Perché la guerra? Il carteggio tra Einstein e Freud

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einstein e freud

Caputh è una piccola cittadina della regione dei laghi nel Brandeburgo, a una manciata di chilometri da Potsdam, in posizione idilliaca sulle rive del Templiner-See e dello Schwielowsee. Per alcuni anni, tra il 1929 e il 1932, Albert Einstein e la moglie Elsa trascorsero a Caputh i mesi dalla primavera al tardo autunno, in una bella villetta in pino dell’Oregon, oggi di proprietà dell’Università ebraica di Gerusalemme e sede dell’Einstein Forum[1]. In questa tranquilla località, Einstein poteva trovare rifugio dalle ore frenetiche della vita berlinese, dedicandosi allo studio e alla riflessione.

Lo scienziato si era trasferito dalla Svizzera a Berlino nel 1914 quando, chiamato a far parte dell’Accademia Reale Prussiana delle Scienze, gli era stata assegnata la cattedra universitaria di Fisica teorica e la direzione dell’Istituto Kaiser Wilhelm per la Fisica. L’assegnazione del premio Nobel per la Fisica, nel 1921, contribuì notevolmente ad accrescerne la popolarità; da tutto il mondo gli giungevano inviti per partecipare ad incontri e tenere conferenze, non solo in ambito propriamente scientifico.

Nel 1932 l’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale[2] prese contatti con Einstein per proporgli di invitare a uno scambio di opinioni, in merito a una questione a sua scelta, uno scienziato o uno studioso di suo gradimento. Einstein accolse l’invito e, il 30 luglio 1932, inviò da Caputh una lettera a Sigmund Freud, che gli rispose da Vienna a settembre. La lettera di Einstein e la lunga risposta di Freud furono pubblicate per la prima volta nel 1933 in un opuscolo intitolato Perché la guerra?[3]

Nel frattempo, in quegli stessi mesi, Einstein accettò un incarico da parte del neonato Institute for Advanced Study di Princeton e alla fine dell’anno partì per gli Stati Uniti insieme alla moglie. Con la presa di potere da parte di Hitler, quello che doveva essere un soggiorno temporaneo si trasformò in un vero e proprio esilio: Albert Einstein non fece più ritorno in Germania e a Princeton morì il 18 aprile 1955.

La lettera di Albert Einstein

Caputh (Potsdam), 30 luglio 1932

Caro signor Freud,

la proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo Istituto internazionale di cooperazione intellettuale di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?

Inizia con queste parole la lettera inviata da Albert Einstein a Sigmund Freud nel 1932. Erano gli anni in cui, dopo gli orrori della Prima Guerra Mondiale e il tentativo di riformulare una possibilità di pacifica convivenza fra gli Stati, il mondo tornava a fare i conti con l’inesorabile risalita di ondate belliciste; alla luce degli enormi progressi in ambito scientifico – scriveva Einstein –, rispondere a questa domanda (C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?) era diventata una questione di vita o di morte per l’intera civiltà.

In Einstein, che pur aveva maturato precise prese di posizione in senso pacifista, era forte la consapevolezza che la scienza da sé non aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano; da qui, l’appello a Freud e alla sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per portare ad evidenza quegli ostacoli psicologici che rendono difficoltoso, quando non impossibile, liberarsi dalla fatalità della guerra.

Da parte sua, Einstein individuava una via semplice per attuare questo proposito: Gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Una volta stabilita questa autorità superiore, ogni Stato dovrebbe rispettarne i decreti, invocarne la decisione qualora sorgessero delle dispute, accettarne i giudizi e attuarne tutti i provvedimenti senza riserve.

In vista della sicurezza internazionale è necessario che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire della sua sovranità; ma questa strada – scrive Einstein – è difficile da percorrere, come dimostra il fallimento di tutti i tentativi messi in atto dopo la nascita della Società delle Nazioni.

Secondo Einstein l’insuccesso si lega a forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi: fra questi, vi è in primis la sete di potere della classe dominante, che è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi economici, in particolare coloro che vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.

Si pone qui per Einstein una seconda domanda: com’è possibile che questa minoranza, assetata di potere politico e bramosa di ricchezze, riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere?

Il ragionamento segue una concatenazione stringente: la minoranza che detiene il potere politico ed economico è in grado di piegare ai propri scopi la scuola, la stampa e perfino le organizzazioni religiose, e ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.

Ci si può chiedere, allora, come sia possibile che la massa si lasci infiammare fino al furore e all’olocausto di sé. Einstein trova come unica risposta il fatto che l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. Questa passione distruttiva, che in tempi normali rimane latente, in circostanze eccezionali emerge fino a tradursi in psicosi collettiva. È a questo livello, dunque, che chi ben conosce gli istinti umani potrebbe aiutare a districare il nocciolo complesso e intricato della volontà di male che agisce nell’umanità.

La lettera si chiude su un’ultima, lucidissima, domanda: Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione?

Pur nella consapevolezza che l’istinto aggressivo entra in azione non solo nei conflitti tra gli Stati, ma anche in tante altre forme e circostanze, Einstein ritiene che focalizzare l’indagine sulla guerra, la forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo, possa aiutare a trovare le modalità attraverso cui rendere impossibili tutti i conflitti.

Il grande scienziato chiude, quindi, la sua lettera invitando Freud ad esporre il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.

La risposta di Freud

Vienna, settembre 1932

Caro signor Einstein,

Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra.

Freud si dice sorpreso dalla domanda di Einstein perché, a uno sguardo superficiale, essa sembra fare riferimento esclusivamente all’ambito concreto della vita politica. In realtà, il vero scopo della domanda non è sollecitare risposte pratiche, ma far capire come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo.

La riflessione svolta da Einstein nel suo scritto – sottolinea Freud – è pervenuta a conclusioni condivisibili; pertanto, egli si limiterà a confermare e a svolgere le affermazioni dello scienziato entrando nel merito dei meccanismi che agiscono e muovono la psiche umana.

La relazione diritto-violenza

L’articolata disamina freudiana prende le mosse dalla relazione tra diritto e forza o, meglio, tra diritto e violenza. Diritto e violenza sono visti come termini opposti sviluppatisi l’uno dall’altro. Fin dai primordi della storia umana i conflitti – di interesse, ma anche di opinione – vengono risolti mediante la violenza. È la forza muscolare che, in una prima fase, stabilisce il primato. Poi, alla forza muscolare bruta, accresciuta o sostituita da strumenti (armi), subentra la superiorità intellettuale. Le forme cambiano, lo scopo resta lo stesso: impedire all’altro di proseguire nelle proprie rivendicazioni e opposizioni.

Secondo Freud, la strada che ha portato dalla violenza al diritto è passata dalla consapevolezza che lo strapotere di uno solo può essere bilanciato dall’unione di più deboli – concetto ben sintetizzato dal motto «l’unione fa la forza»: alla violenza del singolo si contrappone il diritto, cioè la potenza di coloro che si sono uniti.

Il diritto è la potenza di una comunità, scrive Freud. Ma perché questo passaggio dalla violenza al diritto si possa compiere, l’unione dei più deve essere stabile e durevole, la comunità deve essere mantenuta in modo permanente, deve dare forma alle prescrizioni e alle leggi, deve organizzare organi che sorveglino l’osservanza delle prescrizioni e, qualora facciano ricorso alla violenza, agiscano in modo conforme alle leggi.

Nel momento in cui viene riconosciuta questa comunione di interessi, s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo, e il trionfo del diritto sulla violenza si ottiene mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri.

Dinamiche sociali

Da un punto di vista teorico, grazie al sodalizio che si viene così a creare la libertà di usare la violenza da parte del singolo è limitata in modo da rendere possibile una vita collettiva sicura; nella pratica tutto è, però, molto più complicato, a causa delle condizioni di ineguaglianza all’interno della società (uomini e donne, genitori e figli, vincitori e vinti, padroni e schiavi). Perciò, il diritto della comunità diviene espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa e le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati.

Nella comunità agiscono, di conseguenza, due forze: il tentativo del singolo di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, così da ritornare al regno della violenza; il tentativo dei molti di procurarsi maggiore potere, così da passare dal diritto ineguale al diritto uguale per tutti.

Da una parte un movimento regressivo, dal regno del diritto al regno della violenza; dall’altra, un movimento in avanti, che tende a riconfigurare nuovi bilanciamenti nei rapporti di potere. Questo movimento in avanti può essere perseguito attraverso le vie della violenza, che agiscono dall’esterno, sospendendo temporaneamente il diritto in vista della creazione di un nuovo ordinamento giuridico, oppure attraverso modi pacifici che lavorano sui processi di trasformazione interiore dei membri di una comunità.

Guerre di conquista e pace eterna

La storia ci insegna che, dopo le guerre, viene sempre la pace: perciò si potrebbe pensare che le guerre possano essere uno strumento adatto alla costruzione della tanto agognata pace eterna. La pace eterna, però, non può essere raggiunta per il tramite della guerra, perché le guerre di conquista non determinano successi durevoli: le unità create dalle guerre di conquista si disintegrano con facilità, in quanto le parti assemblate con la forza sono scarsamente coese fra loro e l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.

Anche per Freud si impone, perciò, la stessa conclusione di Einstein: Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi.

La forza delle idee

Questa autorità centrale (quale potrebbe essere la Società delle Nazioni) non solo deve essere costituita, ma deve anche vedersi attribuito il potere di agire sulla vita dei singoli Stati. Anche se ciò al momento non è ancora accaduto, afferma Freud, perché alla Società delle Nazioni non è stata conferita alcuna forza propria, in ogni caso il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati principi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza è un tentativo coraggioso, mai prima intrapreso in tale misura nella storia dell’umanità.

Dal momento che una comunità può essere tenuta insieme non solo dalla coercizione violenta, ma anche dai legami emotivi, Freud ricorda quanta forza unificatrice possano avere le idee, richiamando la funzione svolta, nella storia greca, dall’ideale panellenico. Nel nostro tempo, però, sottolinea Freud, non esiste un sentimento unificante in grado di superare gli ideali nazionali, i quali si presentano come vettori che spingono in tutt’altra direzione, e il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sembra votato all’insuccesso.

La teoria delle pulsioni

Freud passa poi ad esporre la sua teoria delle pulsioni. Vi sono due specie di pulsioni: le pulsioni di vita, che tendono a conservare e unire (pulsioni erotiche in senso lato e pulsioni sessuali); e le pulsioni di morte e di odio, che tendono a distruggere e uccidere (pulsioni aggressive o distruttive). In questa polarità, che risponde agli stessi concetti di attrazione e repulsione che troviamo in fisica, le due pulsioni sono entrambe indispensabili, in quanto agiscono di concerto e non sono isolabili l’una dall’altra. La pulsione di autoconservazione, ad esempio, è una pulsione erotica che, per agire, ha anche bisogno di aggressività.

Anche quando si parla della guerra, ribadisce Freud, non è mai possibile isolare un unico motivo che spinga gli uomini ad agire, ma è sempre un concorso di motivi diversi ad intervenire – motivi talvolta taciuti, talvolta manifesti, motivi nobili e motivi volgari –, e sempre gli impulsi distruttivi si mescolano ad impulsi erotici ed ideali.

La pulsione distruttiva

Freud dedica le pagine conclusive della sua lunga lettera alla riflessione sulla pulsione distruttiva, che opera in ogni essere vivente e ha l’aspirazione di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva quando si rivolge all’esterno, verso gli oggetti: l’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea.

Ma una parte della pulsione di morte rimane attiva all’interno dell’essere vivente e, secondo Freud, tutta una serie di fenomeni, sia normali che patologici, possono essere spiegati proprio a partire da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva.

Per Freud le tendenze aggressive degli esseri umani non possono essere soppresse. Il vero punto, comunque, non è tanto azzerare completamente l’aggressività, quanto deviarla in modo tale che non venga a trovare espressione nella guerra: dal momento che la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, per contrastarla è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione, ossia l’Eros.

Legami emotivi e dittatura della ragione

Per sottrarre gli uomini alla fatalità della guerra è necessario fare leva sui legami emotivi. I legami emotivi si rinsaldano principalmente attraverso due vie: la prima è quella che dà vita a relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore – e qui la psicoanalisi, sottolinea Freud, si trova in evidente consonanza con il precetto religioso «Ama il prossimo tuo come te stesso», un precetto semplice da enunciare, ma molto difficile da attuare; l’altra via è quella che procede per identificazione, che provoca, cioè, tra gli uomini solidarietà significative.

Ma vi è anche una terza possibilità che Freud mette a fuoco a partire da quella che, a motivo dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini, considera una naturale distinzione tra chi nella società esercita un ruolo di guida e chi invece ha ruoli gregari. Secondo Freud si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora, all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia.

Attraverso il processo educativo si potrebbe formare una comunità umana in cui la vita pulsionale si troverebbe assoggettata alla dittatura della ragione. Questo permetterebbe un’unione fra gli uomini perfetta e tenace, anche in assenza di legami emotivi.

Indignarsi davanti alla guerra

La guerra, benché possa apparire conforme alla natura umana e perfino giustificabile biologicamente e inevitabile sotto il profilo pratico, suscita la nostra indignazione. Ma perché ci indigniamo tanto davanti alla guerra, si chiede Freud, perché non prendiamo la guerra come una delle numerose e naturali calamità della vita? La risposta è:

perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti.

Non si può non indignarsi contro la guerra, anzi, piuttosto, sostiene Freud, c’è da meravigliarsi che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità.

Guerra e civiltà

Il processo di incivilimento del genere umano, cui si deve il meglio di ciò che siamo divenuti, può essere paragonato all’addomesticamento degli animali: comporta modificazioni fisiche e psichiche che consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali. Le nostre esigenze ideali sono mutate nel corso di questo processo di incivilimento: si è rafforzato l’intelletto, che comincia a dominare la via pulsionale, e si è interiorizzata l’aggressività.

Poiché la guerra rappresenta un’evidente contraddizione rispetto all’atteggiamento psichico che ci viene imposto dal processo di civilizzazione, ribellarsi alla guerra è una necessità. Più che di un rifiuto intellettuale e affettivo, scrive Freud a chiare lettere, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, perché semplicemente non la sopportiamo più.

Fino a quando?

La lettera volge alla conclusione e Freud rivolge ad Einstein e a tutti i suoi interlocutori una domanda più che mai urgente e attuale: quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti?

La risposta, evidentemente, non c’è. Rimane, però, la speranza, da non ritenersi utopistica, che l’azione sinergica di due fattori – un maggior grado di civiltà e un timore certamente giustificato delle conseguenze di una guerra futura – ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Attraverso quali vie questi fattori possano operare, non è dato saperlo. Nel frattempo, però, possiamo restare saldi nella consapevolezza che tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.


[1] L’Einstein Forum è una fondazione pubblica che, attraverso l’organizzazione di conferenze, workshop, tavole rotonde e lezioni, cerca di superare i confini del mondo accademico per promuovere percorsi di democratizzazione del processo intellettuale (https://www.einsteinforum.de/).

[2] Dopo la Prima Guerra mondiale, nel 1920 era stata fondata a Ginevra la Società delle Nazioni, con il proposito di evitare futuri conflitti e mantenere la pace nel mondo. In seno alla Società delle Nazioni era nato l’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale, il cui scopo consisteva nell’organizzare e tutelare le manifestazioni del lavoro intellettuale nell’ambito dei rapporti internazionali.

[3] Sigmund Freud – Albert Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, rist. 2025

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2 Commenti

  1. Laura 7 agosto 2025
    • Angela 7 agosto 2025

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