Dove va l’Occidente?

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Francesco, arrivando in Portogallo il 2 agosto scorso, ha chiesto all’Europa: «Verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? Verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? Dobbiamo riconoscere la drammatica urgenza di prenderci cura della nostra casa comune. Tuttavia, questo non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Non possiamo accontentarci di semplici palliativi o di compromessi timidi e ambigui».

Quo vadis?

Domande e appelli alla conversione, che appaiono sintetizzati nella critica radicale della posizione occidentale di fronte alla crisi di civiltà: Quale rotta segui, Occidente?

Solo un latino-americano, un alleato dei popoli indigeni e dei popoli deportati dell’Africa, un alleato degli impoveriti, può porsi questa domanda con la radicalità necessaria. È solo a partire dall’inserimento nei conflitti che affliggono i poveri di queste terre che un europeo può comprendere appieno la matrice violenta e predatoria della civiltà occidentale. È solo qui che è possibile riflettere sul conflitto costitutivo del processo di colonizzazione dell’Abya Ayala e di tutta la colonizzazione che ne è seguita, in Asia e in Africa.

Solo da qui non è più possibile nascondere e truccare il lato tragico e oscuro della dominazione occidentale, avvenuta come tragedia germinale nel XVI secolo e ripetuta con analoga intensità nella seconda colonizzazione dell’Ottocento e del Novecento, quando i poveri tedeschi, italiani e polacchi migrarono dall’Europa e, una volta stabilizzati economicamente, spesso a spese dei territori e del sangue degli indigeni, hanno creato un’enclave di bianchi, attualmente razzisti e suprematisti, che flirtano e sposano neofascismo e neonazismo.

Oltre l’Occidente

La malattia dell’Occidente convince anche gli sfortunati, che introiettano in sé la pratica e i pensieri dei loro nemici. Come nel caso, che non è un’eccezione brasiliana, della maggioranza dei poveri che costituiscono le decine di milioni di sostenitori del bolsonarismo.

Queste complicazioni, tuttavia, non arrivano al punto di ostacolare il discernimento dei conflitti e il partito che, senza dubbi ed esitazioni, dobbiamo sempre scegliere: il partito dei poveri, dei deboli, delle vittime.

Questa crisi dell’Occidente appare oggi anche in Europa e nelle sue estensioni occidentali, ma gli europei non hanno la possibilità di comprendere, elaborare e affrontare politicamente la crisi. Perché non vedono né capiscono che la storia è sempre stata il teatro della centralità del conflitto tra i poteri costituiti e le vittime dell’oppressione e dell’ingiustizia. Fissati come sono sui loro orizzonti identitari, erano – e sono tuttora – quasi ontologicamente incapaci di comprendere che la nostra storia è conflittuale e esige la coraggiosa determinazione di schierarci.

La radicalità della critica del mondo occidentale, tuttavia, non ci permette di optare per una demonizzazione manichea di questa civiltà, perché correremmo il rischio di scartare, insieme all’universalismo imperialista, naturalizzato, per secoli, dai regimi di cristianità, qualcosa che è forse prezioso, qualcosa di autenticamente universale, non contaminato dalla violenza etnocida della colonizzazione.

L’Occidente, nonostante tutto, ci lascia un’eredità preziosa e indispensabile, così fondamentale da sostenere l’ipotesi che questa possa servire a tutte le culture, quasi come un nuovo comandamento civilizzatore. O come una nuova e rivoluzionaria ispirazione per l’economia e la politica.

I difensori delle società gerarchiche, totalitarie e autoritarie non sono mai stati in grado di nascondere e seppellire le vittime del sistema. Il capitalismo non è il crimine perfetto perché, nonostante la sua immensa capacità di manipolare e intorpidire le coscienze, deve fare i conti con la presenza costante e insistente di una parte dell’umanità indignata, resistente, insorgente contro la violenza e la disuguaglianza.

Opposizioni

Da Spartaco a Geronimo, da Zumbi ad Antônio Conselheiro, da Sepé Tiaraju al Negro Cosme, da La Boétie a Bakunin, da Bartolomeu de las Casas a Frantz Fanon, dai tribuni della plebe fino alla rivoluzione sovietica, gli imperi furono costretti ad affrontare il conflitto, il confronto con i disobbedienti offesi. Sono generazioni e generazioni di umanità martirizzata e sconfitta, il cui sacrificio ravviva e si attualizza nella memoria sovversiva e nella lotta.

Quando sembrava che i disobbedienti avessero ottenuto vittorie significative contro il sistema e l’ideologia dominante, con la Rivoluzione francese e, più tardi, con la Rivoluzione russa, al contrario furono di nuovo sconfitti e vinti, perché queste rivoluzioni, che rivelavano pienamente “l’altra faccia della luna”, erano dirette da uomini e criteri che appartenevano al vecchio mondo. Al mondo del nemico.

Questo scontro dialettico è presente – direi “anche” e “soprattutto” nella biblioteca fondamentale del mondo occidentale: la Bibbia giudaico-cristiana, ispirazione e compagnia innegabile, anche se tradita, di tutta la storia europea.

Durò, per secoli, la convinzione che il Tempio e il Palazzo Reale, gestori dei testi canonici, fossero quasi riusciti a nascondere il protagonismo dei vinti della storia di Israele. Infatti, solo un’esegesi attenta alla dialettica, al conflitto, può salvare il ruolo teologico alternativo dei piccoli, delle donne, degli emarginati. Piccole luci in una notte in cui comandano i re, i sacerdoti, gli intellettuali della Legge, le élites, i guardiani delle istituzioni che garantiscono l’ordine sociale.

È Sandro Gallazzi che, con un’ermeneutica convincente, illumina la conflittualità costitutiva dei libri della Bibbia: «Ogni testo biblico è una risposta a una situazione concreta. Solo conoscendo la “domanda” possiamo essere in grado di capire la risposta, bisogna cercare quale conflitto ha prodotto il testo, qual è il dubbio, la crisi, la difficoltà concreta a cui bisognava rispondere»[1].

Il collettivo e la forza

In compagnia della Parola, è inevitabile ricordare un processo di opposizione e lotta contro le dittature civili-militari e il sistema capitalista, che ha avuto luogo nell’Abya Ayala, animato da cristiani e dalle comunità di base. Sono stati decenni, segnati da Medellín e Puebla, in cui sono emersi il Cristo liberatore e le teologie della liberazione. Un’occasione storica che ha rivelato pienamente, attraverso la mediazione cristologica e popolare, la centralità del conflitto nella vita e nella Bibbia. Un tempo di profeti e di martiri. Una profezia che, però, non è riuscita a riformare radicalmente le Chiese, mostrando che lo stesso conflitto che attraversa la storia è presente, negli stessi termini, nelle istituzioni e nelle prassi ecclesiali.

Ricordo una sintesi profetica di Pedro do Araguaia, che descrive questo tempo di grazia: «I proibiti della terra, le culture indigene o africane e le loro religioni, le masse popolari e i loro diritti, emergono come protagonisti, inevitabili per i protagonisti egemonici di sempre; e come protagonisti liberatori per l’America Latina di domani. Gli indigeni, i neri, le donne, i poveri, come una sorta di profeta collettivo, scuotono la società e la Chiesa, il Terzo Mondo stesso, dentro casa, e il Primo Mondo fuori e dentro»[2].

Decenni dopo, in tempi più avari di lotte e di profezie ecclesiali, persistono due verità incontestabili: il conflitto come codice costitutivo della storia e la vocazione messianica a schierarsi con i poveri. Tuttavia, è sempre più necessario riflettere sul “come”, sul metodo, sullo stile del discernimento e del confronto con i nemici della vita. E l’unica via necessaria e indispensabile è la sequela di Gesù di Nazaret, il Messia.

È accoglierlo come colui che vedeva nel conflitto l’inevitabile terra della semina del Regno. È accettare la sua presenza e la sua compagnia, la sua parola, la sua pratica, il suo stile, il suo modo di affrontare i poteri mortali di questo mondo, il suo destino di essere condannato a morte, crocifisso-risorto. Vittorioso, soprattutto quando dice: Papà, perdonali, perché non sanno quello che fanno (Lc 23,34).


[1] Gallazzi Sandro, Israele nella storia, il suo popolo, la sua fede, il suo libro, CEBI, São Leopoldo/RS, 2011, p.5.

[2] Pedro Casaldáliga, Agenda latino-americana 1993, p. 39.

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Un commento

  1. Giovanni 4 ottobre 2023

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