Il prete, meno “sacrale” e più “laico”

di:

prete

Il titolo di questo mio intervento gioca sul significato che possiamo attribuire alla espressione “prete secolare”.

Di per sé, si tratta di una formula tecnica, che nel Diritto canonico si usa per distinguere i preti che fanno parte del presbiterio diocesano da quelli che sono inseriti invece in un ordine religioso. Tuttavia, il mio intento è quello di intravedere un senso assai più profondo e intrigante di questa espressione. “Secolare”, infatti, è un aggettivo, che porta in sé il rimando al saeculum, ovvero il tempo della storia, con le sue esigenze e le sue urgenze.

Allora, nella prospettiva teologica che vorrei indicare, la definizione “prete secolare” si potrebbe riferire a un ideale di presbitero, che non è chiamato a cercare la sua identità e la sua missione fuori dal mondo, sopra o accanto all’esperienza comune degli uomini e delle donne che vivono sotto il cielo, bensì proprio dentro questo mondo e dentro quest’esperienza.

Certo, «nel mondo ma non del mondo», per citare le parole di Gesù in Giovanni 17,16. Dunque, un prete presente alla storia e, insieme, testimone di una maniera singolare di abitarla. Per altro, come è chiamato ad essere ogni discepolo fedele del Signore.

Lo stile del “prete secolare” è quello di chi annuncia la novità dell’Evangelo condividendo le condizioni e le difficoltà delle persone comuni, affiancandole nel loro cammino di esistenza, muovendosi appunto tra comunità e società.

Evidentemente qui è in ballo una maniera alternativa di rappresentare e di attuare l’identità presbiterale, rispetto alla figura del “prete sacrale”, che si è affermata nell’epoca della cristianità. Il “prete sacrale” è il modello del “sacerdote” come uomo del sacro; una sorta di essere angelicato sospeso tra cielo e terra, custode di riti arcaici, depositario di tradizioni immutabili e maestro di dottrine indiscutibili. L’aspetto più interessante da evidenziare è che il prete sacrale simboleggia un ideale di ministro ordinato, che ritaglia i contorni della sua fisionomia pastorale e spirituale sullo schema della consacrazione religiosa, considerata come lo “stato di perfezione” per eccellenza.

Tuttavia, proviamo a domandarci: e se, invece, la forma emblematica dell’esistenza cristiana non fosse quella della consacrazione religiosa, bensì fosse proprio quella della condizione laicale, precisamente con la sua «indole secolare», come sottolinea il Concilio Vaticano II?

Di conseguenza, e se la perfezione della fedeltà allo stile di Gesù – lo stile dell’incarnazione – fosse proprio da ricercare nell’esperienza di chi si impegna a portare avanti il corso ordinario della vita secondo l’ispirazione evangelica? Allora non si dovrebbe ricalibrare anche l’identità specifica del prete, spostandola sul versante della figura del laico, piuttosto che su quella del religioso?

Qui si aprirebbero delle prospettive davvero inedite, che permetterebbero di rimettere in discussione non solo l’obbligo del celibato ecclesiastico, bensì, a mio avviso, anche l’impedimento per le donne di accedere al ministero ordinato. Non intendo però inoltrarmi in temi così complessi, che richiederebbero molto tempo per essere affrontati con la completezza e la profondità necessarie.

Lo stile testimoniale del presbitero per una Chiesa in uscita

La pista che seguirò sarà, invece, quella di provare a verificare in quale misura già adesso, con le attuali disposizioni dottrinali e canoniche, sia possibile ripensare la figura del presbitero guardando nella direzione del “prete secolare”, secondo il significato che ho cercato di spiegare. Per raggiungere questo obbiettivo, ho pensato di fare una semplice ricerca sulla figura del presbitero nel magistero di papa Francesco, considerato che, per quanto riguarda il magistero di papa Leone, non c’è ancora materiale sufficiente circa questo tema.

Ho concentrato l’attenzione in particolare su due punti: ossia, lo stile testimoniale del presbitero per una Chiesa in uscita; la relazione presbiteri-laici fra clericalismo e corresponsabilità. Infine, proporrò una mia considerazione conclusiva su un aspetto che mi sembra tendenzialmente trascurato dal magistero di papa Francesco, ovvero il legame tra la presidenza pastorale e la competenza teologica. Spero di riuscire a mostrare che, nel suo insieme, la visione del presbitero di papa Francesco si avvicina molto alla fisionomia di quello che chiamo il «prete secolare».

Bisogna premettere che, nel magistero di papa Francesco dedicato alla figura del prete, non riscontriamo la preoccupazione di offrire una definizione dottrinale e sistematica di chi è il presbitero secondo la prospettiva cattolica. Piuttosto, l’approccio seguito è sempre di tipo pratico e sapienziale: l’interrogativo sulla figura del presbitero trova risposta nel rimando ad una narrazione, che rilegge l’esperienza effettiva alla luce della Parola di Dio e della situazione ecclesiale concreta.

Questo – sia chiaro – non rende affatto l’insegnamento di Francesco semplicemente aneddotico, improvvisato, come invece alcuni gli hanno spesso contestato. Al contrario, dai diversi interventi – tassello dopo tassello – emerge un mosaico coerente, che si basa sull’impegno di tenere sempre in stretta correlazione la sostanza e la forma, o – se preferiamo – il contenuto e il vissuto dell’identità presbiterale.

Da questo mosaico, propongo di estrarre due tessere, che mi sembrano centrali, perché ci permettono di cogliere il tutto nel frammento: le due tessere – come ho accennato nell’introduzione – sono lo stile del presbitero e il suo rapporto con il laicato.

Le forme dello stile: cercare, includere, gioire

Per quanto riguarda lo stile, proprio per confermare l’approccio pratico adottato da Francesco, mi soffermo su due triadi di verbi, che ci indicano l’“essere” del presbitero a partire dal riferimento al suo “fare”.

La prima triade richiama le forme dello stile presbiterale, mettendo insieme queste operazioni: cercare, includere, gioire. Francesco ne parla durante l’omelia tenuta a giugno del 2016 nel contesto della messa in occasione del Giubileo dei presbiteri.

  • Il verbo “cercare” è il più importante dei tre, perché mette subito in campo la prospettiva ecclesiale dell’“uscire”.

Quando papa Francesco parlava della Chiesa in uscita, non voleva proporre un’etichetta da appiccicare su di un contenitore, senza cambiare in nulla il suo contenuto. Al contrario, l’intento era quello di sollecitare un cambiamento in profondità, che può essere sintetizzato così: uscire dagli schemi abituali, in gran parte non più funzionanti, nella misura in cui rimangono legati al contesto di “cristianità” che li aveva prodotti; uscire nella realtà complessa di oggi, con i suoi molti limiti ma anche con le sue molte risorse; uscire verso una maniera di realizzare la fede cristiana, da intendere come l’esperienza e la testimonianza di una buona notizia per la vita.

Ora, il movimento dell’uscire diventa quello che dovrebbe caratterizzare di più l’essere e l’agire del prete, secondo Francesco. Cito un passaggio dell’omelia:

«Se il pastore non rischia, non trova. [Il pastore] non si ferma dopo le delusioni e nelle fatiche non si arrende; è, infatti, ostinato nel bene, unto della divina ostinazione che nessuno si smarrisca. Per questo non solo tiene aperte le porte, ma esce in cerca di chi per la porta non vuole più entrare. E come ogni buon cristiano, e come esempio per ogni cristiano, è sempre in uscita da sé. L’epicentro del suo cuore si trova fuori di lui: è un decentrato da sé stesso, centrato soltanto in Gesù. Non è attirato dal suo io, ma dal Tu di Dio e dal noi degli uomini».

È in questo contesto che – a mio avviso – si capisce il senso di una metafora, che papa Francesco aveva lanciato durante l’omelia della sua prima messa crismale, nel 2013, ossia la metafora del pastore con «l’odore delle pecore».

Questa immagine ha suscitato parecchi commenti ironici, ma il suo significato, in realtà, non è affatto banale. Infatti, ci ricorda che anche per i presbiteri non basta più assumere l’atteggiamento delle sentinelle, che, rimanendo dentro la fortezza, osservano dall’alto e giudicano ciò che accade attorno. Adesso la sfida è coltivare l’attitudine degli esploratori, che si espongono, si mettono in gioco in prima persona, correndo il rischio di sporcarsi le mani e di ferirsi.

I pastori con l’odore delle pecore sanno che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza coinvolgimento, e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere fuori, perché l’ambiente vitale della Chiesa è il “fuori”: sono le periferie esistenziali e sociali, dove si incontrano gli uomini e le donne così come sono e non invece come vorremmo che fossero, in base alle nostre precomprensioni dottrinali e morali.

  • Qui, allora, intuiamo che l’operazione del cercare si prolunga e si precisa in quella dell’“includere”.

Oggi, per la verità, dal punto di vista culturale e sociale, tende ad ottenere più approvazione la scelta dell’escludere piuttosto che quella dell’includere. Se ci pensiamo, per il nostro immaginario collettivo, spesso l’altro sembra avere il volto minaccioso dell’antagonista o addirittura del nemico, piuttosto che il volto promettente dell’alleato o del fratello. Così diventa quasi ovvio ritenere che l’altro con la sua diversità di nazione, di convinzione, di genere e di religione, sia colpevole di esistere sino a prova contraria, la quale ovviamente è sempre impossibile, appunto perché l’altro esiste così com’è, esiste nella sua differenza irriducibile, insopprimibile.

Allora, c’è davvero bisogno più che mai di promuovere una cultura dell’inclusione e del dialogo; una cultura, che nasce soltanto se molti si rendono disponibili a fare un atto coraggioso di fiducia verso gli altri, anche a costo di esporsi all’incomprensione e al fallimento.

Secondo papa Francesco, il presbitero prima di tutti dovrebbe sentirsi chiamato a questo atto di fiducia. Cito ancora dall’omelia del giubileo presbiterale:

«Il sacerdote di Cristo è unto per il popolo, non per scegliere i propri progetti, ma per essere vicino alla gente concreta che Dio, per mezzo della Chiesa, gli ha affidato. Nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua preghiera e dal suo sorriso. Con sguardo amorevole e cuore di padre accoglie, include e, quando deve correggere, è sempre per avvicinare; nessuno disprezza, ma per tutti è pronto a sporcarsi le mani. Il Buon Pastore non conosce i guanti. Ministro della comunione che celebra e che vive, non si aspetta i saluti e i complimenti degli altri, ma per primo offre la mano, rigettando i pettegolezzi, i giudizi e i veleni. Con pazienza ascolta i problemi e accompagna i passi delle persone, elargendo il perdono divino con generosa compassione. Non sgrida chi lascia o smarrisce la strada, ma è sempre pronto a reinserire e a comporre le liti. È un uomo che sa includere».

Insomma, si tratta di diventare maggiormente capaci di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e con la sua potenza di autentica umanizzazione.

A me piace dire che l’incontro con altri per testimoniare la buona notizia della salvezza, se non intende correre il rischio di rimanere un contatto superficiale, deve accadere sempre volta per volta, e volto per volto. Solo così ognuno può davvero sperimentare che, attraverso il rapporto con il Dio di Gesù, riceve in dono la forma e la forza di una vita buona e bella.

  • Questa capacità di includere per evangelizzare richiede che lo stile del ministero presbiterale sia segnato dal “gioire”.

Bisogna precisare subito che questo gioire non ha nulla da spartire con l’imperativo del godimento, che è diventato la parola d’ordine di una visione individualistica e autoreferenziale della vita.

Il modello della gioia di cui stiamo parlando è individuato da Francesco nella figura del Buon Pastore; cito ancora direttamente le sue parole:

«La gioia di Gesù Buon Pastore non è una gioia per sé, ma è una gioia per gli altri e con gli altri, la gioia vera dell’amore. Questa è anche la gioia del sacerdote. Egli viene trasformato dalla misericordia che gratuitamente dona. Per questo è sereno interiormente, ed è felice di essere un canale di misericordia, di avvicinare l’uomo al Cuore di Dio. La tristezza per lui non è normale, ma solo passeggera; la durezza gli è estranea, perché è pastore secondo il Cuore mite di Dio».

A questo proposito, durante la messa crismale del 2014, papa Francesco parla esplicitamente di una «gioia sacerdotale», alla quale attribuisce tre caratteristiche specifiche.

Anzitutto, è una gioia che «unge», perché è collegata all’unzione ricevuta nell’ordinazione presbiterale: quindi non è una pura condizione psicologica o caratteriale, ma è piuttosto una dotazione sacramentale, che, proprio per questo, viene a configurare in maniera profonda l’interiorità di chi la riceve.

In secondo luogo, è una gioia «incorruttibile». Proprio perché il suo fondamento non è legato ad uno stato d’animo, ma al dono di un’unzione che penetra fino alle ossa, coincide con quella gioia che niente e nessuno può togliere, in quanto è il frutto del rimanere in comunione con Cristo tramite lo Spirito (cf. Gv 16,22). Quindi, questa gioiosità può essere addormentata o soffocata dal male e dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace sotto le ceneri, e può essere sempre riaccesa.

Infine, si tratta di una gioia «missionaria». Non solo perché si esprime in particolare quando il prete sta in mezzo al Popolo di Dio per annunciare e confermare, per benedire e consolare. Ma anche perché il Popolo di Dio non manca di restituire centuplicata questa gioia, quando fa esperienza di riceverla proprio da un presbitero che davvero si prende cura con generosità della comunità che serve.

Le condizioni dello stile: pregare, camminare, condividere

La prima triade di verbi ci ha richiamato le forme dello stile testimoniale del presbitero.

La seconda triade, che prendiamo in considerazione, puntualizza le condizioni che rendono possibile questo stesso stile. I tre verbi qui sono: pregare, camminare e condividere. Papa Francesco li indica nel discorso alla assemblea plenaria della Congregazione per il clero nel giugno del 2017.

  • La preghiera costituisce la condizione fondamentale, perché riguarda la figura concreta che assume la relazione profonda con Dio attraverso Gesù Cristo nello Spirito.

Il papa ne parla così nel suo discorso: «La preghiera, la cura della vita spirituale, danno anima al ministero, e il ministero, per così dire, dà corpo alla vita spirituale: perché il prete santifica sé stesso e gli altri nel concreto esercizio del ministero, specialmente predicando e celebrando i Sacramenti».

Questo è un aspetto su cui Francesco insiste molto: il prete non ha bisogno di cercare una spiritualità diversa da quella che prende forma nell’esercizio del ministero, come se il suo servizio rappresentasse soltanto una funzione, una prestazione, e quindi dovesse attingere da una fonte esterna la linfa per nutrire la vita. Quando si cade in questa trappola, si finisce di passare da un metodo spirituale all’altro; così c’è il rischio di diventare «pelagiani», come dice Francesco, ossia si fa conto sulle tecniche proposte da quel gruppo o da quel movimento più che sul potere della grazia. Un potere che si attiva e cresce nella misura in cui il prete, realizzando i diversi aspetti del suo ministero, si lascia coinvolgere in prima persona per donare il Vangelo a chiunque.

Questo vale soprattutto in riferimento alla celebrazione dei sacramenti e in modo particolare dell’eucaristia, che rimane la forma più elevata di preghiera personale e comunitaria.

Infatti, il dono e il compito di presiedere l’eucaristia senza dubbio è ciò che definisce maggiormente il ministero del presbitero, anche se non lo esaurisce. In effetti, il ministero ordinato richiede svariati servizi; ma tutti trovano la loro radice e il loro senso nella presidenza dell’eucaristia, come memoriale della presenza operante di Gesù crocifisso e risorto.

Se volessimo parafrasare una nota formula teologica, potremmo affermare con buone ragioni che la Messa “fa” il ministro ordinato, prima ancora e affinché possa “essere fatta” da chi la celebra per e con la comunità cristiana.

  • Dopo la preghiera, la seconda sorgente da cui scaturisce lo stile testimoniale del presbitero è il “camminare”.

A questo aspetto Francesco dedica parole molto suggestive nel discorso che stiamo ripercorrendo; parole che meritano di essere citate direttamente:

«Un prete non è mai “arrivato”. Resta sempre un discepolo, pellegrino sulle strade del Vangelo e della vita, affacciato sulla soglia del mistero di Dio e sulla terra sacra delle persone a lui affidate. Mai potrà sentirsi soddisfatto né potrà spegnere la salutare inquietudine che gli fa tendere le mani al Signore per lasciarsi formare e riempire. Perciò, aggiornarsi sempre e restare aperti alle sorprese di Dio! Infatti, in ogni ambito della vita presbiterale è importante progredire nella fede, nell’amore e nella carità pastorale, senza irrigidirsi nelle proprie acquisizioni o fissarsi nei propri schemi».

Questo è un punto in cui si coglie con particolare evidenza come nel magistero di Francesco – se li si vuole vedere – si ritrovano davvero tutti i presupposti per passare dalla figura del “prete sacrale – a quella del “prete secolare”, il quale è sollecitato ad aggiornarsi in sintonia con la comunità ecclesiale, in quanto non possiede un’identità statica, ma dinamica.

Non a caso, papa Francesco, a partire dall’esortazione Evangelii gaudium, ha voluto riprendere e rilanciare l’obiettivo dell’“aggiornamento” additato dal Concilio Vaticano II, affinché la testimonianza della Chiesa possa essere davvero all’altezza del giorno che viene, e abbia la capacità di “uscire” una volta per tutte dalle sabbie mobili della cristianità perduta.

Senza dubbio, la fede cristiana prende seriamente in conto la questione della provenienza, cioè il “da dove” veniamo, quindi la memoria di ciò che ci precede. Tuttavia, questo non significa ridurre la Tradizione ad un museo immutabile da conservare e da restaurare. Al contrario, l’incarico della Chiesa come Popolo di Dio è di custodire e di coltivare la memoria della provenienza, mantenendo legati insieme, in modo fecondo, continuità e trasformazione.

Davvero, nulla è più lontano dal Vangelo di Gesù Cristo che intendere il rapporto credente con Dio come un alibi per non affrontare la realtà complessa di oggi con fiducia e con determinazione, appunto attraverso un autentico cammino che ci porta ad essere all’altezza del giorno che viene.

  • Infine, la terza condizione di possibilità per realizzare lo stile testimoniale del presbitero è espressa dal verbo “condividere”.

Durante il discorso alla Congregazione per il clero, papa Francesco precisa il tema in questo modo:

«La vita presbiterale non è un ufficio burocratico né un insieme di pratiche religiose o liturgiche da sbrigare. Abbiamo parlato tanto del “prete burocrate”, che è “chierico di Stato” e non pastore del popolo. Essere preti è giocarsi la vita per il Signore e per i fratelli, portando nella propria carne le gioie e le angosce del Popolo, spendendo tempo e ascolto per sanare le ferite degli altri, e offrendo a tutti la tenerezza del Padre».

Il papa ha affrontato questo aspetto anche in un’altra occasione, ossia nell’omelia per la messa del crisma nel 2018, tutta dedicata al tema della “vicinanza”, che viene messa in rapporto con la logica e la pedagogia dell’incarnazione.

In effetti, la buona notizia, che sta al centro della testimonianza di Gesù, è proprio che «il Regno di Dio si è avvicinato»: ossia, attraverso la presenza di Gesù, è offerta a tutti la possibilità di realizzare un rapporto con Dio, che diventa luce e forza per portare avanti con fiducia il cammino della vita.

Per questo la vicinanza – come dice il papa – è «l’atteggiamento-chiave dell’evangelizzatore»: infatti, dà concretezza a quello che Gesù stesso definisce «il suo comandamento», ossia l’amore vicendevole, la dedizione che implica la reciprocità, ma è capace di spingersi oltre, fino al limite di un dono di sé che diventa incondizionato e senza contraccambio.

Gesù interpella i suoi ad “essere memoria” di un amore così, perché questa è la sua novità; una novità, che non ammette di essere soltanto predicata, ma richiede prima ancora di essere praticata. In effetti, solo una vita che abbia davvero il sapore di una dedizione «sino alla fine», è in grado di mostrare a chiunque in maniera credibile quale sia la forma di un’esistenza secondo l’intenzione di Dio. Questo vale per tutti i battezzati, e proprio per questo non può non interpellare direttamente il prete e il suo ministero pastorale.

Non basta ripetere in maniera retorica che il ministro ordinato è un «alter Christus». Anzi, questa affermazione rischia di diventare un atto di superbia, che addirittura ci condanna, se poi le nostre parole, le nostre scelte, i nostri atteggiamenti, il nostro stile smentiscono nei fatti la consegna di “essere memoria” di Lui.

Qui il tema del condividere si riallaccia a quello del pregare: affinché la vicinanza del presbitero sia davvero una testimonianza efficace della presenza di Cristo, è indispensabile che il prete si lasci sul serio definire e plasmare da quel mistero più grande, che gli viene incontro ogni volta nel memoriale dell’eucaristia. Infatti, solo facendo autenticamente memoria nel rito possiamo essere credibilmente memoria anche nella vita.

Il rapporto preti-laici, fra clericalismo e corresponsabilità

A questo punto, vorrei soffermarmi in maniera più breve sulla seconda tessera, che estraggo dal mosaico del magistero di papa Francesco che tratteggia i lineamenti del presbitero.

Si tratta di prendere in considerazione la questione del rapporto tra presbiteri e laici nell’ambito della comunità ecclesiale. Francesco affronta in modo particolare il tema nella Lettera al Presidente della Pontificia commissione per l’America Latina pubblicata nel 2016.

La prima sottolineatura prende ispirazione da Lumen gentium e riguarda la comune vocazione battesimale, che unisce in maniera profonda i ministri ordinati e i fedeli laici. Francesco scrive:

«La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è un’élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».

I rischi e le deformazioni, a cui si riferisce Francesco, trovano, secondo lui, una sintesi emblematica nel fenomeno del clericalismo. Il risvolto più problematico di questo fenomeno patologico è proprio la rimozione della consapevolezza che «la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cf. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati».

In effetti, l’esercizio della presidenza autorevole, che spetta ai vescovi e ai presbiteri, implica di per sé il compito di abilitare e discernere un’attività testimoniale, che richiede di essere portata avanti da una molteplicità di soggetti. Dunque, la presidenza di necessità rimanda ad una collaborazione responsabile, in cui sono chiamati in causa a pieno titolo battesimale anche i laici e le laiche.

Senza dubbio, una certa tradizione, che, grosso modo, è durata dal ’700 fino alle soglie del Vaticano II, ci ha consegnato un modello di Chiesa in cui il ruolo dei laici è tendenzialmente confinato a quello della supplenza: dove non arrivano i Pastori, allora si apre lo spazio per l’attività dei laici, che, in buona sostanza, non avrebbero altra funzione se non quella di fare da “protesi” a disposizioni dei pastori.

Come sappiamo, il Vaticano II ha chiesto con forza che questo modello della supplenza fosse superato. Non è un caso che, nella costituzione sulla Chiesa, il capitolo dedicato al Popolo di Dio è stato posto prima degli altri capitoli dedicati più specificatamente ai pastori, ai laici e ai religiosi.

Questa scelta sta ad indicare che, a monte di qualunque differenza, c’è da riconoscere una condizione comune a tutti, che è quella di essere membri del Popolo di Dio, nel quale stanno insieme pastori, laici e religiosi e al quale, nel suo complesso, è affidata la responsabilità per l’evangelizzazione e la missione, pur nella diversità dei ruoli e delle competenze.

Dunque, non si dovrebbe più parlare di supplenza, ma di corresponsabilità per l’azione pastorale, dove i laici e le laiche sono coinvolti allo stesso titolo dei pastori, anche se con ruoli e con competenze diverse, nella prospettiva di una Chiesa davvero in cammino sinodale.

Papa Francesco poi rimarca che, quando parliamo di collaborazione e di corresponsabilità, non ci riferiamo soltanto all’impegno della catechesi, dell’animazione liturgica, dell’attività caritativa, e così via. Senza dubbio è ancora più fondamentale un’altra maniera di essere corresponsabili della missione della Chiesa, ossia quella che si gioca nell’impegno di testimonianza evangelica che ognuno vive al di là degli ambienti strettamente ecclesiali: in famiglia, nella scuola, sul lavoro, nelle varie forme della vita civile, nel tempo a disposizione. Come scrive il papa:

«Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi».

In fondo, il limite principale del clericalismo è quello di presupporre che l’evangelizzazione e l’umanizzazione costituiscano di per sé due realtà destinate a nascere e a rimanere distinte. Quasi che l’impegno religioso e l’impegno sociale camminino per forza su binari differenti e paralleli, che si incontrano solo su determinati punti e in determinati momenti, per poi riprendere a viaggiare l’uno di fianco all’altro.

Papa Francesco cerca di superare questo limite nel capitolo quarto di Evangelii gaudium, dove, al n. 177, scrive con tutta chiarezza: «Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri».

Dunque, per Francesco la missione evangelizzatrice non solo fa spazio alla dimensione umanizzante, ma la implica in modo costitutivo. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che l’evangelizzazione autentica è umanizzazione integrale, nel senso più profondo di questa espressione. È proprio in particolare a questo livello che i laici e le laiche sono chiamati ad esercitare in pieno la loro corresponsabilità battesimale.

Presidenza pastorale e competenza teologica

Concludo facendo ancora qualche veloce considerazione sul tema del rapporto tra presidenza pastorale e competenza teologica; un aspetto che ho trovato poco presente nel magistero di papa Francesco dedicato alla figura del presbitero, ma che ritengo indispensabile per disegnare l’identità del “prete secolare”.

Come premessa, mi pare importante sottolineare che ancora oggi sono duri a morire due pregiudizi micidiali: una concezione intellettualistica della teologia e una visione attivistica della pastorale. Questi però sono appunto soltanto pregiudizi. In effetti, se per “pastorale” intendiamo le differenti forme concrete, grazie alle quali la comunità ecclesiale si prende cura della buona qualità della fede nel Vangelo, allora non c’è alcun dubbio che il servizio teologico rappresenti uno degli aspetti costitutivi e immancabili di tale cura.

Sono convinto che, a sessant’anni e oltre dal Concilio Vaticano II, sarebbe il momento di abbandonare una volta per sempre queste dicotomie decisamente sterili tra riflessione teologica e pratica pastorale.

È vero che un esercizio della teologia che fosse privo della sua dimensione pastorale (o meglio ecclesiale) rischierebbe di ridursi alla costruzione artificiosa di un sistema chiuso in sé stesso. Ma è altrettanto vero che un’attuazione della pastorale che fosse privata della sua dimensione teologica finirebbe di esaurirsi in una pura ripetizione di operazioni, considerate così usuali che spesso non ci si accorge neppure più di quanto ormai siano divenute usurate. In entrambi i casi, a perderci è la Chiesa nel suo insieme e soprattutto è la forza persuasiva della sua testimonianza.

Proprio il legame indissolubile tra evangelizzazione e umanizzazione, di cui parlavo poco fa, sfida la comunità ecclesiale a dimostrare in concreto la sua capacità di abilitare i credenti ad una fede, che sia consapevole delle attuali trasformazioni culturali e sociali, in modo da affrontarle non rimanendo sulla difensiva, ma prendendo l’iniziativa di contribuire a orientare con la sensibilità del Vangelo quelle trasformazioni stesse.

L’epoca che viviamo ci sollecita a investire risorse qualificate di intelligenza e di impegno per attivare una testimonianza che interpella, inquieta, suscita domande e alimenta speranze. Ormai da tempo non è più sufficiente garantire una pastorale di conservazione, c’è bisogno di camminare verso una pastorale “generativa”, come espressione di una Chiesa che non solo aiuti a crescere una fede già esistente, bensì, più in radice, permetta di nascere ad una fede ancora in gestazione.

Ora, dentro questo quadro ecclesiale, il ministero ordinato ha l’incarico di promuovere e accompagnare il cammino niente affatto scontato verso una pastorale generativa, che è indispensabile per accogliere e realizzare in concreto l’imperativo dell’“uscire”.

Mettersi a servizio come ministri ordinati di questo dinamismo di uscita richiede necessariamente l’acquisizione di una competenza nel campo del sapere teologico, che sia adeguata al compito della presidenza ecclesiale. Ovviamente questa competenza non è in via ordinaria quella specialistica del teologo di professione. Piuttosto, si tratta di acquisire e di padroneggiare gli strumenti teorici indispensabili per portare avanti la responsabilità di presiedere l’agire pastorale in un modo che sia teologicamente consapevole.

Mi sembra che la competenza necessaria sia in particolare quella di far incontrare il riferimento alla sacra Scrittura interpretata alla luce della Tradizione e il riferimento alla cultura elaborata nel contesto sociale in cui si vive.

Un ministro ordinato, che sia in grado di operare e di far operare questo incontro tra Scrittura e cultura, eserciterà la sua presidenza venendo riconosciuto come punto di riferimento autorevole per raccogliere e interpretare la provocazione più formidabile, che la nostra epoca lancia al compito dell’evangelizzazione. Si tratta della provocazione di mostrare che la fede in Cristo sa ancora reggere la prova della vita, in quanto mantiene la promessa di renderla pienamente, integralmente umana.

Insomma, si tratta di custodire e di curare quella che mi piace definire «l’umanità della fede», ossia la dimensione che lega i discepoli del Signore a tutti gli altri e, nello stesso tempo, li fa essere portatori di una sapienza di vita, che solo il rapporto credente con il Dio di Gesù può donare.

Ora, mettere in atto un annuncio, una catechesi, una liturgia, un vissuto comunitario che siano coerenti con la prospettiva dell’umanità della fede esige appunto di apprezzare il servizio specifico che la teologia svolge per formare le coscienze a discernere biblicamente, facendo incrociare la Parola di Dio e le parole di senso che gli uomini sanno o non sanno più pronunciare a proposito di sé stessi e del loro mondo.

Per citare una nota definizione di Pierangelo Sequeri, la teologia non è la fede dei sapienti, ma il sapere dei credenti:[1] un sapere che dovrebbe essere coltivato tanto dai pastori quanto dai laici, in una maniera proporzionata alla responsabilità che ciascuno è chiamato ad esercitare.

Per concludere, mi pare che dal nostro percorso in compagnia del magistero di papa Francesco emergano in prospettiva i lineamenti, che ci possono orientare già oggi verso la figura del “prete secolare”.

Da una parte, un presbitero che sappia riconoscere con realismo non solo gli inconvenienti, ma anche le buone possibilità che ogni momento storico offre per l’annuncio e l’accoglienza del Vangelo. Dall’altra parte, un presbitero che prima di tutto non dimentichi la propria condizione di essere umano, con le sue capacità e le sue debolezze; poi, che ricordi di essere anche lui un christifidelis, un fedele battezzato, chiamato a camminare insieme con gli altri battezzati e con gli altri esseri umani, per dare vita ad una comunità ecclesiale e ad una società civile, che siano pienamente a misura d’uomo e, proprio per questo, siano anche aperte alla dis-misura di quella “agape” che è il Dio di Gesù Cristo.

Testo della relazione tenuta da don Duilio Albarello, dottore in teologia e docente in varie Facoltà teologiche, al Convegno Tenda dell’Incontro Giovanni Giorgis, ospitato presso il Monastero di San Biagio Mondovì (CN), 2 agosto 2025.


[1] «La teologia dunque non è la fede dei sapienti: è, più semplicemente, il sapere dei credenti. In questo senso si può certamente dire che la fede, in quanto implica un sapere formulabile ed argomentabile, è incoativamente “teologica”» (P. Sequeri, L’istituzione teologica, in G. Colombo [a cura], Il teologo, Glossa, Milano 1989, 7-24, ivi 17).

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45 Commenti

  1. Nicola 3 settembre 2025
    • Giuseppina 4 settembre 2025
    • Kamar 4 settembre 2025
  2. Kamar 3 settembre 2025
  3. Alberto 2 settembre 2025
  4. Adriano Bregolin 2 settembre 2025
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  22. Francesco 31 agosto 2025
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  26. Enrico 31 agosto 2025

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