Pinto: Bibbia e sociologia in dialogo

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Laureato in Sociologia, docente ordinario di Esegesi e direttore del Dipartimento di Scienze bibliche presso la Facoltà teologica Pugliese (BA), Sebastiano Pinto intende esporre il dialogo fruttuoso che può instaurarsi fa le scienze umane, e in particolare la sociologia, e l’esegesi dei testi bilici.

Se il metodo storico-critico studia il substrato profondo dei testi, l’approccio sociologico riguarda l’humus, lo strato più superficiale di sostanze organiche, dentro le quali cresce la radice di qualsiasi pianta. La ricchezza dell’humus in cui si radica la Scrittura e attraverso il quale cresce è rappresentata da cultura, economia, religione e istituzioni che esprimono questa realtà. Con competenza sociologica, solide basi esegetiche, prudenza ermeneutica, evitando di unilateralizzare l’indagine, procedendo per tentativi e usando la moderazione è possibile raccogliere dei frutti dell’interazione fra sociologia ed esegesi.

Metodi e approcci

Nel primo capitolo del volume (pp. 19-42), l’autore passa in rassegna i vari metodi impiegati negli studi biblici così come sono presentati nel documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993). Di ogni metodo e approccio lo studioso espone i principi e quindi anche i limiti.

Via via vengono esaminati il metodo storico-critico – che resta il metodo principe per gli studi esegetici –, e i nuovi metodi di analisi letteraria: il metodo retorico, quello narrativo e quello semiotico.

Vengono quindi illustrati gli approcci. Più che metodi, sono punti di vista (approcci, appunto). Gli approcci basati sulla tradizione sono quello canonico, quello mediante il giudaismo e, infine, quello basato sulla storia degli effetti. Gli approcci attraverso le scienze umane sono quello attraverso l’antropologia culturale e quelli psicologici e psicanalitici. Gli approcci contestuali sono quello liberazionista e quello femminista. Si accenna, infine, alla lettura fondamentalista della Bibbia.

Pinto vuole proporre un esempio di approccio sociologico ad alcuni testi biblici.

Corpo, moralità, legge e neurosociologia

Nel secondo capitolo del libro (pp. 43-64), si offre dapprima un esame di alcuni testi del Pentateuco a partire da un’analisi che si ispira alla neurosociologia, alla ricerca del legame che esiste tra il corpo fisico, le leggi sociali e le norme morali.

Studiando il rapporto corpo-mente e l’evoluzione morale relazionata al corpo biologico e a quello sociale, si nota una connessione, ad esempio, tra corpo sporco, rito di purificazione (sociale e religiosa) e giudizio morale. Si analizzano le norme che regolano i casi dell’impurità mestruale della donna e quello del lebbroso. La mediazione delle norme è a carico dell’apparato sacerdotale.

Circa il senso della giustizia, si studia l’evoluzione morale che porta in quattro tappe dalla legge del taglione, alla riparazione monetaria, a quella simbolica e, infine, a quella simbolico-religiosa quando si avverte che il comportamento umano ha leso non solo l’ordine sociale ma direttamente l’onore divino. Questa espiazione fa appello alla sensibilità dell’offeso e invoca il perdono.

L’autore fa notare che il sistema espiatorio abbia due assunti di fondo: il primo è che esiste un rapporto diretto tra la giustizia umana e quella divina, mentre il secondo rimanda alla giustizia divina pensata in modo molto simile a quella vigente tra gli uomini.

Il rapporto fra le Scritture e le neuroscienze appare a Pinto come legittimo. «Questa relazione coglie i processi di percezione del divino muovendo dalla reazione umana (codificata dal Libro) che si lascia interrogare cognitivamente dall’esperienza di fede» (p. 63). Dalla Bibbia non si può estrapolare la mappa delle reazioni neuronali, ma si possono «registrare i comportamenti che rivelano induttivamente i processi mentali di formazione del senso morale, comportamenti che la sociologia può decodificare e interpretare» (p. 63). Il tratto specifico che le neuroscienze permettono di ricavare dal confronto con il testo biblico è l’evoluzione del senso morale.

Saul e Davide fra status e potere

Nel terzo capitolo dell’opera (pp. 65-82), avvalendosi dell’antropologia culturale, l’autore pone a confronto lo status e il potere di Saul rispetto a quello di Davide, così come appare in 1Sam. Mentre la psicologia considera il soggetto che agisce dal punto di vista delle sue intenzioni e della sua capacità di definire il sistema dell’azione in cui si muove, la sociologia sposta la prospettiva dall’individuo ai soggetti che interagiscono tra di loro e con il sistema in cui operano. «L’antropologia culturale, invece, si concentra sugli schemi e sui codici che i soggetti utilizzano per definire la situazione e per orientare la loro azione all’interno del sistema» (p. 67).

Analizzando i rapporti tra Saul e Davide, Pinto coniuga la sociologia e l’antropologia. Saul è presentato come reietto da Dio e scartato dalle donne, un re nevrastenico rispetto al re empatico come è Davide.

C’è un conflitto di status e di potere tra Saul e Davide. Lo status rimanda alla posizione sociale alla quale sono annessi i diritti e i doveri che possono derivare dalla nascita o da acquisizione personale. Il potere è, invece, la capacità del soggetto di conseguire in modo intenzionale determinati scopi imponendo la propria volontà; ha potere colui che può far eseguire, con o senza la forza, gli ordini impartiti.

Pinto ricorda che ci sono emozioni strutturali, emozioni anticipatorie ed emozioni conclusive. La gestione della rabbia comporta conseguenze importanti. Saul e Davide gestiscono differentemente la rabbia che scaturisce dagli avvenimenti. Mentre Saul vede diminuire e poi svanire il potere e lo status, Davide li vede aumentare entrambi.

Il quadro delle relazioni poste in essere possono essere individuate e caratterizzate con tre categorie sociologiche: la significazione, la legittimazione e la dominazione.

La significazione esprime il ruolo di orientamento della rabbia sui comportamenti e sulle scelte degli attori. Saul scarica su Davide la sua sconfitta e il suo sentirsi rifiutato da Dio. È la “trappola dell’attribuzione”. Davide non ricambia l’atteggiamento di Saul, e si sottrae alla trappola chiedendo spiegazione della rabbia di Saul. La gestione sbagliata della rabbia fa sì che il gruppo di amici di Davide si compatti attorno a lui.

La legittimazione fa vedere il contrasto tra lo sfogo sregolato e istintivo della rabbia di Saul e la paziente e rispettosa reazione di Davide. Egli ha rispetto per il ruolo di Saul, restituisce ordine al caos relazionale e religioso provocato da Saul, rimette al giudizio di Dio la contesa in corso: Davide compie gesti nuovi e inediti che spiazzano e sorprendono. Risparmia la vita la re-suocero. «Dal punto di vista del rapporto tra società, religione ed etica, la legittimazione si attua grazie al comportamento morale di Davide e di coloro che ne sposano la causa. Costoro sanzionano operativamente la scellerata condotta del re; mancando una punizione diretta dall’altro, il comportamento condiviso del gruppo pone le condizioni strutturali in base alle quali è possibile realizzare e mantenere l’ordine legittimato da YHWH (una monarchia duratura sotto la saggia guida di Davide)» (p. 79).

La dominazione allude alla perdita di status e di potere da parte di Saul a cui corrisponde specularmente l’accrescimento sia del potere che dello status di Davide.

L’atteggiamento rispettoso di Davide è la risposta diretta allo strapotere con cui Saul gestisce la paura di perdere il regno. Il non contrattaccare il suocero produce un effetto destabilizzante per la politica di Saul e non fa che creare le condizioni perché il prestigio e la fama di Davide possano aumentare e far scattare, di conseguenza, l’alleanza di coloro che ne prendono le difese. «Il non fronteggiare direttamente Saul avalla lo status quo stabilito da Dio, che prevede la successione di Davide al trono […]. Possiamo dire che il figlio di Iesse, nella debolezza strutturale e istituzionale di chi non possiede nulla se non un manipolo di uomini fedeli, vede accrescere il proprio potere carismatico, preparando, in tal modo, quelle condizioni relazionali necessarie alla gestione del potere monarchico» (pp. 79-80).

La disanima socio-antropologica delle emozioni ha fatto emergere la loro importanza: «sono esse che marcano le regole sociali, posizionando i soggetti all’interno dello spazio sociale e religioso in cui sono inseriti e strutturando la concatenazione delle loro interazioni. La gestione delle emozioni è fondamentale per la conduzione della “cosa pubblica”, così come sono estremamente significative, ai fini del ristabilimento della giustizia relazionale, le dinamiche legate alla significazione, alla legittimazione e alla dominazione, poiché dalla comprensione delle emozioni e delle modalità con cui possono essere esibite, discende il corretto management del saggio regnante» (p. 80).

Giobbe e le ragioni della sua protesta

Nel quarto capitolo (pp. 83-100) Pinto si serve dell’etnometodologia per esaminare Giobbe e le ragioni della sua protesta così come sono presenti in Gb 29–31. Lo studioso esplicita le dinamiche soggiacenti all’interpretazione di “giusto sofferente” operata da Giobbe stesso. «La lettura sociologica mira a evidenziare le dinamiche che soggiacciono alla sua visione del mondo che, a causa della malattia, viene meno nella sua ovvietà. L’etnometodologia aiuta a esplicitare le ragioni che soggiacciono alla protesta rivolta contro Dio» (p. 84).

Pinto descrive la costruzione sociale della stima come è descritta in Gb 29,7-10, la successiva caduta in disgrazia che gli fa esplicitare il rovesciamento dell’idea di un Dio buono, «attestandosi come l’ultimo atto di forza per salvaguardare quel che resta di sé e del suo mondo» (p. 87).

C’è il presupposto della fiducia ingenua. Le aspettative di vita di Giobbe si radicano sulla teoria della retribuzione: bisogna corrispondere alla bontà divina con una condotta adeguata, pena la perdita delle promesse e dei beni a questa connessa (la terra, la ricchezza, la salute, la fecondità).

Giobbe ha uno sguardo ordinato sul mondo: appartiene a Giobbe e a ogni uomo che abita il quotidiano con fiducia “ingenua”, cioè che la realtà sia davvero come appare, senza trucchi né inganni. C’è un credito di fiducia che viene aperto nei confronti dei propri simili e delle strutture socio-religiose da queste realizzate. Gli amici di Giobbe hanno una ferrea fiducia in questo mondo di regole, percepito come il migliore dei mondi possibili.

Una lettura sociologica fa emergere l’impegno di tutti i membri della società nel mantenere in piedi il sistema.

D’altra parte, essa fa emergere «come il senso di frustrazione, smarrimento, fastidio e ostilità arrecato da un’anomalia (la disgrazia del giusto) viene prontamente affiancato dall’impegno profuso perché l’allarme sociale possa rientrare» (p. 90).

La malattia appare come un reattivo. La differenza tra Giobbe e i suoi amici sta nel fatto che il primo è disposto a sacrificare l’idea che ha della divinità per salvare la sua religiosità, mentre i secondi preferiscono sacrificare Giobbe. La malattia è valutata come la rottura dell’ordine morale, come anormalità in un corso di eventi considerati abituali e prevedibili, come anomalia in un sistema che non ha previsto una simile evenienza.

I teologi della retribuzione selezionano un insieme di caratteristiche stabili di un’organizzazione e si cercano le variabili che le tengono insieme. L’approccio attraverso l’etnometodologia fa emergere i metodi con cui avviene tale operazione di selezione (appunto etnometodologia). «La malattia “apre gli occhi” di Giobbe e gli fa capire che tali variabili sono tenute insieme dalla tradizione, dal buon costume, dal “si è sempre fatto così” e del “sentito dire”. In altre parole, da un insieme di pratiche che vengono routinizzate sino a essere sacralizzate» (pp. 91-92). Ciò che Giobbe precedentemente credeva di conoscere – Pinto parla di «illusione ottica» – si rivela in tutta la sua pochezza e parzialità. Un altro mondo si va dischiudendo per Giobbe.

Dalla prospettiva etnometodologica

L’attribuzione di senso passa – secondo Pinto – attraverso la «storia legittima». Giobbe è visto dallo studioso come un «malato sociale», nel senso che accorda alla società una buona fetta della propria auto-percezione religiosa. Giobbe non mette in discussione il dato normativo, ma il funzionamento di tale apparato normativo.

Normalmente si spiega l’azione morale indicando la sua conformità o la non conformità alla regola. «Il gap etico che manda in crisi Giobbe e la sua morale – cioè la discordanza tra la sua condotta istituzionalizzata e la ricompensa attesa (la malattia invece della salute) – fa emergere le crepe di attribuzione di senso causale-deduttivo perché, pur applicando quelle norme ritenute etiche, egli non vede i benefici sociali. Ciò costringe a esplicitare i presupposti impliciti che reggono questa moralità e ne ispirano l’obbedienza, in vista di una loro conferma» (p. 93).

«Il disorientamento di Giobbe – continua lo studioso – mira a sanare le fratture del precedente sistema. Egli contesta Dio e la sua giustizia, perché si attende di essere riabilitato e rassicurato circa le scelte della vita sulle quali ha puntato tanto. La categoria del “giusto sofferente” con cui egli si presenta ai suoi amici è un ossimoro sociale che non può essere esibito per troppo tempo, pena la perdita dell’onorabilità e della stima conquistate con tanta fatica […]. Facciamo notare che il processo causale-deduttivo non è saltato a pie’ pari, ma riformulato a ritroso da Giobbe: il senso della condotta di un tempo – di cui il lettore nel prologo del libro prende semplicemente atto senza entrare nelle motivazioni del protagonista (capitoli 1–2) – viene rintracciato, creato e rendicontato nello svolgersi della vicenda, perché è stato smarrito o non pienamente compreso» (ivi).

Nel c. 31 Giobbe amplia iperbolicamente la sua condotta di un tempo: l’esagerazione è una provocazione, direttamente proporzionale alla volontà di risolvere l’aporia che egli stesso rappresenta nel sistema religioso e s sociale. «La logica che anima queste parole rimane deduttiva e rivela la “legittima storia” del pio Giobbe: tale logica a causa della malattia è stata tematizzata, rivelando un’aspettativa di trattamento che precedentemente era ritenuta scontata (il premio), mentre adesso viene a gran voce invocata» (p. 95).

«Dalla prospettiva etnometodologica – scrive Pinto – si ricava che l’apparato normativo classico (le norme morali alle quali Giobbe si è ispirato) non ha tanto un carattere fondativo, ma ideale e futuro: un “dover essere” (un paradigma di riferimento) più che un “essere” (un dato assunto oggettivamente)» (ivi). Il bacino dal quale Giobbe attinge tali regole è ben approntato dal prontuario del pio israelita che guida la ricostruzione di carriera.

Il c. 31 è infatti un lungo esame di coscienza incentrato su tre tipologie di peccati: sociali, sessuali e teologici. Esso rimanda alla Torah e alle indicazioni sapienziali di vita. Giobbe è doppiamente certo della rettitudine della propria condotta. «La malattia non ha scardinato le sue convinzioni contribuendo, al contrario, a sistematizzarle in un ampio e solido orizzonte di fede, secondo quello che in sociologia possiamo chiamare visione congruente della realtà» (p. 99).

L’etnometodologia ha messo in evidenza come «l’attenzione ai metodi, agli strumenti, ai modi e alle procedure che Giobbe utilizza per raccontare la propria vicenda è sostanziale: la realtà è l’insieme delle procedure e dei metodi che permettono l’ordinato svolgersi della realtà quotidiana. Tale conoscenza è, per dirla in altri termini, una conoscenza del come più che una conoscenza di cosa» (p. 100). La lettura sociologica è meno sovversiva di quanto si pensi – scrive l’autore –, perché è avalutativa; non vuole smontare criticamente le parole di Giobbe ma rendicontarle, «cioè far emergere quel mondo tacito e ordinario che quotidianamente ogni uomo assume pacificamente e, spesso, come l’unico mondo pensabile» (ivi).

Pinto si avvia alla conclusione. «Dalla messa in crisi di questo mondo può nascere per Giobbe un nuovo rapporto con il divino e con la sua storia, e ciò grazie allo shock provocato dalla sofferenza che ha contribuito a togliere la cecità in cui si resta imbrigliati quando si seguono acriticamente alcuni automatismi normativi e teologici (deduttivismo). Il passaggio dal come al cosa si può rivelare molto interessante nella misura in cui si approda al chi, quel tu divino al quale Giobbe si rivolge alla fine della storia e che, proprio grazie alla sofferenza, ha potuto conoscere» (p. 100).

Sociologia ancilla dell’esegesi?

Nella Conclusione (pp. 101-104), l’autore si domanda se la sociologia non possa assurgere al ruolo di ancilla della teologia biblica, come in passato lo fu la filosofia per la teologia (con derive negative non di poco conto). Secondo lo studioso, il ruolo non è di subordinazione, quanto di esplorazione, di ispirazione.

Pinto è convinto di aver fatto un esercizio concreto di transdisciplinarietà, cioè di accoglienza-integrazione di istanze di una disciplina (la sociologia) nel percorso di un’altra (l’esegesi biblica).

Con l’onestà e le competenze debite, la sociologia può contribuire molto all’esegesi nello studio dell’humus della Parola. «Siamo certi – afferma Pinto – che il radicamento nel substrato delle “cose della terra” – sulle orme della Sapienza che “è apparsa sulla terra e ha vissuto tra gli uomini” (Bar 3,38) – possa nutrire i percorsi di crescita e maturazione verso la Sapienza delle “cose del cielo”» (p. 104).

L’autore esplicita alcuni aspetti positivi emersi nella sua ricerca. Li riportiamo per esteso.

a) «una fede storica: la Scrittura non offre l’idea di un kit di fede sempre identico e pronto all’uso, ma racconta la chiamata di Dio che interpella l’uomo coinvolgendolo in una risposta esistenziale;

b) una spiritualità incarnata: è nella storia e nella società che si misura la qualità della riposta di fede, e non in una fuga in avanti (fuga mundi) o indietro (verso una mitica età dell’oro), ma “qui e ora”;

c) una morale centrata sulla vita fisica: ciò che si muove nel corpo ha rilevanza nel discorso di fede e va preso sul serio, perché è dalla corporeità (bisogni, sentimenti, emozioni, attese, paure) che nasce e si sviluppa l’universo simbolico umano» (p. 103).

La Bibliografia è riportata alle pp. 105-112.

Il volume propone un’impostazione di studio di alcuni brani biblici tramite l’apporto della sociologia. Il risultato è molto interessante, anche se richiede una conoscenza almeno iniziale delle sue categorie interpretative della realtà.

Sebastiano Pinto, L’humus della Parola. Bibbia e sociologia in dialogo, EMP, Padova 2023, pp. 120, € 12,00, ISBN 9788825051704.

 

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