piacque la sincerità! Ma pure la volta dopo disse di no, per un altro motivo. E pure la volta dopo, e pure la successiva. Le scuse diventavano sempre più imbarazzate e inverosimili. Giunto alla quarta o quinta volta misi via il libro, e capii: il suo direttore gli aveva proibito di andare avanti. Tralascio i dettagli di alcuni episodi simili ancora più dolorosi di questo. Vi fu un’occasione in cui gli chiesi di ascoltare qualcosa (brevissimo!) che per me era umanamente importante: si rifiutò. Quando io, ciononostante, con la forza della disperazione, cominciai a leggere, lui cominciò a parlare sopra e mi interruppe. Un giorno affrontai il tema in maniera più diretta: Fabio fece cadere ogni remora e mi disse duramente che certo, era così, lui non leggeva mai nulla se non aveva prima ricevuto l’autorizzazione del suo direttore, era giusto così. Ero io che sbagliavo. Era il resto del mondo che sbagliava.

Con l’entusiasmo e l’incoscienza tipici dell’età e dell’innamoramento, a volte mi dicevo: per amor suo sono pure disposta a stare insieme a lui alle cose dell’Opus Dei! Il problema è che pure questo era impossibile. Le attività dell’Opus Dei sono sempre divise tra maschi e femmine, non esiste nulla di comune. (Non si dica che quello dell’Opus Dei è «tradizionalismo»: neppure il pellegrinaggio di Chartres è diviso tra uomini e donne!). Sono molto tollerante: in ogni cosa ci sono pro e contro, fino a un secolo fa quasi tutta la società funzionava in questo modo, anch’io frequentai una scuola elementare di suore per sole bambine. Ma dubito che questo abbia senso oggi: in un mondo in cui tutto si fa in comune, a che serve separarsi solo e sempre in ciò che riguarda anche vagamente la propria fede?

Una volta riuscii, non senza difficoltà, a convincerlo a partecipare a una giornata nella mia parrocchia. Venne, ma raramente ho visto una persona così a disagio. Lodi alla mattina: nervosissimo. Gli chiesi: «C’è qualcosa che non va?». «Queste sono preghiere da monaci, noi siamo laici!», mi rispose. Rimasi allibita, ma dentro di me feci la traduzione: «Pregare le lodi è contrario allo spirito dell’Opera». Quando qualcuno parlava, non credo di sbagliarmi se dico che facesse di tutto per non ascoltare ciò che diceva: se è proibito leggere cose non approvate dal direttore, figuriamoci quanto lo è ascoltare qualcuno che non è dell’«Opera» parlare di cose di fede.

Alla fine, con sollievo per lui e per me (per motivi diversi), la giornata finì, coi vespri. Congedandosi mi disse distrattamente con un sospiro: «Devo fare ancora tante cose, oggi non ho neppure pregato…». Rimasi ammutolita, ma lui non aggiunse nulla.

***

Col passare del tempo mi pareva sempre più di soffrire di claustrofobia. Possibile che la prima preoccupazione della propria vita debba essere il proprio piccolo comportamento, la propria fedeltà al gruppo di cui si fa parte? Con tutti i problemi del mondo, davvero la «santa purezza» (questo è il lessico dell’Opus Dei) deve essere in cima ai propri sforzi? (Per capirci: dare un bacio alla propria fidanzata, imparai, è contro la santa purezza).

Fui per questo molto contenta quando mi disse che presto avrebbe partecipato a un breve soggiorno di volontariato in Africa. Un soggiorno di volontariato per membri dell’Opus Dei? No, assolutamente, ci sono anche persone che non sono «dell’Opera»! Io in quanto ragazza (inutile dirlo) non potevo andarci, ma ero contenta di vedere qualcosa che spalancasse un po’ i confini del suo mondo. Man mano che la data si avvicinava, vedevo che i preparativi fervevano – ma capivo sempre di meno che preparativi fossero. Io immaginavo che se si va a fare del volontariato ci si prepari al tipo di volontariato che si deve svolgere. E invece Fabio mi parlava di cose per me incomprensibili: devo scrivere un testo, devo preparare una «tertulia» (nel lessico dell’Opus Dei: incontro comune finto spontaneo).  Che c’entrava tutto questo col volontariato?

Quando un po’ alla volta misi assieme le tessere e cose accennate distrattamente, il quadro di fronte al quale mi trovai fu questo: certamente era un’iniziativa a cui partecipavano anche ragazzi che non erano «dell’Opera» … ma lo scopo dell’iniziativa era creare l’atmosfera emotiva giusta per convincere questi ad entrare nell’Opus Dei. Il volontariato era semplicemente un ingrediente del cocktail. Per questo la preparazione non consisteva nell’imparare ad aiutar meglio le persone in Africa, ma nel preparare i discorsi giusti per «convertire» all’Opus Dei i partecipanti. Non so se organizzare una cosa simile fosse propriamente disonesto. Però quando capii restai con l’amaro in bocca.

Un fatto ancor più penoso fu quando Fabio mi disse che avrebbe partecipato ad un corso organizzato dal famoso centro che frequentava. Vidi il programma: era una cosa molto interessante su temi di economia, erano invitate a parlare persone note, e tra loro (cosa che mi colpì positivamente) c’erano anche non credenti. Erano previsti esami, il che rendeva la cosa ancor più seria. Come al solito (c’è bisogno di ripeterlo?) io non potevo andare perché ero una ragazza, ma in fondo ero piena di impegni e un corso in più sarebbe stato di troppo nella mia agenda. Certo: quel corso in più per Fabio significava ancor meno tempo per poter stare insieme noi due, ma mi consolavo pensando che fosse un buon segno che partecipasse ad una cosa che, seppur tenuta in un luogo dell’Opus Dei, non era il solito indottrinamento spirituale (così ormai lo ritenevo).

Il corso cominciò, ogni volta gli chiedevo com’era andata e mi facevo raccontare qualcosa. Si avvicinò il momento degli esami, chiesi a Fabio come andava la preparazione. Distrattamente mi rispose che no, lui non doveva farli. «Perché, scusa?». Forse si pentì di quella risposta, perché fu costretto ad ammettere che in realtà lui non era veramente iscritto a quel corso. «E perché ci vai?». Mi rispose con imbarazzo: gli era stato chiesto di andare, di mescolarsi tra gli iscritti, di fingere di essere iscritto, ma in realtà la sua funzione era abbordare i frequentanti (non «dell’Opera»), per fare «amicizia» con loro, coinvolgerli nelle attività «dell’Opera»… e trovare tra loro nuovi membri. Penso che si accorse del mio sguardo disgustato, ma non mi disse nient’altro. Qualche tempo dopo, per puro caso, incontrai un frequentante vero di quel corso: capii che era convinto che Fabio fosse un vero iscritto e un «amico» (che però si era dimenticato velocemente di lui). Non aveva sospettato nulla di quella messinscena e io preferii non dirgli niente. Forse avrei rischiato di fargli perdere la fede.

Questi e simili fatti un po’ alla volta mi fecero mettere a fuoco una cosa molto triste: Fabio non aveva e non poteva avere amici (men che meno amiche). Il suo direttore era solo un superiore (del quale non pronunciò mai il nome, peraltro): con poteri reali, sia chiaro, di gran lunga maggiori rispetto al superiore di un ordine religioso (quando mai un frate domenicano chiede al suo superiore il permesso di leggere un libro?). Gli altri membri «dell’Opera» erano colleghi in un’impresa, ma capii che con loro non c’era nessuna confidenza. Le persone esterne erano o «possibili futuri membri dell’Opera», oppure non esistevano.

Questa solitudine di Fabio, che di per sé era una persona allegra e solare, mi faceva pena e rabbia, capivo che a volte guardava me come un’ancora di salvezza, come l’unica cosa libera della sua vita. Ma contemporaneamente per lui ero anche la grande tentazione – e non solo per la «santa purezza», ma per qualcosa ancora più importante: l’isolamento ermetico da qualsiasi cosa che non fosse marchiata «Opus Dei».

Ognuno è libero di vivere come crede, per carità; ma che cosa ciò avesse a che fare con Gesù Cristo era per me incomprensibile. E poi c’era una domanda che respingevo, e alla quale solo più tardi avrei pensato: e se anch’io fossi per Fabio un «possibile futuro membro dell’Opera»? In fondo essere chiamati all’«Opera» è la più grande meravigliosa cosa che può accadere a un essere umano, quindi perché non augurarselo per la propria fidanzata?

***

Le esperienze che mi lasciavano perplessa e amareggiata continuavano, mi sentivo disorientata. Delle voci che circolavano sull’Opus Dei mi interessava poco: che l’Opus Dei avesse collaborato con il caudillo Franco non mi importava niente (Fabio non collaborava con nessuna dittatura), neppure mi importava che l’Opus Dei fosse paragonato a una mafia (nel comportamento di Fabio non c’era niente di mafioso). Volevo solo capire lui!

Un giorno, con la forza della disperazione, andai nella biblioteca della mia città e cercai nel catalogo per soggetti (era ancora l’epoca degli schedari) alla lettera O: forse c’era qualcosa sull’Opus Dei? Ovviamente sapevo che dovevo escludere a priori qualsiasi cosa pubblicata dalle edizioni Ares, ma qualcos’altro poteva aiutarmi? Trovai un titolo che mi incuriosì: Klaus Steigleder, L’Opus Dei vista dall’interno. Il nome dell’autore mi ispirava fiducia (i tedeschi sono seri!): chiesi il libro al bancone e cominciai a leggerlo. La lettura fu per me emotivamente molto, molto pesante. Ma non perché vi trovassi cose nuove che mi sorprendessero: al contrario non c’era nulla di nuovo, forse solo qualche tassello mancante per dare senso a cose enigmatiche che avevo visto. Trovai invece solo perfettamente descritto, benché fosse un libro scritto in un’altra nazione e parecchi anni prima, il comportamento di Fabio quando era in modalità «soprannumerario dell’Opera».

Quelle che vedevo in lui non erano dunque esagerazioni, o problemi caratteriali suoi o di qualcun altro: no, era la regola immutabile. Erano esattamente i comportamenti e gli atteggiamenti che i membri dell’Opus Dei interiorizzavano come parte della loro vocazione divina. (Un esempio? Il finto corso di economia mi aveva scandalizzato… ma così, imparai, funzionava esattamente l’«Univ», la grande iniziativa annuale di reclutamento mascherata da «incontro di universitari a Roma», con ospiti attraenti, e in quanto iniziativa di reclutamento accuratamente divisa – va ripetuto? – tra maschi e femmine). Ma la cosa che mi ferì di più fu leggere addirittura le parole di Fabio. Capii che quando gli chiedevo qualcosa sull’«Opera» mi ripeteva a memoria quello che gli era stato ordinato di rispondere. Forse per lui stesso era un incubo doverlo fare. Ma come era possibile andare avanti così?

Tralascio altri episodi, tra cui uno particolarmente triste che preferisco però non raccontare. Alla fine crollai. Ricordo ancora il giorno in cui finalmente mi convinsi che una futura vita comune in quelle condizioni sarebbe stata per me e per lui un inferno. Gli posi l’ovvia alternativa, ma in cuor mio spaventata dall’ipotesi che scegliesse me: avrei avuto accanto una persona che avrebbe visto scomparire in un attimo tutto ciò che aveva avuto fino a quel momento, forse anche perseguitata dai sensi di colpa. Comunque, come prevedevo, scelse l’Opus Dei: come è possibile preferire una fidanzata a Dio? Non lo vidi mai più né seppi nulla di lui.

***

Dopo che mi lasciai con Fabio, non ho avuto più occasione di avere a che fare con l’«Opera».

Una sola parziale eccezione accadde anni dopo. Una mia amica mi raccontò che all’Università aveva fatto nuove conoscenze e si trovava molto bene. Un paio di ragazze in particolare si mostravano molto amichevoli, disponibili, ma anche insistenti ad invitarla a cose religiose che lei non capiva bene che cosa fossero. Dopo qualche dettaglio in più, ci misi poco a capire che cosa fosse questa strana improvvisa «amicizia» con questi strani inviti. Ebbi un’illuminazione e le consigliai solo: «La prossima volta che le vedi, chiacchierando di’ che qualche anno fa sei stata per un po’ postulante in un convento». Riuscii a convincerla a raccontare questa piccola bugia.

La volta successiva che la incontrai, era esterrefatta: gliel’aveva detto, sì, erano rimaste un po’ sorprese… ed erano scomparse nel nulla. La grande amicizia improvvisamente dissolta! Che cosa era successo? Semplice: gli statuti dell’Opus Dei (art. 20) proibiscono l’ingresso a chiunque abbia avuto una qualche esperienza in un ordine religioso o un seminario. Quindi dicendo quella piccola bugia la mia amica era uscita fuori dalla categoria delle «possibili prede», e doveva essere abbandonata. L’amicizia era solo una finzione. Triste, vero?

Le testimonianze negative hanno qualcosa in comune: che sono rese da qualcuno che ha sofferto, e che quindi probabilmente altera con la sua sofferenza qualcosa che altri possono invece vivere come una bella esperienza. Non escludo che anch’io sia caduta in questa deformazione. Purtroppo però non sono riuscita mai a cambiare idea. In questi anni ho incontrato diverse persone che ho capito, o ho saputo, che appartenevano all’Opus Dei; in generale non potrei che parlarne bene, esattamente come a tanti anni di distanza continuo a dir bene di Fabio. Sicuramente dentro vengono dette e fatte anche cose buone (sennò, perché persone buone sarebbero attratte?). Ma non ho mai visto o letto nulla che mi abbia fatto pensare che i metodi dell’Opus Dei siano cambiati.

Pure in questi anni recenti in cui si parla di grandi riforme istituzionali dell’Opus Dei, ho visto più di una volta messaggi che assicuravano i membri che nulla di importante mai cambierà. Ovvio, mi son detta: cambiare significherebbe riconoscere che non c’è stata all’origine nessuna ispirazione divina, e questo farebbe franare tutto. Sono tante le testimonianze pubbliche che parlano (per lo più in termini molto peggiori di quelli che ho usato io) dei metodi e dell’atmosfera che si respira «nell’Opera»: ne ho letta qualcuna qua e là, ho letto pure qualche testo interno trafugato; poi mi sono stancata, per quanto tutto si assomiglia e mi ricorda cose tristi.

Mi pare difficile sostenere che sia un’allucinazione collettiva o un complotto (a che scopo, poi?). Perlomeno, non è un’allucinazione leggere statuti che si autodefiniscono «santi, inviolabili, perpetui». Non è un’allucinazione leggere dappertutto (nei testi dell’Opus Dei anzitutto, e altrove per pigrizia e imitazione) che l’Opus Dei è stata fondata nel 1928: il che significa avvalorare come ovvia la tesi dell’origine divina (pure la storia ufficiale dell’Opus Dei ammette che prima del 1933 non è esistito nulla di visibile su questa terra). Non è un’allucinazione leggere nel catechismo segreto dell’Opus Dei che i membri devono chiamare «nonni» i genitori di Escrivá. Non è un’allucinazione leggere nel medesimo testo che al direttore bisogna dir tutto perché egli «rappresenta Dio nostro Signore» e che bisogna fare «tutto ciò che comanda e solo ciò che comanda». O, per fare un esempio forse oggi più interessante, non è un’allucinazione leggere statuti che stabiliscono che esiste per le donne (solo per noi, che onore!) una vocazione divina (quella delle «numerarie ausiliarie») a svolgere per tutta la vita gratuitamente «lavori manuali e compiti domestici nei Centri dell’Opera», ovviamente con grande spirito soprannaturale.

Va tutto bene? È tutto perfettamente compatibile con il Vangelo? Nessun teologo e teologa ha niente da eccepire?

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6 Commenti

  1. Danilo 23 dicembre 2025
  2. Fabrizio Mastrofini 23 dicembre 2025
  3. Marina Umbra 23 dicembre 2025
    • Anima errante 23 dicembre 2025
  4. andrea 23 dicembre 2025
  5. Fabio Cittadini 23 dicembre 2025

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