Un parroco di campagna e l’appello del cardinale

di:

gerard mueller

Ho letto e riletto l’appello del card. Müller, già prefetto della Congregazione della dottrina della fede, pubblicato sabato 9 febbraio, dopo titoli altisonanti di alcune testate giornalistiche, quali il «manifesto della fede», lanciato dall’agenzia Livesitenews e tradotto in sette lingue. I commenti dei cronisti tendono a immaginare l’avversità a papa Bergoglio di gruppi conservatori nordamericani, anche se il papa non è mai nominato.

Per la verità il testo mi ha procurato tristezza e tenerezza. L’impianto dell’appello è una sintesi (un piccolo Bignami cattolico) del Catechismo della Chiesa cattolica. Il cardinale parte dalla frase che gli consente di fondare sul Catechismo, «norma sicura per l’insegnamento della fede», il suo appello in cinque punti: Dio, uno e trino, rivelato in Gesù Cristo, la Chiesa, l’ordine sacramentale, la legge morale, la vita eterna.

La tristezza deriva dall’impianto dell’appello. Parte dalla concezione dottrinaria di una Chiesa sostanzialmente composta da Vescovi i quali sono chiamati a salvaguardare il popolo di Dio «dalle deviazioni e dai cedimenti».

È la concezione del Codice di diritto canonico del 1917 che, a proposito dei fedeli cristiani, li chiamava, per oltre 60 volte, «sudditi», titolo che è rimasto (anche se per solo tre volte) anche nel nuovo Codice del 1983.

La fede è ridotta all’adesione alla dottrina; i testi biblici sono citati a scopo dimostrativo, lontani dal significato profondo del loro contesto, come dichiarava già il defunto vescovo E. Corecco, a proposito della revisione del vecchio Codice.

Nell’appello dunque ci sono due premesse non condivisibili: la prima, considerare la Chiesa come solamente gerarchica; la seconda (di metodo), adottare lo schema deduttivo per cui qualcuno afferma la verità (la gerarchia), altri ubbidiscono (il popolo di Dio).

Tale schema richiama antichi teologi e canonisti che concepivano la Chiesa come una societas perfecta, dotata di tutti gli strumenti per essere non solo autonoma dallo Stato, ma addirittura superiore ad esso, copiandone l’impostazione.

Sembra che il Concilio, per il cardinale, non abbia detto nulla a proposito della Chiesa: essa invece è stata definita sacramento di salvezza, popolo di Dio, comunione, comunità strutturata gerarchicamente. Non a caso il documento conciliare Lumen gentium, pure citato dall’appello, antepone il popolo di Dio (capitolo secondo) alla costituzione gerarchica della Chiesa e, in particolare, all’episcopato (capitolo terzo).

È il non recepire questa concezione (iniziata per la verità con Pio XII che definì la Chiesa corpo mistico) che porta qualcuno a erigersi a fustigatore della verità.

Nessuno nega le verità che accompagnano da sempre la Chiesa: è cambiato il modo di proporle e di viverle. Addirittura il cardinale, a proposito di Gesù, afferma: «È con chiara determinazione che occorre affrontare la ricomparsa di antiche eresie che in Gesù Cristo vedevano solo una brava persona, un fratello, un amico, un profeta e un esempio di vita morale». Ciò che il cardinale chiama eresie dimostra scetticismo e pressappochismo.

La civiltà occidentale ha già superato la secolarizzazione e sta camminando verso l’ateismo. Paolo VI aveva esortato alla nuova evangelizzazione, per i popoli che non conoscono il cristianesimo e «per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri» (Evangelii nuntiandi, n. 52).

L’appello fa anche tenerezza. Il cardinale (e chi a lui si è rivolto) pensa che con un richiamo alle verità rivelate le persone aderiranno nuovamente a Cristo. È l’atteggiamento di alcuni confratelli che di fronte ai ragazzi che scappano dalla Chiesa dopo la cresima (se l’hanno ricevuta), a giovani che convivono, ad adulti che non accedono più al sacramento della penitenza, a famiglie nelle quali il cristianesimo è ridotto a riferimento opzionale, ad artisti che ignorano il sacro, a scienziati che escludono il soprannaturale, irrigidiscono regole, precetti, se non proprio ricatti nelle poche occasioni di contatto, pensando di recuperare fede e devozione.

La crisi non è nelle verità nascoste, ma nella perdita di fede. È a questo proposito che l’appello sarebbe stato utile, facendo chiarezza su che cosa è avvenuto alle popolazioni dei battezzati dell’Occidente.

Noi, parroci di città e di campagna, sappiamo bene che cosa significa ritrovarsi sempre più soli ed essere ridotti ad agenzie del sacro, potendo far poco o nulla per la fede che si allontana. Siamo pazienti e misericordiosi, non tradendo le verità, ma incoraggiando ad una fede piena.

Preghiamo lo Spirito [ha meravigliato che l’appello del cardinale mai si sia rivolto all’aiuto dello Spirito], perché illumini i cuori, ma soprattutto dia forza a noi tutti di essere testimoni di fede.

Nel documento si parla molto di vescovi: non una parola sugli scandali che hanno coinvolto troppi di essi con molti presbiteri. Quali maestri se alcuni non sono stati capaci di osservare le leggi della natura e del cristianesimo?

Erigersi a tutori di verità rischia superbia ed egoismo. Superbia perché si ha la pretesa di essere altro rispetto a eventuali trasgressori. Senza offesa, l’appello richiama la vicenda di Anna e Caifa nei confronti di Gesù. Erano anch’essi portatori di verità, ma non hanno ascoltato, perché troppo sicuri di sé.

È un atto di egoismo perché convince se stessi di aver fatto il proprio dovere. Un dovere a basso costo: condanna di terzi, con autoassoluzione.

La salvezza è nelle mani di Dio: noi siamo strumenti di testimonianza. Tutti, senza distinzione, tra scribi e figli del popolo.

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Un commento

  1. Angela 11 febbraio 2019

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