
Il titolo di questo mio intervento gioca sul significato che possiamo attribuire alla espressione “prete secolare”.
Di per sé, si tratta di una formula tecnica, che nel Diritto canonico si usa per distinguere i preti che fanno parte del presbiterio diocesano da quelli che sono inseriti invece in un ordine religioso. Tuttavia, il mio intento è quello di intravedere un senso assai più profondo e intrigante di questa espressione. “Secolare”, infatti, è un aggettivo, che porta in sé il rimando al saeculum, ovvero il tempo della storia, con le sue esigenze e le sue urgenze.
Allora, nella prospettiva teologica che vorrei indicare, la definizione “prete secolare” si potrebbe riferire a un ideale di presbitero, che non è chiamato a cercare la sua identità e la sua missione fuori dal mondo, sopra o accanto all’esperienza comune degli uomini e delle donne che vivono sotto il cielo, bensì proprio dentro questo mondo e dentro quest’esperienza.
Certo, «nel mondo ma non del mondo», per citare le parole di Gesù in Giovanni 17,16. Dunque, un prete presente alla storia e, insieme, testimone di una maniera singolare di abitarla. Per altro, come è chiamato ad essere ogni discepolo fedele del Signore.
Lo stile del “prete secolare” è quello di chi annuncia la novità dell’Evangelo condividendo le condizioni e le difficoltà delle persone comuni, affiancandole nel loro cammino di esistenza, muovendosi appunto tra comunità e società.
Evidentemente qui è in ballo una maniera alternativa di rappresentare e di attuare l’identità presbiterale, rispetto alla figura del “prete sacrale”, che si è affermata nell’epoca della cristianità. Il “prete sacrale” è il modello del “sacerdote” come uomo del sacro; una sorta di essere angelicato sospeso tra cielo e terra, custode di riti arcaici, depositario di tradizioni immutabili e maestro di dottrine indiscutibili. L’aspetto più interessante da evidenziare è che il prete sacrale simboleggia un ideale di ministro ordinato, che ritaglia i contorni della sua fisionomia pastorale e spirituale sullo schema della consacrazione religiosa, considerata come lo “stato di perfezione” per eccellenza.
Tuttavia, proviamo a domandarci: e se, invece, la forma emblematica dell’esistenza cristiana non fosse quella della consacrazione religiosa, bensì fosse proprio quella della condizione laicale, precisamente con la sua «indole secolare», come sottolinea il Concilio Vaticano II?
Di conseguenza, e se la perfezione della fedeltà allo stile di Gesù – lo stile dell’incarnazione – fosse proprio da ricercare nell’esperienza di chi si impegna a portare avanti il corso ordinario della vita secondo l’ispirazione evangelica? Allora non si dovrebbe ricalibrare anche l’identità specifica del prete, spostandola sul versante della figura del laico, piuttosto che su quella del religioso?
Qui si aprirebbero delle prospettive davvero inedite, che permetterebbero di rimettere in discussione non solo l’obbligo del celibato ecclesiastico, bensì, a mio avviso, anche l’impedimento per le donne di accedere al ministero ordinato. Non intendo però inoltrarmi in temi così complessi, che richiederebbero molto tempo per essere affrontati con la completezza e la profondità necessarie.
Lo stile testimoniale del presbitero per una Chiesa in uscita
La pista che seguirò sarà, invece, quella di provare a verificare in quale misura già adesso, con le attuali disposizioni dottrinali e canoniche, sia possibile ripensare la figura del presbitero guardando nella direzione del “prete secolare”, secondo il significato che ho cercato di spiegare. Per raggiungere questo obbiettivo, ho pensato di fare una semplice ricerca sulla figura del presbitero nel magistero di papa Francesco, considerato che, per quanto riguarda il magistero di papa Leone, non c’è ancora materiale sufficiente circa questo tema.
Ho concentrato l’attenzione in particolare su due punti: ossia, lo stile testimoniale del presbitero per una Chiesa in uscita; la relazione presbiteri-laici fra clericalismo e corresponsabilità. Infine, proporrò una mia considerazione conclusiva su un aspetto che mi sembra tendenzialmente trascurato dal magistero di papa Francesco, ovvero il legame tra la presidenza pastorale e la competenza teologica. Spero di riuscire a mostrare che, nel suo insieme, la visione del presbitero di papa Francesco si avvicina molto alla fisionomia di quello che chiamo il «prete secolare».
Bisogna premettere che, nel magistero di papa Francesco dedicato alla figura del prete, non riscontriamo la preoccupazione di offrire una definizione dottrinale e sistematica di chi è il presbitero secondo la prospettiva cattolica. Piuttosto, l’approccio seguito è sempre di tipo pratico e sapienziale: l’interrogativo sulla figura del presbitero trova risposta nel rimando ad una narrazione, che rilegge l’esperienza effettiva alla luce della Parola di Dio e della situazione ecclesiale concreta.
Questo – sia chiaro – non rende affatto l’insegnamento di Francesco semplicemente aneddotico, improvvisato, come invece alcuni gli hanno spesso contestato. Al contrario, dai diversi interventi – tassello dopo tassello – emerge un mosaico coerente, che si basa sull’impegno di tenere sempre in stretta correlazione la sostanza e la forma, o – se preferiamo – il contenuto e il vissuto dell’identità presbiterale.
Da questo mosaico, propongo di estrarre due tessere, che mi sembrano centrali, perché ci permettono di cogliere il tutto nel frammento: le due tessere – come ho accennato nell’introduzione – sono lo stile del presbitero e il suo rapporto con il laicato.
Le forme dello stile: cercare, includere, gioire
Per quanto riguarda lo stile, proprio per confermare l’approccio pratico adottato da Francesco, mi soffermo su due triadi di verbi, che ci indicano l’“essere” del presbitero a partire dal riferimento al suo “fare”.
La prima triade richiama le forme dello stile presbiterale, mettendo insieme queste operazioni: cercare, includere, gioire. Francesco ne parla durante l’omelia tenuta a giugno del 2016 nel contesto della messa in occasione del Giubileo dei presbiteri.
- Il verbo “cercare” è il più importante dei tre, perché mette subito in campo la prospettiva ecclesiale dell’“uscire”.
Quando papa Francesco parlava della Chiesa in uscita, non voleva proporre un’etichetta da appiccicare su di un contenitore, senza cambiare in nulla il suo contenuto. Al contrario, l’intento era quello di sollecitare un cambiamento in profondità, che può essere sintetizzato così: uscire dagli schemi abituali, in gran parte non più funzionanti, nella misura in cui rimangono legati al contesto di “cristianità” che li aveva prodotti; uscire nella realtà complessa di oggi, con i suoi molti limiti ma anche con le sue molte risorse; uscire verso una maniera di realizzare la fede cristiana, da intendere come l’esperienza e la testimonianza di una buona notizia per la vita.
Ora, il movimento dell’uscire diventa quello che dovrebbe caratterizzare di più l’essere e l’agire del prete, secondo Francesco. Cito un passaggio dell’omelia:
«Se il pastore non rischia, non trova. [Il pastore] non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è, infatti, ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini».
È in questo contesto che – a mio avviso – si capisce il senso di una metafora, che papa Francesco aveva lanciato durante l’omelia della sua prima messa crismale, nel 2013, ossia la metafora del pastore con «l’odore delle pecore».
Questa immagine ha suscitato parecchi commenti ironici, ma il suo significato, in realtà, non è affatto banale. Infatti, ci ricorda che anche per i presbiteri non basta più assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che, rimanendo dentro la fortezza, osservano dall’alto e giudicano ciò che accade attorno. Adesso la sfida è coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di sporcarsi le mani e di ferirsi.
I pastori con l’odore delle pecore sanno che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza coinvolgimento, e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere fuori, perché l’ambiente vitale della Chiesa è il “fuori”: sono le periferie esistenziali e sociali, dove si incontrano gli uomini e le donne così come sono e non invece come vorremmo che fossero, in base alle nostre precomprensioni dottrinali e morali.
- Qui, allora, intuiamo che l’operazione del cercare si prolunga e si precisa in quella dell’“includere”.
Oggi, per la verità, dal punto di vista culturale e sociale, tende ad ottenere più approvazione la scelta dell’escludere piuttosto che quella dell’includere. Se ci pensiamo, per il nostro immaginario collettivo, spesso l’altro sembra avere il volto minaccioso dell’antagonista o addirittura del nemico, piuttosto che il volto promettente dell’alleato o del fratello. Così diventa quasi ovvio ritenere che l’altro con la sua diversità di nazione, di convinzione, di genere e di religione, sia colpevole di esistere sino a prova contraria, la quale ovviamente è sempre impossibile, appunto perché l’altro esiste così com’è, esiste nella sua differenza irriducibile, insopprimibile.
Allora, c’è davvero bisogno più che mai di promuovere una cultura dell’inclusione e del dialogo; una cultura, che nasce soltanto se molti si rendono disponibili a fare un atto coraggioso di fiducia verso gli altri, anche a costo di esporsi all’incomprensione e al fallimento.
Secondo papa Francesco, il presbitero prima di tutti dovrebbe sentirsi chiamato a questo atto di fiducia. Cito ancora dall’omelia del giubileo presbiterale:
«Il sacerdote di Cristo è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. È un uomo che sa includere».
Insomma, si tratta di diventare maggiormente capaci di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e con la sua potenza di autentica umanizzazione.
A me piace dire che l’incontro con altri per testimoniare la buona notizia della salvezza, se non intende correre il rischio di rimanere un contatto superficiale, deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto. Solo così ognuno può davvero sperimentare che, attraverso il rapporto con il Dio di Gesù, riceve in dono la forma e la forza di una vita buona e bella.
- Questa capacità di includere per evangelizzare richiede che lo stile del ministero presbiterale sia segnato dal “gioire”.
Bisogna precisare subito che questo gioire non ha nulla da spartire con l’imperativo del godimento, che è diventato la parola d’ordine di una visione individualistica e autoreferenziale della vita.
Il modello della gioia di cui stiamo parlando è individuato da Francesco nella figura del Buon Pastore; cito ancora direttamente le sue parole:
«La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio».
A questo proposito, durante la messa crismale del 2014, papa Francesco parla esplicitamente di una «gioia sacerdotale», alla quale attribuisce tre caratteristiche specifiche.
Anzitutto, è una gioia che «unge», perché è collegata all’unzione ricevuta nell’ordinazione presbiterale: quindi non è una pura condizione psicologica o caratteriale, ma è piuttosto una dotazione sacramentale, che, proprio per questo, viene a configurare in maniera profonda l’interiorità di chi la riceve.
In secondo luogo, è una gioia «incorruttibile». Proprio perché il suo fondamento non è legato ad uno stato d’animo, ma al dono di un’unzione che penetra fino alle ossa, coincide con quella gioia che niente e nessuno può togliere, in quanto è il frutto del rimanere in comunione con Cristo tramite lo Spirito (cf. Gv 16,22). Quindi, questa gioiosità può essere addormentata o soffocata dal male e dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace sotto le ceneri, e può essere sempre riaccesa.
Infine, si tratta di una gioia «missionaria». Non solo perché si esprime in particolare quando il prete sta in mezzo al Popolo di Dio per annunciare e confermare, per benedire e consolare. Ma anche perché il Popolo di Dio non manca di restituire centuplicata questa gioia, quando fa esperienza di riceverla proprio da un presbitero che davvero si prende cura con generosità della comunità che serve.
Le condizioni dello stile: pregare, camminare, condividere
La prima triade di verbi ci ha richiamato le forme dello stile testimoniale del presbitero.
La seconda triade, che prendiamo in considerazione, puntualizza le condizioni che rendono possibile questo stesso stile. I tre verbi qui sono: pregare, camminare e condividere. Papa Francesco li indica nel discorso alla assemblea plenaria della Congregazione per il clero nel giugno del 2017.
- La preghiera costituisce la condizione fondamentale, perché riguarda la figura concreta che assume la relazione profonda con Dio attraverso Gesù Cristo nello Spirito.
Il papa ne parla così nel suo discorso: «La preghiera, la cura della vita spirituale, danno anima al ministero, e il ministero, per così dire, dà corpo alla vita spirituale: perché il prete santifica sé stesso e gli altri nel concreto esercizio del ministero, specialmente predicando e celebrando i Sacramenti».
Questo è un aspetto su cui Francesco insiste molto: il prete non ha bisogno di cercare una spiritualità diversa da quella che prende forma nell’esercizio del ministero, come se il suo servizio rappresentasse soltanto una funzione, una prestazione, e quindi dovesse attingere da una fonte esterna la linfa per nutrire la vita. Quando si cade in questa trappola, si finisce di passare da un metodo spirituale all’altro; così c’è il rischio di diventare «pelagiani», come dice Francesco, ossia si fa conto sulle tecniche proposte da quel gruppo o da quel movimento più che sul potere della grazia. Un potere che si attiva e cresce nella misura in cui il prete, realizzando i diversi aspetti del suo ministero, si lascia coinvolgere in prima persona per donare il Vangelo a chiunque.
Questo vale soprattutto in riferimento alla celebrazione dei sacramenti e in modo particolare dell’eucaristia, che rimane la forma più elevata di preghiera personale e comunitaria.
Infatti, il dono e il compito di presiedere l’eucaristia senza dubbio è ciò che definisce maggiormente il ministero del presbitero, anche se non lo esaurisce. In effetti, il ministero ordinato richiede svariati servizi; ma tutti trovano la loro radice e il loro senso nella presidenza dell’eucaristia, come memoriale della presenza operante di Gesù crocifisso e risorto.
Se volessimo parafrasare una nota formula teologica, potremmo affermare con buone ragioni che la Messa “fa” il ministro ordinato, prima ancora e affinché possa “essere fatta” da chi la celebra per e con la comunità cristiana.
- Dopo la preghiera, la seconda sorgente da cui scaturisce lo stile testimoniale del presbitero è il “camminare”.
A questo aspetto Francesco dedica parole molto suggestive nel discorso che stiamo ripercorrendo; parole che meritano di essere citate direttamente:
«Un prete non è mai “arrivato”. Resta sempre un discepolo, pellegrino sulle strade del Vangelo e della vita, affacciato sulla soglia del mistero di Dio e sulla terra sacra delle persone a lui affidate. Mai potrà sentirsi soddisfatto né potrà spegnere la salutare inquietudine che gli fa tendere le mani al Signore per lasciarsi formare e riempire. Perciò, aggiornarsi sempre e restare aperti alle sorprese di Dio! Infatti, in ogni ambito della vita presbiterale è importante progredire nella fede, nell’amore e nella carità pastorale, senza irrigidirsi nelle proprie acquisizioni o fissarsi nei propri schemi».
Questo è un punto in cui si coglie con particolare evidenza come nel magistero di Francesco – se li si vuole vedere – si ritrovano davvero tutti i presupposti per passare dalla figura del “prete sacrale – a quella del “prete secolare”, il quale è sollecitato ad aggiornarsi in sintonia con la comunità ecclesiale, in quanto non possiede un’identità statica, ma dinamica.
Non a caso, papa Francesco, a partire dall’esortazione Evangelii gaudium, ha voluto riprendere e rilanciare l’obiettivo dell’“aggiornamento” additato dal Concilio Vaticano II, affinché la testimonianza della Chiesa possa essere davvero all’altezza del giorno che viene, e abbia la capacità di “uscire” una volta per tutte dalle sabbie mobili della cristianità perduta.
Senza dubbio, la fede cristiana prende seriamente in conto la questione della provenienza, cioè il “da dove” veniamo, quindi la memoria di ciò che ci precede. Tuttavia, questo non significa ridurre la Tradizione ad un museo immutabile da conservare e da restaurare. Al contrario, l’incarico della Chiesa come Popolo di Dio è di custodire e di coltivare la memoria della provenienza, mantenendo legati insieme, in modo fecondo, continuità e trasformazione.
Davvero, nulla è più lontano dal Vangelo di Gesù Cristo che intendere il rapporto credente con Dio come un alibi per non affrontare la realtà complessa di oggi con fiducia e con determinazione, appunto attraverso un autentico cammino che ci porta ad essere all’altezza del giorno che viene.
- Infine, la terza condizione di possibilità per realizzare lo stile testimoniale del presbitero è espressa dal verbo “condividere”.
Durante il discorso alla Congregazione per il clero, papa Francesco precisa il tema in questo modo:
«La vita presbiterale non è un ufficio burocratico né un insieme di pratiche religiose o liturgiche da sbrigare. Abbiamo parlato tanto del “prete burocrate”, che è “chierico di Stato” e non pastore del popolo. Essere preti è giocarsi la vita per il Signore e per i fratelli, portando nella propria carne le gioie e le angosce del Popolo, spendendo tempo e ascolto per sanare le ferite degli altri, e offrendo a tutti la tenerezza del Padre».
Il papa ha affrontato questo aspetto anche in un’altra occasione, ossia nell’omelia per la messa del crisma nel 2018, tutta dedicata al tema della “vicinanza”, che viene messa in rapporto con la logica e la pedagogia dell’incarnazione.
In effetti, la buona notizia, che sta al centro della testimonianza di Gesù, è proprio che «il Regno di Dio si è avvicinato»: ossia, attraverso la presenza di Gesù, è offerta a tutti la possibilità di realizzare un rapporto con Dio, che diventa luce e forza per portare avanti con fiducia il cammino della vita.
Per questo la vicinanza – come dice il papa – è «l’atteggiamento-chiave dell’evangelizzatore»: infatti, dà concretezza a quello che Gesù stesso definisce «il suo comandamento», ossia l’amore vicendevole, la dedizione che implica la reciprocità, ma è capace di spingersi oltre, fino al limite di un dono di sé che diventa incondizionato e senza contraccambio.
Gesù interpella i suoi ad “essere memoria” di un amore così, perché questa è la sua novità; una novità, che non ammette di essere soltanto predicata, ma richiede prima ancora di essere praticata. In effetti, solo una vita che abbia davvero il sapore di una dedizione «sino alla fine», è in grado di mostrare a chiunque in maniera credibile quale sia la forma di un’esistenza secondo l’intenzione di Dio. Questo vale per tutti i battezzati, e proprio per questo non può non interpellare direttamente il prete e il suo ministero pastorale.
Non basta ripetere in maniera retorica che il ministro ordinato è un «alter Christus». Anzi, questa affermazione rischia di diventare un atto di superbia, che addirittura ci condanna, se poi le nostre parole, le nostre scelte, i nostri atteggiamenti, il nostro stile smentiscono nei fatti la consegna di “essere memoria” di Lui.
Qui il tema del condividere si riallaccia a quello del pregare: affinché la vicinanza del presbitero sia davvero una testimonianza efficace della presenza di Cristo, è indispensabile che il prete si lasci sul serio definire e plasmare da quel mistero più grande, che gli viene incontro ogni volta nel memoriale dell’eucaristia. Infatti, solo facendo autenticamente memoria nel rito possiamo essere credibilmente memoria anche nella vita.
Il rapporto preti-laici, fra clericalismo e corresponsabilità
A questo punto, vorrei soffermarmi in maniera più breve sulla seconda tessera, che estraggo dal mosaico del magistero di papa Francesco che tratteggia i lineamenti del presbitero.
Si tratta di prendere in considerazione la questione del rapporto tra presbiteri e laici nell’ambito della comunità ecclesiale. Francesco affronta in modo particolare il tema nella Lettera al Presidente della Pontificia commissione per l’America Latina pubblicata nel 2016.
La prima sottolineatura prende ispirazione da Lumen gentium e riguarda la comune vocazione battesimale, che unisce in maniera profonda i ministri ordinati e i fedeli laici. Francesco scrive:
«La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».
I rischi e le deformazioni, a cui si riferisce Francesco, trovano, secondo lui, una sintesi emblematica nel fenomeno del clericalismo. Il risvolto più problematico di questo fenomeno patologico è proprio la rimozione della consapevolezza che «la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cf. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati».
In effetti, l’esercizio della presidenza autorevole, che spetta ai vescovi e ai presbiteri, implica di per sé il compito di abilitare e discernere un’attività testimoniale, che richiede di essere portata avanti da una molteplicità di soggetti. Dunque, la presidenza di necessità rimanda ad una collaborazione responsabile, in cui sono chiamati in causa a pieno titolo battesimale anche i laici e le laiche.
Senza dubbio, una certa tradizione, che, grosso modo, è durata dal ’700 fino alle soglie del Vaticano II, ci ha consegnato un modello di Chiesa in cui il ruolo dei laici è tendenzialmente confinato a quello della supplenza: dove non arrivano i Pastori, allora si apre lo spazio per l’attività dei laici, che, in buona sostanza, non avrebbero altra funzione se non quella di fare da “protesi” a disposizioni dei pastori.
Come sappiamo, il Vaticano II ha chiesto con forza che questo modello della supplenza fosse superato. Non è un caso che, nella costituzione sulla Chiesa, il capitolo dedicato al Popolo di Dio è stato posto prima degli altri capitoli dedicati più specificatamente ai pastori, ai laici e ai religiosi.
Questa scelta sta ad indicare che, a monte di qualunque differenza, c’è da riconoscere una condizione comune a tutti, che è quella di essere membri del Popolo di Dio, nel quale stanno insieme pastori, laici e religiosi e al quale, nel suo complesso, è affidata la responsabilità per l’evangelizzazione e la missione, pur nella diversità dei ruoli e delle competenze.
Dunque, non si dovrebbe più parlare di supplenza, ma di corresponsabilità per l’azione pastorale, dove i laici e le laiche sono coinvolti allo stesso titolo dei pastori, anche se con ruoli e con competenze diverse, nella prospettiva di una Chiesa davvero in cammino sinodale.
Papa Francesco poi rimarca che, quando parliamo di collaborazione e di corresponsabilità, non ci riferiamo soltanto all’impegno della catechesi, dell’animazione liturgica, dell’attività caritativa, e così via. Senza dubbio è ancora più fondamentale un’altra maniera di essere corresponsabili della missione della Chiesa, ossia quella che si gioca nell’impegno di testimonianza evangelica che ognuno vive al di là degli ambienti strettamente ecclesiali: in famiglia, nella scuola, sul lavoro, nelle varie forme della vita civile, nel tempo a disposizione. Come scrive il papa:
«Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi».
In fondo, il limite principale del clericalismo è quello di presupporre che l’evangelizzazione e l’umanizzazione costituiscano di per sé due realtà destinate a nascere e a rimanere distinte. Quasi che l’impegno religioso e l’impegno sociale camminino per forza su binari differenti e paralleli, che si incontrano solo su determinati punti e in determinati momenti, per poi riprendere a viaggiare l’uno di fianco all’altro.
Papa Francesco cerca di superare questo limite nel capitolo quarto di Evangelii gaudium, dove, al n. 177, scrive con tutta chiarezza: «Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri».
Dunque, per Francesco la missione evangelizzatrice non solo fa spazio alla dimensione umanizzante, ma la implica in modo costitutivo. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che l’evangelizzazione autentica è umanizzazione integrale, nel senso più profondo di questa espressione. È proprio in particolare a questo livello che i laici e le laiche sono chiamati ad esercitare in pieno la loro corresponsabilità battesimale.
Presidenza pastorale e competenza teologica
Concludo facendo ancora qualche veloce considerazione sul tema del rapporto tra presidenza pastorale e competenza teologica; un aspetto che ho trovato poco presente nel magistero di papa Francesco dedicato alla figura del presbitero, ma che ritengo indispensabile per disegnare l’identità del “prete secolare”.
Come premessa, mi pare importante sottolineare che ancora oggi sono duri a morire due pregiudizi micidiali: una concezione intellettualistica della teologia e una visione attivistica della pastorale. Questi però sono appunto soltanto pregiudizi. In effetti, se per “pastorale” intendiamo le differenti forme concrete, grazie alle quali la comunità ecclesiale si prende cura della buona qualità della fede nel Vangelo, allora non c’è alcun dubbio che il servizio teologico rappresenti uno degli aspetti costitutivi e immancabili di tale cura.
Sono convinto che, a sessant’anni e oltre dal Concilio Vaticano II, sarebbe il momento di abbandonare una volta per sempre queste dicotomie decisamente sterili tra riflessione teologica e pratica pastorale.
È vero che un esercizio della teologia che fosse privo della sua dimensione pastorale (o meglio ecclesiale) rischierebbe di ridursi alla costruzione artificiosa di un sistema chiuso in sé stesso. Ma è altrettanto vero che un’attuazione della pastorale che fosse privata della sua dimensione teologica finirebbe di esaurirsi in una pura ripetizione di operazioni, considerate così usuali che spesso non ci si accorge neppure più di quanto ormai siano divenute usurate. In entrambi i casi, a perderci è la Chiesa nel suo insieme e soprattutto è la forza persuasiva della sua testimonianza.
Proprio il legame indissolubile tra evangelizzazione e umanizzazione, di cui parlavo poco fa, sfida la comunità ecclesiale a dimostrare in concreto la sua capacità di abilitare i credenti ad una fede, che sia consapevole delle attuali trasformazioni culturali e sociali, in modo da affrontarle non rimanendo sulla difensiva, ma prendendo l’iniziativa di contribuire a orientare con la sensibilità del Vangelo quelle trasformazioni stesse.
L’epoca che viviamo ci sollecita a investire risorse qualificate di intelligenza e di impegno per attivare una testimonianza che interpella, inquieta, suscita domande e alimenta speranze. Ormai da tempo non è più sufficiente garantire una pastorale di conservazione, c’è bisogno di camminare verso una pastorale “generativa”, come espressione di una Chiesa che non solo aiuti a crescere una fede già esistente, bensì, più in radice, permetta di nascere ad una fede ancora in gestazione.
Ora, dentro questo quadro ecclesiale, il ministero ordinato ha l’incarico di promuovere e accompagnare il cammino niente affatto scontato verso una pastorale generativa, che è indispensabile per accogliere e realizzare in concreto l’imperativo dell’“uscire”.
Mettersi a servizio come ministri ordinati di questo dinamismo di uscita richiede necessariamente l’acquisizione di una competenza nel campo del sapere teologico, che sia adeguata al compito della presidenza ecclesiale. Ovviamente questa competenza non è in via ordinaria quella specialistica del teologo di professione. Piuttosto, si tratta di acquisire e di padroneggiare gli strumenti teorici indispensabili per portare avanti la responsabilità di presiedere l’agire pastorale in un modo che sia teologicamente consapevole.
Mi sembra che la competenza necessaria sia in particolare quella di far incontrare il riferimento alla sacra Scrittura interpretata alla luce della Tradizione e il riferimento alla cultura elaborata nel contesto sociale in cui si vive.
Un ministro ordinato, che sia in grado di operare e di far operare questo incontro tra Scrittura e cultura, eserciterà la sua presidenza venendo riconosciuto come punto di riferimento autorevole per raccogliere e interpretare la provocazione più formidabile, che la nostra epoca lancia al compito dell’evangelizzazione. Si tratta della provocazione di mostrare che la fede in Cristo sa ancora reggere la prova della vita, in quanto mantiene la promessa di renderla pienamente, integralmente umana.
Insomma, si tratta di custodire e di curare quella che mi piace definire «l’umanità della fede», ossia la dimensione che lega i discepoli del Signore a tutti gli altri e, nello stesso tempo, li fa essere portatori di una sapienza di vita, che solo il rapporto credente con il Dio di Gesù può donare.
Ora, mettere in atto un annuncio, una catechesi, una liturgia, un vissuto comunitario che siano coerenti con la prospettiva dell’umanità della fede esige appunto di apprezzare il servizio specifico che la teologia svolge per formare le coscienze a discernere biblicamente, facendo incrociare la Parola di Dio e le parole di senso che gli uomini sanno o non sanno più pronunciare a proposito di sé stessi e del loro mondo.
Per citare una nota definizione di Pierangelo Sequeri, la teologia non è la fede dei sapienti, ma il sapere dei credenti:[1] un sapere che dovrebbe essere coltivato tanto dai pastori quanto dai laici, in una maniera proporzionata alla responsabilità che ciascuno è chiamato ad esercitare.
Per concludere, mi pare che dal nostro percorso in compagnia del magistero di papa Francesco emergano in prospettiva i lineamenti, che ci possono orientare già oggi verso la figura del “prete secolare”.
Da una parte, un presbitero che sappia riconoscere con realismo non solo gli inconvenienti, ma anche le buone possibilità che ogni momento storico offre per l’annuncio e l’accoglienza del Vangelo. Dall’altra parte, un presbitero che prima di tutto non dimentichi la propria condizione di essere umano, con le sue capacità e le sue debolezze; poi, che ricordi di essere anche lui un christifidelis, un fedele battezzato, chiamato a camminare insieme con gli altri battezzati e con gli altri esseri umani, per dare vita ad una comunità ecclesiale e ad una società civile, che siano pienamente a misura d’uomo e, proprio per questo, siano anche aperte alla dis-misura di quella “agape” che è il Dio di Gesù Cristo.
Testo della relazione tenuta da don Duilio Albarello, dottore in teologia e docente in varie Facoltà teologiche, al Convegno Tenda dell’Incontro Giovanni Giorgis, ospitato presso il Monastero di San Biagio Mondovì (CN), 2 agosto 2025.
[1] «La teologia dunque non è la fede dei sapienti: è, più semplicemente, il sapere dei credenti. In questo senso si può certamente dire che la fede, in quanto implica un sapere formulabile ed argomentabile, è incoativamente “teologica”» (P. Sequeri, L’istituzione teologica, in G. Colombo [a cura], Il teologo, Glossa, Milano 1989, 7-24, ivi 17).






Meno sacrale e piu laico il prete ? Cosa e’ uno scherzo ? Vi ci mettete pure voi a demolire l’ edificio spirituale della Chiesa Cattolica ? Il Prete è un Ministro di Dio….. San Francesco non oso’ diventare Sacerdote perché non si riteneva degno di diventare un Ministro di Dio per l’ altissima missione di essere un Alter Christus da parte del Sacerdote e voi parlate di più laico il Prete ? Ma dove volete arrivare ?
Perché di scandalizza così tanto?
La Sacralità è Giustizia, rigore, castigo..
La Misericordia è una Fonte di acqua e sangue.. aperta dalla lancia di un soldato romano che trafisse il Cuore Pietoso di Cristo Gesù già morto sulla Croce.. eppure operoso.. vivo.. Pietoso verso il discepolo che non aveva potuto salvare dalla morte.. quella Pietà che mosse il Suo Cuore a pregare il Padre come “uomo” a chiederGli di salvarlo a qualunque costo.. quella Pietà che uscì dal Suo Cuore e mosse il soldato alla trafittura.. il quale non volle spezzare le Sue gambe.. per non dare a Lui e a Lei – Sua mamma – altra sofferenza.
Giuda era un giovane attratto da Gesù, ma attratto anche dalle cose di questo mondo.. come lo sono tutti i giovani e i giovani di oggi.. e come fare se non come un giovane tra i giovani.. in strada.. un amico tra gli amici.. e seguirlo passo passo pazientemente..
Gesù chiama Giuda “Amico” poi si consegna.. benedetto il Suo cuore..
Concordo pienamente.
Purtroppo, spiace dirlo , il cavallo di Troia fu il Vaticano2. Il cardinale Ottaviani, durante i “lavori” del vaticano 2, dichiaro’ di voler morire PRIMA della fine del vaticano 2, accioche’ sarebbe morto da CATTOLICO. Ho vissuto quel periodo e ricordo negli anni 60 la smobilitazione della Chiesa verso il secolare. Niente organi con melodie gregoriane , ma organetti e chitarre strimpellate a Messa che sembrava ridotta a mero club. Il prete che si dibatte tra sacrale e laico? Poveraccio non sa cosa e’ la VOCATIO. Da compiangere, ma non e’ solo.
Molto umilmente mi viene da scrivere: ma qual é il compito di un teologo se non quello di trovare linguaggi, forme, prospettive e visioni per ‘dire’ oggi, nel saeculum, la fede della gente in Gesù Cristo, nel Padre e nello Spirito? Se questo è fatto con intelligenza, fede e cuore, cosa c’è di malvagio? La Tradizione non può che essere sempre in cammino, come ha fatto la Chiesa da sempre…il Concilio di Trento ha dato forma, linguaggio, riti e liturgia per tutto il tempo della Cristianitas, che ora non c’è più. Questo non vuol dire che non esista più la Chiesa e la fede…così è stato nel passato, così è ora, così sarà. È ciò che hanno fatto tutti i Papi con il loro magistero, grazie alla loro fede e sensibilità e così fanno tutte le donne e uomini di buona volontà a cui sta a cuore testimoniare il Vangelo. Il partitismo non è fecondo…
Gioele dice: ” i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, i vostri vecchi faranno sogni, i vostri giovani avranno delle visioni”. Mettete don Duilio Albarello nella categoria che preferite…cmq c’è spazio per tutti!
Pace a tutte/i
Un prete studiato, che non è stato ancora capace di fare sintesi tra libri e vita pastorale, tra l’università nella quale insegna e Chiesa in uscita, dove non è presente. Faccia il parroco. Troverà la soluzione pratica. Dalla lunghezza dell’intervento si capisce che non è interessato a farsi capire ma a farsi vedere
Giustissimo quanto scritto dal signor Salvo Coco: “Egli (Gesù) ha abolito il regime di separatezza sacrale, ha liberato l’umanità dal sacro ed ha donato un nuovo e rivoluzionario paradigma, la laicità come prospettiva esistenziale.” E’ un dato storico fondamentale, che tutti i credenti dovrebbero avere ben presente e conoscerne bene le motivazioni. Ma la stragrande maggioranza dei credenti in Occidente – non per colpa loro ovviamente, ma per tutta una serie di cause storiche – non ne è al corrente e dunque non ha nemmeno chiara la dignità di ogni battezzato. Gesù – se n’è parlato già più volte nei commenti del blog – era un laico in Israele, non un sacerdote né un levita (era il Battista che apparteneva alla casta sacerdotale per parte di padre e madre, ma l’ha respinta…). Lo stato di laico in Israele e il fatto che fosse un galileo scandalizzano molti dei suoi ascoltatori/osservatori. Non a caso nel vangelo di Giovanni Gesù dice: “E beato chi non si scandalizza di me”. Oggi molte persone confondono sacerdozio con presbiterato. Gesù ovviamente non ha mai parlato di sacerdoti, non ne ha mai ordinato uno, non ha mai pensato di costituito una casta. La stessa celebrazione eucaristica è pensata proprio perché fuori dal Tempio: la vivevano tutti gli ebrei, domesticamente, in quanto membri del popolo di Dio. Non c’era bisogno di sacerdote. E Gesù ha insegnato ai suoi discepoli a guardare con occhi critico il Tempio. Nel Risorto sono popolo eletto, sacerdotale, nazione santa tutte e tutti coloro che fanno parte della Chiesa (il N.T. lo rileva a più riprese). Il presbiterato è invece un atto di amore di alcuni fratelli, per aiutare e accompagnare (ripeto: aiutare e accompagnare, non dirigere né guidare: l’unico Maestro è Cristo) le comunità nel loro cammino, anche se è vero che la parola ‘presbitero’ ha sempre prestato il fianco ad ambiguità. Tante persone, purtroppo (e ripeto: non per colpa loro ma per un processo storico: l’alfabetizzazione è stata per pochi nei secoli passati), avendo alle spalle una tradizione che si è evoluta ahinoi in senso gerarchico, faticano quindi a cogliere sia il vangelo e perché il messaggio e i gesti di Gesù, prima ancora dell’evento pasquale, abbiano assunto complessivamente un tale nome: buona-notizia. Dunque, la comprensione della dignità di battezzati è ancora un cammino e una conquista da portare avanti nella coscienza di tanti. Oggi il popolo di Dio ha fame e sete della Parola, ma non c’è quasi nessuno che gliela spieghi. Troppo poche/pochi sono gli operai, tanta la messe. Ancora una volta giova raccomandare lo studio spassionato, continuo, sempre approfondito dei vangeli. Ovviamente ciascuno deve schiarire le sue letture nella Chiesa e con le persone competenti. E leggere gli strumenti oggi finalmente disponibili. In Italia, finalmente, ci sono studi di riferimento e strumenti utili a portata di tutti, come quello di un biblista della Lateranense, da poco scomparso, R. Penna, “Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini”, Carocci, 2020. Del resto, nell’ultimo Sinodo è stato riconosciuto che nella Chiesa la teologia del N.T. è stata sostituita da quello dell’Antico. Una dichiarazione pudica, che riconosce quanto sopra detto. Quindi, c’è un cammino da fare per la Chiesa.
Cristo laico? L’Unto del Padre, laico? Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (salmo 109)!
Sommo Sacerdote in eterno. Altro che laico!
Un abbraccio, Angelo.
Gesù Cristo non è sacerdote secondo il significato tipico del sacerdozio levitico, ma lo è secondo il significato esistenziale di Melchisedech. Un sacerdozio, quello di Gesù, che è rivoluzionario, assolutamente diverso dal sacerdozio ebraico e dal sacerdozio come è stato inteso dal clericalismo a partire dal III-IV secolo. Consiglio di leggere qualche buon testo di esegesi neotestamentaria.
C’è una vita che vive al di fuori della Chiesa e di tutte le sue forme.. ed è grande.. molto più grande.. il Signore lo sa e se ne preoccupa.. si fa carico di questa vita distante dalla Chiesa.. non come sacerdote ma come laico.. sia benedetto Gesù Cristo.. si percepisce.. in strada.. è comunque il credo.. il credo della strada.. un po’ grezzo.. ma è il credo.. occorre andare oltre e aprire il cuore per vederlo.. soprattutto amare i giovani.. è il credo dell’Amicizia.. Gesù è lì la sera tardi nella movida.. nelle discoteche.. perché no.. esce dal Tabernacolo e si affianca a questi giovani un po’ soli.. sia pur nel gruppo.. trascurati.. oh sì tanto .. li osserva dentro come solo Lui sa fare.. e li benedice.. poi attende..
Gentile Angelo, grazie molte. Sì, il significato di laico va spiegato, ha ragione. Oggi la parola è usata anche nel senso di non credente. In realtà, in greco, laico è “uno del popolo”, un credente che non appartiene a nessuna casta sociale. Gesù era un laico, non apparteneva al gruppo dei sacerdoti né a quello dei leviti (mentre Giovanni apparteneva per doppia linea di discendenza al gruppo sacerdotale). Quello che è avvenuto in Gesù di Nazaret è una rivoluzione nella visione del rapporto tra Dio e l’umanità, tra l’umanità e Dio: Dio è davvero diventato Emmanuele, il “Dio con noi”, senza separazione. Sono annullati i sistemi di separazione (posto che valessero qualcosa agli occhi del Padre). I credenti in Cristo (o tutta l’umanità) è re-introdotta alla piena comunione con Dio. Naturalmente i presbiteri hanno un carisma particolare nella Chiesa, questo è certo. Ma i credenti non dovrebbero, a mio modesto avviso, dimenticare Giovanni 14,23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui”. Possiamo immaginare lo sconcerto, nel I secolo o poco dopo in ambienti di stretta osservanza “tradizionale”, all’ascolto di quella affermazione. Com’è possibile che il Padre stesso, il Trascendente per eccellenza, prenda dimora nel cuore di chi osserva la Parola? E’ possibile, perché in Cristo mediatore è tutto nuovo. Nell’eucarestia noi celebriamo insieme il Risorto, senza separazioni, uniti attorno a una stessa mensa. Forse questo è superfluo rilevarlo in Italia, ma in altri Paesi, in alcuni gruppi cattolici di altri Paesi, questo non sempre è chiaro. Perciò anche a me sembra sempre bene ricordare la dignità sacerdotale di tutti i battezzati. E’ la comunità che è sacerdozio, la comunità addetta al sacro. Anzi, sacra è in realtà ogni persona. E’ quello che Gesù stesso ha insegnato e vissuto. Oggi leggiamo quasi di corsa che il Verbo “si fece carne”. Ma “carne” nell’antichità voleva dire la cosa più fragile di tutte, la più esposta a corruzione, destinata a sfigurarsi per un niente. Quindi dire che il Logos ha preso in questo modo la sua dimora in mezzo a noi è proprio un vangelo di portata universale, per tutta l’umanità.
Emanuele, anche i laici, in quanto Battezzati e dunque insigniti del privilegio della divina figliolanza, sono tutti Profeti, Re e Sacerdoti, ma quel Sacerdozio è un Ministero non ordinato. Diverso dal Sacerdozio sacramentale. Il Ministero Ordinato è il dono più grande che Cristo abbia fatto all’ uomo. Il Sacerdote è un alter Christus, Ne possiede l’autorità. Ha il potere di rimettere i peccati, prerogativa divina, ha nientemeno che il potere di generare Cristo durante la consacrazione del pane e del vino! I Sacerdoti stessi, purtroppo, oggi, non sanno più chi sono! Ed anziché cercare la realizzazione delle loro vite nel più totale sprofondamento negli abissi dell’identità del Cristo, vagano senza meta nel mondo amalgamandosi com esso.
Questo potete non appartiene ai laici e, dalla fondazione del mondo, nessun uomo lo ha mai ricevuto, se non a cominciare dagli Apostoli che, come la più preziosa delle staffette, lo hanno tramandato fino ai nostri giorni.
La abbraccio fraternamente. Angelo.
PS. Gentile Angelo, le scrivo a proposito del suo ultimo messaggio, perché non trovo l’opzione per metterlo a seguito direttamente del suo (non mi compare ‘rispondi’ con freccetta). Certo che so che tutti i battezzati sono sacerdoti, re e profeti (anche se queste parole, nel concreto, rimangono lettera morta, visto che i laici non possono nemmeno leggere il vangelo durante la celebrazione eucaristica). Ma io le parlo da un punto di vista storico e alla luce di problemi condivisi con altri. Gesù è un laico: vuol dire questo ancora qualcosa per la Chiesa di oggi o si preferisce nasconderlo, coprirlo da sovraetichette, perché disturba la mentalità e la costruzione che si è fatta poi strada? Tutte le apparizioni del risorto sono in forma di un uomo comune: un custode di un giardino, un viandante, un uomo con pescatori. Scandalizza che Gesù si presenti così e mai come sacerdote? E aveva mai poi bisogno di atteggiarsi a sacerdote? Gesù indica anzi al sacerdote e al levita che il modello è addirittura un viandante scomunicato, un samaritano.
La parola “sacerdote” è stata ristretta nella Chiesa a chi presiedeva l’eucarestia solo da un certo periodo in poi: è noto questo? In Tertulliano abbiamo le prime attestazioni per il mondo latino; nel mondo di lingua greca più tardi. Ci sono tanti studi, forse non tanti in lingua italiana, ma ci sono per chi lo desidera. La sacerdotalizzazione del presbiterato è un fatto storico: quanti ne hanno conoscenza e coscienza e si pongono il problema di questo fatto che ha creato alla lunga due “generi” di credenti? Due generi di credenti non sono mai stati istituiti da Cristo. Anche il dopo-Concilio Vaticano II invita a riflettere su questi problemi. Non dimentichiamo che al Concilio, finalmente, hanno avuto parola specialisti (un nome tra tanti: De Lubac).
Il perdono dei peccati: il Risorto affida questo diritto/dovere a tutti i credenti; poi è stato ridotto nelle mani di pochi (e in che modo nel tardo medioevo è bene non parlarne). Sul sacerdozio non ordinato e sacerdozio sacramentale: neanche Paolo o Pietro o altri si esprimono mai così. Paolo non parla mai così né di sé stesso né di altri. Pongo problemi storici, sui quali è doverosa ormai una riflessione. Sull’eucarestia: un mio amico presbitero, che ha studiato tutta la vita questi temi, richiama l’attenzione a ragione sul fatto che il presidente esprime la preghiera eucaristica a nome della comunità: a nome della comunità. E non dimentichiamo: “Signore manda il tuo spirito a santificare…”. E’ il Signore che santifica.
Come vede, c’è grande varietà di aspetti da riconsiderare. Pongo e ripropongo problemi e dati storici o filologici. Naturalmente spesso si preferisce non parlarne, e quindi non sono argomenti familiari ai più. Alcuni si sentono quasi urtati al sentirne parlare. Peccato. Si riscoprirebbe la potenza del vangelo, la straordinarietà di quanto avvenuto nel I secolo. Ripeto in sintesi: il Sinodo appena concluso, dopo altre occasioni, ha riconosciuto che una teologia del N.T. è stata sostituita da una dell’A.T… Non continuo perché il discorso, adeguatamente approfondito, si prolungherebbe all’infinito. Tra questo mio commento e il precedente le ho offerto molti dati di riflessione. Mi permetta solo ancora di mettere alla sua attenzione che la parola “apostolo”/”apostoli” è stata ristretta strada facendo ai Dodici. E’ un fatto documentatissimo. Legga invece la fine di Romani. Un cordialissimo saluto.
P.P.S.: non entro sulla dottrina dell’alter Christus: lo sono, o sono chiamati a esserlo, tutti i credenti. Non confondiamo la presidenza con cose che si sono dette dopo. Anche qui conoscere storicamente le cose è indispensabile. Le rinnovo il più cordiale e fraterno saluto.
Emanuele, Cristo scandalizza perché parla come la negazione di un uomo e non per ragioni di carattere formale. Cristo scandalizza perché predica il rinnegamento di sé stessi e l’assunzione sulle proprie spalle della propria croce ad imitazione sua. Dalla fondazione del mondo, nessuno ha mai parlato cosi, ma tutti i sedicenti profeti e gli aspiranti dei hanno assecondando la natura umana nelle derive dei suoi voleri.
Lutero accusò i Papi di corruzione ma poi, anziché stigmatizzare le loro persone e le loro condotte oso’ nientemeno che correggere Cristo riscrivendone la Dottrina.
Errore per cui meritò la scomunica.
Il Sacerdote è il tratto d’unione tra l’uomo e Dio, senza il quale noi non andiamo da nessuna parte. Anzi, senza il quale, perdiamo Dio!
Oggi abbiamo solo da piangere per lo stato in cui è ridotta la Chiesa, ma Essa è di Cristo ed Egli non permetterà ai suoi nemici di usare violenza alla sua Sposa. Per noi è solo tempo di scegliere se stare con Lui o contro di Lui. Alla fine, sappiamo chi trionferà. È scritto. E sarà la più grande delle gioie.
La abbraccio fraternamente. Angelo.
Caro Angelo, ancora un breve messaggio (spero che sia visualizzato a seguito del suo, non saprei dire perché la mia finestra di scrittura si apre a monte).
Su alcune cose che lei mi scrive su Gesù sono d’accordo. Ma queste come quelle che non mi trovano d’accordo non cambiano in nulla né relativizzano quello di cui le dicevo. Quanto dicevo sono fatti di cui bisogna a mio avviso tenere urgentemente conto. E non ho parlato di altre cose importantissime, per es. della emarginazione secolare delle donne e della loro emancipazione che fatica (a dir poco!) a essere riconosciuta nella Chiesa. Ma vengo brevemente, spero, a rispondere su alcuni punti su cui mi sollecita e a dirle circa la mia visione delle cose.
Lascerei stare Lutero che ha fatto cose giuste e sbagliate, come cose giuste e sbagliate hanno fatto i papi della sua epoca e prima della sua epoca. Solo che generalmente dei papi si preferisce non parlare. Capisco che è scomodo farlo e riconoscere i loro errori, ma questo non dovrebbe andare a discapito della verità storica.
“Il sacerdote”, mi scrive, “è il tratto d’unione tra uomo e Dio”. Assolutamente no (dal mio punto di vista ovviamente (ma non ripeto le cose che ho scritto nei precedenti commenti e che non sono formalità come mi dice). Che una mentalità pre- e post-tridentina veicolasse queste cose (sacerdote mediatore) è stato gravissimo. Anche per questo la Chiesa è oggi combinata così com’è. Mi permetta di porre ancora alla sua attenzione che nel N.T. c’è un unico solo e sommo mediatore, Cristo ovviamente. Nessuno ha neanche lontanamente mai pensato di porsi come ulteriore mediatore tra cielo e terra agli inizi almeno, e per fortuna. Capisco che poi nella nostra tradizione cattolica si è arrivati a dire di tutto, ma non è un motivo per accettare cose infondate nel N.T.
Se non si riscopre urgentemente la bellezza del vangelo – e per riscoprirla tutti lo devono conoscere, ma va fatta un’opera di capillare iniziazione alla vita cristiana e quindi di introduzione ai testi del N.T. -, ci sarà – e purtroppo in Europa si marcia verso questa direzione – l’implosione della Chiesa. Il vangelo sparisce per tante ragioni già all’interno della Chiesa, perché relativizzato e messo da parte da tanti inutilissimi discorsi ecclesiali (preciso, in prima istanza: papali). Che senso ha fare un mondo di encicliche francamente lette solo da specialisti (e fatte male, peraltro, ma preferisco non aprire un ulteriore punto), se non si annuncia il vangelo o se il popolo di Dio ormai non lo conosce come dovrebbe?
Un esempio e chiudo: la Chiesa, la vita della Chiesa, va totalmente ripensata. Nel mese di agosto appena trascorso la liturgia proponeva, di domenica, brevissime pericopi evangeliche, totalmente decontestualizzate, di 30 secondi o poco più (essendo decontestualizzate ognuno poi può dire quel che vuole, se non adeguatamente preparato). Poi seguiva/segue di norma l’omelia per 20, 30 minuti. Non è raro che i presbiteri portino il discorso avanti con considerazioni anche fuori luogo, o ora dritte ora storte, per come hanno capito le cose e in funzione della loro preparazione o semplicemente in funzione del tempo, sempre minore, che hanno avuto per prepararsi. Ecco, di fronte a tutto questo diciamo anche basta e che è proprio tempo di cambiare. Diciamo che ogni credente o io almeno vorrei ascoltare la domenica la Parola vivente del vangelo, che grazie a Dio sa parlare anche da sé, cioè la lettura del vangelo per 10, 20, anzi 30 minuti. E avere poi un tempo di silenzio. Poi magari un’omelia. Ma un’omelia di 1-2 minuti. Va annunziato il vangelo, non la parola dell’oratore. Ancora una volta le ho proposto un esempio concreto.
Nel vangelo di Marco Gesù chiama alla “conversione”. Conversione non è atto di culto, qui. E’ “metanoia”: cambiamento di mentalità. Ecco, anche nella Chiesa cambiamo mentalità, riconoscendo i nostri errori. Il vangelo al centro, per favore. Non la classe sacerdotale. Il presbitero presiede alla eucarestia. Ricordiamoci che egli fa questo e che questo egli è chiamato a fare. I credenti attorno alla mensa, per favore, non sotto all’altare come sotto a un palco. L’accesso deve essere al pane E al calice su cui si è effuso lo Spirito di Santificazione. Accesso per tutti, non per alcuni privilegiati sull’altare. Lo ha detto Gesù, non io: tutti vi devono accedere.
Lo ha detto perché pane e vino consacrati nello Spirito di santificazione non sono un doppione (e Gesù non ha fatto doppioni), ma c’è una dinamica di salvezza nei due segni. Ci sarebbe tanto da scrivere, da dire e spiegare. E, per favore, ascoltare quello che lo Spirito ispira ai laici dopo la proclamazione della Parola. Se questo non si accetta nella Chiesa, allora c’è (eufemisticamente) di che preoccuparsi.
Grazie davvero per lo scambio sincero e cordiale, fraternamente.
Vorrei porre alla vostra attenzione un evento molto singolare, accaduto in questi giorni estivi appena trascorsi, per tre sabati consecutivi, nella comunità pastorale che ha unito dal 2009 tre parrocchie.. un sacerdote è stato poco bene, altri due più il diacono permanente fuori città, restavano soltanto due sacerdoti attivi con tre celebrazioni vespertine più o meno allo stesso orario.. è stata applicata una disposizione che prevede l’intervento dei laici con l’inizio della celebrazione, lettura dei brani liturgici, lettura del Vangelo e lettura breve delle relative spiegazioni predisposte dal sacerdote, corredato da canti all’ingresso, l’Alleluia al Vangelo.. infine la preghiera dei fedeli.. successivamente è entrato il sacerdote (che aveva terminato in un’altra chiesa) e ha proseguito la celebrazione con l’Offertorio e la Consacrazione delle offerte.
Questo evento è stato emblematico.. visto con gli occhi dello Spirito mi parla di un cambiamento preannunciato.. certamente, il primo pensiero va alla progressiva riduzione delle vocazioni.. ma più profondamente il pensiero va allo spezzare del rito della S.Messa, operato dallo Spirito.. il vero cambiamento che chiama i laici e.. chissà.. .. .. ..cos’altro ci riserva nei prossimi tempi ormai maturi.
Gentile signora Giuseppina, grazie, le dico cosa penso.
Le vocazioni ci sono. D’altra parte, non bisogna esagerare (non parlo ovviamente di lei, ma dei discorsi che hanno sopraffatto questi temi) con la retorica della vocazione, come si è fatto in età moderna. In realtà si tratta di ministeri da affidare. Quando la Chiesa ha bisogno di un servizio, cerca e sceglie tra persone valide. Nell’antichità si è fatto così, anche e addirittura a sorte, altro che discorsi sulla vocazione da cui purtroppo siamo stati invasi.
Purtroppo la legge ecclesiastica sul celibato va contro le disposizioni di Gesù di Nazaret, che ha scelto Pietro, e contro anche la prassi della Chiesa antica, che aveva presbiteri (e non solo presbiteri) sposati. Quindi, se la legge attuale non cambia, la Chiesa cattolica in Europa va verso l’implosione. Ho visitato in Europa aree dove c’erano cristiani, e anche bellissime chiese. Ma la domenica la chiesa rimaneva chiusa, perché un solo presbitero doveva girare a turno fra tante parrocchie, a settimane alterne. E c’erano in loco persone valide per presiedere, sposate. Se il papa e i vescovi vivessero le pene che infliggono alla Chiesa, forse cambierebbero. Ma gli applausi e lo stare al centro delle piazze, lodati dagli uomini, li allontanano dai problemi reali.
E purtroppo non vedo/sento alcuno, dei più vicini tra loro, che ne parli francamente, con parresia. Questo è quello che penso. Grazie della sua testimonianza.
L’articolo mi sembra ben impostato e i pensieri non sono pure fantasie teologiche. Sono prete da più di quarant’anni e pur avendo avuto una formazione post Vaticano II° la percepisco già datata e in buona sostanza superata dai tempi e dai cambiamenti culturali.
Se poi una non trascurabile parte di preti giovani si trova bene con nostalgie di cerimonie e di sacralità perdute (che loro manco possono ricordarsi), non è un buon segnale. Se sono tanti i giovani che riempiono le chiese dove si celebra con il rito antico (sicuri?)… Cosa vuol dire? In Italia si stimano circa duecentomila hikikomori giovani, gente che si reclude e si rifiuta di entrare nel mondo delle relazioni e dei conflitti. Mica diciamo che perché sono tanti allora questo è un bene.
La gente… la gente cercherà sempre qualcosa che li tiri fuori dagli affanni della vita.
Arricchente testimonianza.
Papa Francesco ha detto cose discutibili, un prete lsecolare, significa immerso nel mondo, ma quale mondo? Quello che ripudia il Sacro? Quello dei balletti e di Pachamama o quello dei mistici e della ricerca di un rapporto intimo e fedele a Dio? Un prete arlecchino servo di due padroni? E quale padrone sceglie? No, la chiamata a una vita consacrata appunto “sacra” ma sacra a chi? Alla gente che piaceva a Francesco o a Dio come piace a Gesù Cristo? I monasteri sono il cuore della Chiesa in uscita, senza la preghiera dove nasce l’oblazione non c’è nessuna Chiesa in uscita perché c’è il volontariato!. Francesco ha fatto della Chiesa una Ong, oggi se un ragazzo sente la chiamata a dare la sua vita a Dio la deve trovare nella dottrina della Chiesa, nei Padri del deserto, nell’ispirazione monastica, nell’unico Incontro possibile, con Gesù Cristo solo allora l’incontro con il mondo tanto caro a Francesco è possibile. Cmq adesso c’è Papa Leone XIV, il magistero pettino supportato e fondato dalla visione agostiniana, lontana secoli dalla deriva bergogliana! Quando la Chiesa torna a Gesù Cristo veramente le Chiese si riempiranno e non servirà uscire per fare entrare.
La Chiesa è nata “in uscita”. Non è la novità introdotta oggi da qualcuno. Cristo ordinò agli Apostoli di annunciare il Vangelo ai quattro angoli del mondo e di battezzare tutte le genti. Cristo, dunque, ordinò di cercare.
Cristo volle l’inclusione di tutte le genti nel suo popolo (il famoso sogno di Pietro cui gli angeli calano dall’alto un lenzuolo pieno di animali, anche bestie allora ritenute immonde). Ma inclusione nella Verita’ (cioè nel riconoscimento della sua divinità, quale seconda Persona di una Trinità unico e solo Dio esistente al principio di tutte le cose) e non nella menzogna .
Cristo comandò alla Chiesa di gioire per la conversione a Lui del mondo intero.
E la Chiesa ha egregiamente ottemperato a questo solenne incarico dalla Pentecoste ad oggi.
Senza necessità di cambiare i connotati facciali della pastorale (e della dottrina) allo scopo di rincorrere pie illusioni. Pie illusioni, in quanto la Chiesa è di Cristo e nessuna novità (se non per agevolare una cernita tra buoni cristiani e cattivi cristiani) potrà mai prevalere sull’innegoziabile Verità Rivelata.
Un abbraccio, Angelo.
Peccato che oggi si chiede che ci siano sacerdoti che si occupino del sacro e della liturgia dove si riesca ad elevare l’anima. Infatti nelle Messe in vetus ordo ci sono più giovani che nelle Messe in novus dove sono rimasti più anziani che giovani e forse vale la pena porsi qualche domanda. Inoltre preciso che il Vaticano II non ha obbligato a girare gli altari verso il popolo anzi, però ovviamente qualche ben pensante ha fatto passare questa sbagliata interpretazione del documento conciliare sulla liturgia
Mi attengo al significato, diciamo così, “etimologico” del termine sacro. Sacro come “separato”, sottratto alla sfera della laicità, opposto a profano, a ciò che naturale e di uso quotidiano, altro rispetto alla quotidiana esistenza umana. In tale ambito di significato, concordo con la posizione assunta da Duilio Albarello:. Ritengo che la vita in Cristo sia una vita laica, radicalmente diversa da una esistenza sacra. E questo perché Gesù ha inaugurato tale esistenza laica. Egli ha abolito il regime di separatezza sacrale, ha liberato l’umanità dal sacro ed ha donato un nuovo e rivoluzionario paradigma, la laicità come prospettiva esistenziale. Il Vangelo, a mio avviso, è un manifesto che inneggia alla laicità. Una laicità che è stata incarnata nella vita delle prime comunioni cristiane e che è stata cancellata con l’avvento del clericalismo a partire dal terzo/quarto secolo. Ci sono ottimi testi teologici ed esegetici che sorreggono tale laicità cristiana e che suggeriscono una desacralizzazione (o declericalizzazione) della chiesa Ma purtroppo la dimensione della laicità evangelica fa moltissima fatica a penetrare nella prassi della chiesa e lo provano i tanti interventi “clericali” che criticano Duilio Albarello in nome di una presunta ed antievangelica sacralità del prete.
Per me la questione è molto semplice: se vuoi essere laico non diventi sacerdote e se vuoi diventare sacerdote non sei più laico, per definizione stessa di sacerdote, perché come dice il buon vecchio Aristotele una cosa o è o non è, non può essere e non essere nello stesso momento.
Per me , pure Chiara, al contrario siamo tutti “sacri” in nome del nostro battesimo e della nostra appartenenza alla famiglia umana. Il sacro, l’essenziale, il profondo, come dice Simone Weil, abita in ogni uomo . Nessuno ne è depositario in assoluto ! I preti avrebbero proprio bisogno di scendere dall’altare e sedersi con gli altri per riscoprire la bellezza di essere “umanità in cammino” . Forse sarebbero meno “separati” ma più umani, credibili e rispettati .
Giustissimo: è un’unica “umanità in cammino”, senza separazioni.
Interessante l’accostamento del prete secolare al laico. Quando prego con la Liturgia delle Ore, mi viene spesso in mente che si chiamava Breviario, ovvero una riduzione della preghiera dei monaci: anche per la preghiera non è stato pensato qualcosa di specifico per il prete secolare, come se fosse una specie di monaco.
Mi piacerebbe sapere in quale libro ha letto l’Autore che l’ Ordine Sacro e il Battesimo, prima del Concilio, erano in qualche modo contrapposti. È chiaro che tutti i cristiani, chierici e laici, sono dei battezzati, ma è altrettanto dottrina certa che la Chiesa è composta da due generi di Cristiani:”Duo sunt genera Chirstianorum: clerici e laici” insegnava già Graziano, certamente non introducendo lui questa ripartizione, ma recependola dalla Tradizione, che ha da sempre conosciuto sacerdoti (Vescovi e presbiteri), e ministri (diaconi, suddiaconi e chierici in minoribus).
La Chiesa è stata così voluta da Gesù benedetto, che ha istituito i sette sacramenti tra cui l’ Ordine Sacro, che è più della sua funzione, è una consacrazione per il servizio all’ Altare che predispone alla cura pastorale del Popolo di Dio.
E questa consacrazione necessita evidentemente una vita più esemplare e più strettamente conformata a Cristo Sacerdote, e capo della Chiesa.
Bene dunque che il clero senta sempre di più, altro che meno, la sua vocazione come un impegno a vivere distaccato dalle vanità del mondo, che inesorabilmente passano e siano profeticamente inclini alle cose di Dio, attendano alla propria santità e a quella delle persone loro affidate, vivano la castità come segno della preminenza delle cose del Cielo, vestano con umile sobrietà l’ abito conforme al loro stato, che li distingue ed indica ministri di Dio e in molti casi li difende da situazioni pericolose.
In breve: che i preti facciano i preti ed i laici facciano i laici! L’ordine, la fedeltà ai doveri di stato, la giustizia di dare a ciascuno il suo e la Carità fraterna e per i preti paterna verso gli altri sono i mezzi più efficaci perché la Chiesa possa ottemperare alla sua missione: portare a tutti efficacemente la salvezza, che il Signore ha acquistato in croce.
Francesco era troppo avanti.. Troppe persone, almeno in Italia, vivono il cristianesimo come una religione culturale. Quello che hai mirabilmente descritto dovrebbe essere il presente, e Francesco in modo molto profetico ha indicato quella direzione. La Chiesa però è molto indietro di 200 anni, diceva Martini. Queste proposte sono accolte come assurde oggi ma un domani sarà la normalità.
Oggi.. frequentando più di una chiesa.. in quanto facenti parte di una comunità pastorale.. ho il dono e la possibilità di sentire lo Spirito.. la Presenza Divina nell’una o nell’altra.. o nell’altra ancora.. in maniera diversa.. .. .. .. molto dipende dal nome.. dal titolo con cui vengono nominati la comunità pastorale e i singoli templi.. e quindi dalle raffigurazioni.. dalle immagini.. dalle sculture.. che operano.. intensamente e all’oscuro dei laici e dei presbiteri.. più è vuoto.. povero.. il tempio.. tanto più è libero lo Spirito Santo di volteggiare.. sussurrare.. operare silenziosamente il Bene. Vedo nel tempio del Sacro Cuore dove è raffigurata la S. Trinità.. icona bizantina del Signore e i due Angeli attorno alla mensa di Abramo.. imperare la Sacralità.. la Presenza del Padre del Vecchio Testamento.. con rigore e vigilanza. Vedo nel tempio di San Giuseppe.. in un luogo povero di rappresentazioni.. operare la Misericordia Divina.. con mitezza e perdono.
Ho potuto intuire e intravedere queste differenze nei fatti.. negli incontri.. perché il mio cuore cerca instancabilmente il Risorto.. anche in un’immagine.. una scultura.. per poterLo contemplare e averNe i benefici nell’anima. Lo cerco in chiesa e fuori della Chiesa.. so che il Signore Gesù bussa.. non solo per entrare ma anche per uscire.. oggi soprattutto per uscire in strada.. sì.. cerca le persone che non entrano più in chiesa.. che non sono mai entrate.. soprattutto i giovani.. bambini che hanno creduto e poi piano piano.. crescendo.. hanno abbandonato la Chiesa.. oppure hanno subito l’Abbandono.. Occorre fare tanto esercizio per riconoscerLo.. con umiltà.. nelle persone semplici.. persino nelle figure femminili tanto devastate e temute.. Oggi si respira un’aria nuova..
Intervento davvero molto interessante. Forse i presbiteri (tutti, indistintamente) dovrebbero ricordarsi che, ancor prima di essere preti, sono battezzati e il loro ministero è a favore dei battezzati. La teologia non ha ancora messo in luce il rapporto tra questi due sacramenti: Battesimo e Ordine sacro.
Negli anni si è parlato così tanto del Concilio Vaticano II, che alcuni rischiano di tralasciarlo, sostituendone l’insegnamento con idee peggiori. Non credo sia da studentessa pedante invitare a rileggere Presbyrerorum Ordinis, Christus Dominus e Lumen Gentium (10, in particolare). Le proposte dell’autore sono lì già declinate, e in modo non equivoco
Eh ma quel che c’ e’ scritto realmente nei documenti del Concilio molti non l’hanno mai letto .basta il “sentito dire” . Nei documenti sulla Liturgia c’ e: scritto che il latino rimane la lingua liturgica della Chiesa ,eppure …..
Costoro reputano più importante lo ‘spirito’ del Concilio rispetto a quanto il Concilio ha scritto e quindi si permettono di interpretare, fare voli pindarici senza una solida base magisteriale.
Da quel che leggo mi sembra che l’autore dell’articolo sia un prete studiato, che non è stato ancora capace di fare sintesi tra libri e vita pastorale, tra l’università nella quale insegna e Chiesa in uscita, dove non è presente. Quindi abbiamo davanti a noi un uomo che predica bene, ma razzola male… L’ideale “francescano” che propone non è applicabile al clero in Italia (forse in America del Sud e in altre zone di missione), perché è avulso dalla realtà ecclesiale nazionale e dagli intendimenti del Vaticano II.
La predicazione “francescana” sul prete clericale e abusante ha fatto solo del male alla Chiesa, allontando le possibili vocazioni, dubito che i seminari nel prossimo futuro si riempiranno. Quindi basta prediche sui preti che non esistono e basta teologi in giro a predicare… Mandiamoli tutti a riempire i posti lasciati vuoti dai preti sacrali del passato.
Nonostante il magistero papale il mio parroco continua a comandare, a disporre dei laici a suo piacimento, a stare chiuso in canonica e rigido sulle sue anacronistiche posizioni, a non celebrare le messe feriali senza concorso di popolo… Ecco un bell’esempio del moderno prete secolarizzato!
Ottima chiosa Signor Giuseppe!
Quello che ha scritto sintetizza mirabilmente i contenuti e il tempo che si è voluti riservare all’articolo in commento.
Si potrebbero poi fare tante riflessioni sugli ambienti dove nascono certe riflessioni, per non dire quali siano le cause delle problematiche che vengono rilevate nell’articolo: le cause trovano la loro origine (o il loro “acme”) in atteggiamenti ben palesatisi a partire da poco più di 60 anni fa.
Da qui l’aridità delle conseguenti iniziative e, coerentemente con lo spirito dell’articolo, il progressivo incedere verso l’autodistruzione della Chiesa Cattolica … per andare verso il nulla!
Con queste riflessioni, l’articolo ha come orizzonte il nulla ….
Povere pecore: il loro odore non lo conosce nessuno!
La Missione affidata da Cristo alla Sua Chiesa è la custodia della Fede e la Salvezza delle Anime. Tutto il resto è mero flatus vocis e sfocia nel clericalismo borghese di una chiesa in uscita che non sapendo più da dove viene non sa neanche dove andare
Condivido totalmente il commento del signor Enzo Fortunato. Da fedele laico sono rimasto molto perplesso nel leggere questo articolo, che mi ha lasciato una profonda tristezza nel constatare che probabilmente l’autore (ahimè egli stesso un presbitero), ha probabilmente perso la Fede. Prego per lui che ritrovi luce e chiarezza in tempi non facili.
Nulla di nuovo potrà mai essere detto e neppure pensato se ogni affermazione deve collimare perfettamente con quanto è stato già detto. Pensare qualcosa di nuovo comporta la fatica e il rischio di andare “oltre”. Ma qualcuno che prova orrore al solo pensare qualcosa che si discosti dal già detto assisterà impotente al dissolversi di un modello ecclesiale sempre più estraneo alla storia , alla vita e alla cultura del nostro tempo. Il concilio ha provato ad indicare delle possibili strade ma sembra aver suscitato solo orrore e scandalo. E’ mai possibile ? Facciamo per favore uno sforzo per pensare e discernere comunitariamente (sinodalmente) la chiesa che immaginiamo e speriamo. Grazie all’autore per questo contributo.
Il prete e’ un uomo di Dio, chiamato a testimoniare la verita’ nella carita’. Innamorato di Dio, accompagna ogni fratello, credente o meno, verso l’incontro con il Padre. Ama gli uomini perche’ prima e sopratutto ama Cristo. E ricorda che la salvezza dell’anima precede e supera quella del corpo, nella consapevolezza che il centuplo sulla terra e’ solo un riflesso parziale della vita eterna . Tutto il resto sono chiacchiere confuse e mondanita’ secolare…
È evidente che l’autore di questo scritto non conosce “profondamente” il senso della Vita tracciata in modo inequivocabile da Gesù Cristo.
Si fa avvolgere dalla tentazione di una visione di CRISTO e della Chiesa a sua immagine e somiglianza. In tanti, nel corso dei secoli e nei ultimi decenni fantasticano su visioni ASTRATTE della VITA CRISTIANA. Il cammino di CONVERSIONE è uno stato di ASCESI, di distacco dal MONDO per correre verso il CIELO. Se non è chiaro questo concetto tutto il resto è VANITÀ.
Si cita il Concilio per ritenere frutto dell’epoca di cristianità una concezione dell’identità presbiterale come “prete sacrale, sacerdote, uomo del sacro, una sorta di essere angelicato, ecc. Ora io leggo nel Decreto Conciliare “PRESBYTERORUM ORDINIS” ; “D’altra parte, questa carità pastorale scaturisce soprattutto dal SACRIFICIO EUCARISTICO, il quale risulta quindi il centro e la radice di tutta la vita del Presbitero, cosicché lo spirito sacerdotale si studia di rispecchiare ciò che viene realizzato sull’altare.” Eliminare il riferimento al SACRO, parlando del presbitero, non riflette la linea teologico-pastorale indicata dal Concilio. A meno di non riconoscere che i vari documenti conciliari, nella loro prolissità, finiscono per risultare, anche su questa materia, fra loro in contraddizione. Anomalia che andrebbe sanata, onde evitare sconcerto e divisioni fra i fedeli.
Dopo il concilio vaticano2 , la Chiesa,oltre adessere in questo mondo , e’ stata fatta diventare inquesto mondo.
Infatti si abbandono’ il Latino nella Liturgia, perfino l’altare venne girato voltando le spalle al Tabernacolo.
Spiace dirlo, ma la Chiesa si volse verso le teorie socialiste accetto’ senza riserve. Preti operai, messe beat etc.
Il peggior nemico per la Chiesa viene sempre dal suo interno.
Vero: questo nemico sarà sicuramente entrato grazie a qualche “cavallo di Troia” …
Precisiamo, secondo il diritto canonico laico e secolare son due cose distinte. Il prete è o secolare o religioso, che vuol dire che nel primo caso fa parte di una diocesi oppure, nel secondo caso, di un istituto religioso. I religiosi sono o parte del clero oppure no, che vuol dire che o sono del clero oppure laici. La distinzione è Clero e Laos da cui il termine laici che vuol dire il popolo, ovvero tutti quelli che non sono parte del clero, e tra Secolari e Religiosi, i primi sono quelli che non vivono una regola i secondi quelli che la vivono. Non è la stessa cosa. Attenzione!